Donec'k - © Christelle Neant/Shutterstock

Donec'k - © Christelle Neant/Shutterstock

Famiglie divise non solo dalla linea del fronte, ma anche dal senso di appartenenza nazionale: chi con l'Ucraina, chi con la Russia occupante. Devastato dalla guerra, il Donbas continua a rifuggire alle facili dicotomie. Seconda puntata del nostro speciale dedicato alla regione contesa

"I miei nonni vivono ancora a Luhans'k, nei territori occupati", racconta Taras Bilous dalle retrovie di un accampamento militare ucraino. Come tanti, prima del 24 febbraio 2022, non si immaginava che gli eventi lo avrebbero portato a imbracciare un fucile e ad arruolarsi nell’esercito del proprio paese. Anzi, lo scoppio della prima fase del conflitto in Donbas dieci anni fa lo aveva spinto a impegnarsi politicamente e intellettualmente, come attivista nelle fila di alcuni gruppi della “nuova sinistra” come il collettivo Sotsialniy Rukh (“movimento sociale”) e come storico per la rivista Commons , nonché a credere nella possibilità di un processo di pacificazione non violenta, partecipando anche a proteste per la liberazione di oppositori russi incarcerati dal Cremlino. "Riassumere la situazione della regione in poche frasi è praticamente impossibile. A volte mi capita di parlare con i parenti che si trovano nelle zone occupate: mio nonno appoggia apertamente Mosca. Non so cosa dirgli", conclude mescolando una punta di imbarazzo con gli sbuffi provocati dal gelo di una serata novembrina.

Incomunicabilità fra conoscenti

Simili parole le usa anche Pavlo Yurov, regista teatrale, drammaturgo e performer - anch'egli originario della zona di Luhans'k (città di Antratsyt) - e di recente arruolatosi nell'ufficio stampa della prima brigata "Bureviy" della Guardia Nazionale Ucraina. "Fin dal 2014 mi sono sempre sentito a disagio per il fatto che l’area dell’Ucraina in cui sono nato e cresciuto fosse stata così facilmente manipolata dalla Russia", afferma nel tentativo di riannodare il filo degli ultimi dieci anni, e di un conflitto che fin da subito per lui non è stato affatto qualcosa di distante: nei primi mesi dopo la formazione delle repubbliche separatiste si era recato nei territori occupati per documentare la situazione e, come è successo ad altri, è stato sequestrato assieme a un suo collega dai “ribelli filorussi” per settanta giorni, subendo anche torture.

"Ma forse 'manipolata' non è il termine giusto", prosegue. "Credo che l’atmosfera fosse quella di una generica indifferenza, per cui il fatto che si verificassero episodi violenti veniva visto come qualcosa di normale, di accettabile. Prima dell’invasione su larga scala, ho continuato a confrontarmi con gli sviluppi in Donbas, soprattutto dal punto di vista artistico anche se, per via della diminuzione dei combattimenti e del 'processo di pace' di Minsk, la guerra diventava sempre più 'invisibile'. Mi erano rimasti alcuni parenti nelle zone occupate, che non ho contatto per lungo tempo. Quando mi sono deciso a parlare con uno di loro, era diventato impossibile comunicare".

Pavlo Yurov ci spiega che, per quanto ha potuto osservare, chi ora milita nelle fila dell’esercito ucraino e proviene dal Donbas è spesso influenzato dalla questione, proprio perché magari ha ancora parenti o conoscenti che vivono nelle zone occupate e teme ritorsioni da parte delle autorità separatiste nei loro confronti. Ma difficilmente ci sono ripensamenti o dubbi di natura morale: è chiaro a tutti che le zone vadano liberate, anche solo per immaginare una riconciliazione. "Al momento, possiamo dire che nei territori controllati dalla Russia vivono quattro categorie di persone", commenta. "C’è chi sostiene attivamente le forze d’occupazione, chi magari collabora con queste ultime ma perché vi si trova costretto dalle circostanze, chi è sostanzialmente indifferente a quanto sta succedendo o comunque lo subisce in maniera passiva, chi infine si sente filoucraino e porta avanti attività partigiane di vario tipo. Penso sia molto importante distinguere i diversi casi e tracciare una linea di separazione netta fra quanti devono essere considerati 'collaborazionisti' e quanti invece no".

Anche Taras Bilous esprime considerazioni simili, affermando che occorre in qualche modo fare i conti con le opinioni “confuse e contrastanti” che circolano fra la popolazione attualmente residente in Donbas, in particolare nelle aree che si trovano fuori dalla giurisdizione ucraina da circa dieci anni. "A livello ideale, forse, sarebbe buona cosa che organizzazioni internazionali, con l’assistenza delle Nazioni Unite, assumessero una parte attiva nella de-occupazione e successiva re-integrazione delle regioni controllate dai russi, magari prendendone temporaneamente la gestione per osservare il rispetto dello Stato di diritto da parte del governo ucraino. Soprattutto, per creare le condizioni affinché il futuro di questi territori sia il più possibile condiviso dalla popolazione locale".

A oggi, la questione appare puramente ipotetica visto lo “stallo” dei combattimenti, che vedono ancora parecchi morti sul campo e nessun comprensivo processo di recupero di territori. Anzi, la situazione è confusa pure dal punto di vista nominale, dal momento che la Russia ha deciso tramite dei referendum non riconosciuti a livello internazionale di annettere formalmente quattro oblast’ ucraine (Donec'k, Luhans'k, Kharkiv e Zaporižžja), parte dei quali sono al di fuori del suo controllo effettivo.

I processi per collaborazionismo

È vero, però, che il problema di come relazionarsi con le persone che sono rimaste sotto occupazione e che ora tornano a far parte dello stato ucraino si pone già da tempo. Dallo scoppio della guerra a oggi, infatti, nel paese sono stati avviati oltre 6mila casi giudiziari per sostegno e cooperazione illegale con le forze d’aggressione: più precisamente, episodi che ricadono sotto gli articoli del Codice Penale Ucraino 111-1 (“collaborazionismo”) e 111-2 (“favoreggiamento dello stato aggressore”), introdotti nel quadro legislativo poco più di un mese dopo l’inizio dell’invasione su larga scala. Stando ai dati resi pubblici (aggiornati a settembre 2023), i procedimenti giudiziari che ricadono sotto il primo articolo hanno la seguente distribuzione territoriale: il maggior numero è stato aperto nella regione di Kharkiv (1548), seguita da Luhans'k (1196), Kherson (1188) e Donec'k (881) – cifre che indicano una certa omogeneità del fenomeno rispetto alle zone geografiche, ma che al tempo stesso andrebbero messe in correlazione con le differenze di demografia dei diversi oblast.

Alcuni reportage sul campo, come quello pubblicato dal Kyiv Independent lo scorso agosto, suggeriscono che più ci si avvicina alla Russia, o comunque quanto più ci si inoltra nelle aree orientali del paese, più il sentimento generale della popolazione non sia così apertamente favorevole allo stato ucraino: a differenza di altre zone liberate come quella di Kherson – hanno raccontato al giornale alcuni soldati – una buona fetta di residenti rimasti a Kupiansk e dintorni (cittadina nell’oblast di Kharkiv, il cui sindaco ha peraltro accolto senza resistenza le truppe russe, offrendo anche il supporto dell’amministrazione) non hanno visto di buon occhio l’arrivo dell’esercito di Kyiv e anzi hanno reso difficile, quando non pericolose, le operazioni del personale militare. In generale, la progressiva riconquista di territorio da parte ucraina non è solo una questione di strategia o tattica militare, ma anche sociale, politica e perfino etica, che in Donbas diventa probabilmente acuta più che in altre zone.

"Il giudizio da parte dello Stato dei collaborazionisti è davvero un fenomeno di massa, che dovrebbe interrogare la coscienza di tutti", afferma Aleksei Arunian, giornalista che sta seguendo diversi processi per “collaborazionismo” che si svolgono nella zona di Donec'k e che non si è mai astenuto dal raccogliere testimonianze scomode (come quello di Valentyna Tkach e Tetiana Potapenko, residenti della cittadina di Lyman che durante i cinque mesi di occupazione hanno provveduto all’assistenza delle persone anziane, garantito cibo e materiale per riscaldarsi a chi viveva nell’area e perfino seppellito dei cadaveri; la seconda è stata condannata a cinque anni di carcere) o dall’evidenziare potenziali criticità (alcune delle quali fatte notare anche da un gruppo di organizzazioni non governative guidate da Zmina). "La mia impressione è che la società sia divisa. Alcuni pensano che non ci sia nessuna giustificazione per chi coopera con gli occupanti, altri capiscono che è sbagliato mettere in campo metodi poco umani e che occorra mantenere lucidità. Io credo che sia fondamentale giudicare caso per caso, nel rispetto dei fatti e indagando con onestà le motivazioni che spingono a compiere determinate scelte".

Realtà parallele

Nel contesto dell’invasione russa dell’Ucraina, però, i fatti hanno talvolta lo stesso peso delle interpretazioni. Soprattutto se si guarda ai passaggi pregressi che hanno condotto alla guerra, ancora oggetto di aspre discussioni in particolare all’estero - dove l’evidenza del massacro in corso è più lontana e si fanno magari più forti gli argomenti della propaganda messa in campo dal Cremlino.

In generale, la decisione compiuta dalle élite russe di aggredire militarmente il paese confinante ha portato giocoforza a rileggere gli eventi del passato, specialmente degli ultimi dieci anni: è senso comune in Ucraina, e altrove, vedere le proteste di Euromaidan e la conseguente cacciata di Janukovyč, l’annessione della Crimea, lo scoppio del conflitto in Donbas, le accuse reciproche nell’ambito degli accordi di Minsk e infine l’invasione del 24 febbraio 2022 come parte di un unico processo di volontà di allontanamento del popolo ucraino da Mosca e infine dell’ingerenza sempre più violenta da parte di quest’ultima.

In molti, legittimamente, nutrono retrospettivamente dei rimorsi per le concessioni fatte in seguito all’indipendenza: "Non avremmo mai dovuto cedere alla Russia il nostro arsenale nucleare", si ripete. Ma, appunto, la storia prende spesso strade che col senno di poi appaiono problematiche, e il modo in cui si vivono e si leggono questi percorsi porta poi a scelte personali divergenti, talvolta inconciliabili.

Il dossier

Se l’invasione su larga scala dell’Ucraina sta entrando nel suo terzo anno, sono quasi dieci gli anni di aggressione e ingerenza russa nel paese, cominciati nel 2014 con l’annessione della Crimea e continuati con la guerra ibrida in Donbas. Molto è cambiato rispetto alla ‘prima fase’ della guerra russo-ucraina, ma il Donbas è rimasto una delle poche costanti: la regione continua a essere la zona più colpita, a livello umano e materiale, dai combattimenti. Un’ulteriore tendenza della “questione del Donbas” è che ad affrontarla siano molto più spesso giornalisti e analisti mai vissuti in quell’area – che si tratti di russi, ucraini occidentali o esperti stranieri – rispetto a chi nel Donbas è nato e cresciuto.

Il nostro progetto, composto da dieci puntate, nasce con l’obiettivo di raccontare gli eventi del recente passato della regione contesa con la consapevolezza e lucidità dell’oggi. Reintegrare il Donbas è diventato una priorità politica imprescindibile per Kyiv, mentre il congelamento dello status quo è essenziale negli obiettivi bellici di Mosca. Nessuna delle due parti in conflitto affronta però realmente le specificità della popolazione locale, o di ciò che ne è rimasto. Abbiamo raccolto numerose voci del Donbas “reale” che hanno lasciato la regione nel 2014-15 per trasferirsi altrove, in Ucraina o in Europa. Posizioni fortemente anti-Cremlino, ma mai acriticamente a supporto dei governi ucraini. Abbiamo chiesto loro quale presente e futuro vedono per il Donbas, una casa in cui temono di non ritornare mai più.

Il Donbas: dieci anni nella nebbia. Un’introduzione