L’Holodomor (letteralmente "morire di fame") è diventato, a cavallo degli anni ’90 e il nuovo millennio, una elemento fondante nel processo di nation building dell'Ucraina post-sovietica. Tra le più grandi tragedie del Novecento, secondo alcuni storici è servito a rafforzare l’identità memoriale e culturale del popolo ucraino
Lo Stato italiano riconosca l’Holodomor, la carestia artificiale del 1932-33 in Ucraina, come uno «spaventoso genocidio contro il popolo ucraino e contro l'umanità» provocato dalla collettivizzazione forzata delle campagne da Stalin e nomenclatura comunista. È questa la richiesta della petizione promossa da ForzaUcraina.it e sottoscritta da numerosi accademici, giornalisti, intellettuali e attivisti. La domanda ha avuto il parere positivo della Commissione Affari Esteri del parlamento italiano e si trova ora al Senato.
Nel dicembre 2022 il Parlamento europeo aveva riconosciuto a larga maggioranza l’Holodomor come genocidio degli ucraini sulla scia di Germania, Stati Uniti, Vaticano oltre a Polonia, Georgia e paesi baltici, per citare i paesi più sensibili sul tema portato avanti dall’Ucraina sin dalla sua indipendenza, e diventato stringente dalla presidenza di Viktor Yushchenko in seguito alla Rivoluzione Arancione del 2004.
L’Holodomor, infatti, è diventato, a cavallo degli anni ’90 e il nuovo millennio, una tragedia fondante nel processo di nation building dello stato post-sovietico. Secondo lo storico Andrea Graziosi l’Holodomor – iscritto fra le più grandi tragedie europee e comparabile solo ai successivi crimini nazisti – è servito a rafforzare l’identità memoriale e culturale di un popolo, in maniera simile a quello del genocidio armeno.
Nel 2006 venne creato l’Istituto ucraino della memoria nazionale. È infatti in quegli anni che la storia dell’Ucraina comincia ad assumere notevole rilevanza nel dibattito pubblico interno, con tendenze polarizzanti su alcuni temi, in parte l’Holodomor stesso ma soprattutto il nazionalismo OUN-UPA . L’oblio della storiografia sovietica, con le sue manipolazioni ideologiche sotto il velo della “fratellanza dei popoli”, aveva nascosto agli ucraini lo studio delle pagine più buie del Novecento. Ciò avveniva all’interno di un paese che aveva conosciuto la più efferata violenza, e aveva perso, proporzionalmente, più popolazione della Russia durante gli anni della Seconda guerra mondiale.
È il periodo immediatamente precedente ad essa, quello degli anni ’30 – quelli della collettivizzazione e del Grande Terrore staliniano – ad aver aperto una ferita insanabile nel popolo ucraino, e nella sua coscienza nazionale stroncata dopo la flebile apertura degli anni ’20. L’indigenizzazione voluta da Lenin («nazionalista nella forma, socialista nel contenuto») che aveva portato a una fioritura della cultura ucraina durante i primi anni di esistenza dell’Unione sovietica lasciava lo spazio alla repressione e centralizzazione del paranoico Stalin, che guardava sospettosamente al nazionalismo nelle repubbliche, e a quello ucraino in modo particolare come infiltrato da agenti segreti polacchi.
In questa ottica è difficile scindere l’attentato ai kulaki come classe sociale nemica del regime comunista, e quello agli ucraini come popolo la cui radicata identità avrebbe potuto scuotere i piedi d’argilla della neonata potenza sovietica. Gli studiosi, difatti, hanno a lungo dibattuto sulla questione del genocidio nell’analisi dell’Holodomor.
Le posizioni coprono uno spettro abbastanza ampio, da chi focalizza lo sguardo sulla decisività del fattore etnonazionale a chi, al contrario, guarda alla carestia come a un genocidio “sociale” verso la classe contadina e dei kulaki, non diretta esclusivamente contro gli ucraini. Quest’ultima posizione - spinta agli estremi - ha portato alla deresponsabilizzazione di Stalin e dei vertici sovietici nella tragedia, sul solco della narrazione sovietica e, successivamente, di quella russa.
In realtà, fu soprattutto in Ucraina che la repressione contro i contadini assunse la forma di una repressione contro i sostenitori intellettuali, compresi insegnanti scolastici, e politici della korenizacija, mentre in altre aree colpite dalla carestia, fra cui il Kazakistan, il nazionalismo di un popolo definito “culturalmente arretrato” e lontano da influenze straniere venne inquadrato come un problema di secondo ordine per i vertici stalinisti rispetto allo sciovinismo grande russo.
Lo storico Marcello Flores, nel suo libro Il Genocidio (Il Mulino, 2020), sostiene che in aggiunta alla questione contadina vi era pure la volontà di colpire il gruppo nazionale ucraino. Secondo Flores, soprattutto in seguito all’apertura degli archivi sovietici, l’Holodomor del 1932-33 sembra possedere le caratteristiche formulate dalla definizione di genocidio adottata nel 1948 dalle Nazioni Unite.
Quest’ultima era stata elaborata quattro anni prima dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin, nato e fuggito dall’Impero russo dopo aver pure condotto una parte degli studi universitari a Leopoli, che in un discorso del 1953 contestò la vaga definizione di mass murder alla carestia di Stalin ma definendolo come un «caso di genocidio, di distruzione, non solo degli individui, ma di una cultura e di una nazione».
Il terrore staliniano si scagliò su due livelli: verso i contadini colpevoli di sabotare le irrealistiche quote di requisizioni previste dai piani di collettivizzazione, e verso il ceto politico e intellettuale ucraino colpevole di essere troppo morbido con la propria popolazione. Mentre Chubar, Skrypnyk e altri politici ucraini coscienti di ciò che stava avvenendo nei villaggi ucraini chiedevano aiuti a Mosca, le autorità punivano i kolchoz ribelli tagliando rifornimenti di beni di base e confiscando qualsiasi altra cosa potesse essere mangiata. Molti vertici comunisti ucraini, tra cui lo stesso Skrypnyk, si sarebbero volontariamente tolti la vita di fronte all’insensato dramma degli eventi.
Chiunque venisse sorpreso rubare anche poche spighe di grano era condannabile alla pena capitale, mentre si proibiva di fare riferimento nelle lettere ufficiali al termine golod, fame nel senso di carestia. L’Ucraina aveva minimizzato le perdite durante la carestia del 1932, ma tra la primavera e l’estate del 1933, quando le scorte di cibo finirono definitivamente, la morte per fame divenne un fenomeno di massa.
L’area dell’Ucraina centrale, compresa l’area di Kyiv e Kharkiv, fu quella più colpita; anche le zone di Odessa, Dnipropetrovsk e del Donbas osservarono tuttavia centinaia di migliaia di morti in più rispetto alla media – le minori perdite erano da imputare alla scelta di Mosca di «tenere in vita gli abitanti delle aree più produttive».
Le prime stime conservative calcolate dallo storico britannico Robert Conquest nel 1986 attestavano le perdite intorno ai 5 milioni di persone. Prendendo in analisi un’enorme quantità di dati demografici, Vallin nel 2002 giunge a una cifra simile di 4,6 milioni: 2,6 milioni per mortalità diretta, 1 milione come conseguenza del calo delle nascite e 0,9 milioni come emigrazione forzata. Lo stesso studio demografico analizza pure l’impatto nel quindicennio seguente di repressione e Seconda guerra mondiale, delineando una terrificante cifra di 13,8 milioni di perdite complessive in Ucraina a partire dalla carestia artificiale. L’adozione stessa del termine Holodomor, secondo Graziosi, appare dunque «legittima, e anzi indispensabile per operare la distinzione tra la fame pansovietica del 1931-1933 e quella ucraina dopo l'autunno del 1932»
In seguito alla carestia, è un eufemismo dire come la popolazione sia stata decimata: dal 1932 al 1934 morirono in conseguenza della fame una persona su otto, lasciando un trauma generazionale alla società ucraina. Esso rimarrà il lato più oscuro della storiografia sovietica anche dopo la destalinizzazione, e pure molti giornalisti occidentali che visitarono l’Ucraina in quegli anni scelsero di negare la tragedia per compiacere Stalin: il caso più celebre, probabilmente, fu l’inviato da Mosca del New York Times Walter Duranty, discreditato poi dallo stesso giornale americano.
La negazione delle responsabilità di Stalin e dei vertici sovietici fa pure parte della narrazione ufficiale sulla carestia del Cremlino, che da ben prima della guerra (sia del 2022, che del 2014) tenta di delegittimare a livello internazionale la posizione ucraina che tenta il riconoscimento dell’Holodomor come genocidio del popolo ucraino.
Questa negazione aveva pure spaccato il dibattito pubblico in Ucraina a cavallo degli anni Dieci del nuovo millennio, quando il presidente filorusso Viktor Janukovich aveva tentato di “cancellare” la memoria dell’Holodomor, dopo che il suo predecessore Yushchenko l’aveva legata all’identità del paese e un voto parlamentare del 2006 aveva riconosciuto la carestia come genocidio.
In questo senso, il discorso moderno in Ucraina intorno alla carestia aveva creato una spaccatura tra forze politiche favorevoli alla democratizzazione del paese e quelle legate alla nostalgia comunista e panrussa. Una spaccatura divenuta sempre più anacronistica, in virtù della nuova realtà posta dall’invasione russa. Fra i pochi lati positivi di essa, c’è la possibilità di affrontare una delle più grandi tragedie del Novecento senza paraocchi ideologici.