L’hanno legata a un palo, hanno fatto finta di fucilarla, hanno lasciato che la folla si divertisse a picchiarla, l’hanno presa a calci. Forse l’avrebbero uccisa, ma una foto le ha salvato la vita. Abbiamo incontrato Irina Dovgan, la donna ucraina vittima della giustizia dei separatisti di Donetsk
Ha un sorriso che ti rasserena. Oggi, non diresti che la donna che hai di fronte e che con voce calma ti parla sia la stessa donna ritratta in quelle foto del New York Times che hanno fatto il giro del mondo. Irina Dovgan è stata sequestrata in casa sua dagli uomini armati della Dnr, la Donetskaja narodnaja respublika, che da mesi governa la regione separatista del Donbass. È stata per quattro giorni nelle mani di una banda di osseti, legata a un termosifone nel quartier generale del famigerato battaglione Vostok. Picchiata, torturata, umiliata. “Quando sono venuti a prendermi a casa, la prima cosa che hanno fatto è stata prendere tutti i soldi che hanno trovato e le carte di credito. Prima ancora di interrogarmi, hanno voluto sapere i pin. Glieli ho detti subito”.
Irina ha 52 anni. Prima dell’inferno viveva nel sobborgo di Yasynuvata, a dieci minuti dal centro di Donetsk, faceva l’estetista. Quando i militari dell’Ato, l’operazione militare di Kiev per la riconquista delle province dell’est, hanno cominciato a guadagnare terreno e ad avvicinarsi alla città, lei e altre donne hanno organizzato una raccolta di aiuti, cibo, coperte per la notte, medicinali. I separatisti l’hanno scoperta, hanno trovato le sue foto con i soldati ucraini sul suo ipad, hanno deciso di darle una lezione come si deve.
L’inizio dell’incubo
“Quelli che mi hanno preso erano ucraini del Donbass, gente della mia terra. Volevano sapere i nomi delle altre persone che mi aiutavano nella raccolta per i soldati”. Irina non ha fatto i nomi, e così è iniziato il suo incubo. “Mi hanno passato a quelli del battaglione Vostok. Erano osseti, mi hanno detto. Hanno cominciato a interrogarmi e picchiarmi. Erano una decina nella stanza, e io a terra in mezzo a loro. Ognuno aveva la sua tortura preferita. A uno piaceva picchiarmi per costringermi a fare il saluto nazista, a un altro sparare con la pistola a pochi centimetri dalla mia testa. Mi hanno spogliata, volevano spruzzarmi lo spray al peperoncino in faccia. Facevano a turno, gli altri guardavano. Ce n’era uno [l’uomo delle foto, NdA] a cui piaceva molto darmi un calcio in pieno petto e farmi volare a terra. Era tremendo, faceva malissimo, non riuscivo a respirare per interi minuti, lui rideva, lo divertiva moltissimo, poi mi faceva alzare e mi faceva volare con un altro calcio. Mi ha rotto due costole. Ma tutto questo non è stato niente finché non hanno minacciato di stuprarmi. ‘Quanti uomini vuoi, dieci, venti?’. È stato allora che ho chiesto che mi uccidessero subito, lì stesso”.
La storia di Irina non è l’unica. Lei stessa nei suoi giorni di prigionia ha incontrato molti prigionieri, arrestati sulla base di un sospetto, una denuncia di un vicino, una foto pubblicata sui social media. Un recente rapporto di Human Rights Watch ha documentato direttamente almeno una ventina di casi di abusi e torture da parte delle autorità separatiste, testimoniando che si tratta di una pratica diffusa nei territori fuori dal controllo di Kiev. Irina è, però, forse l’unica a raccontare la sua storia apertamente, a scommettere sulla denuncia pubblica dei suoi carcerieri. E quello che le è successo dice anche qualcosa sul concetto di giustizia degli autoproclamati leader separatisti.
La gogna di Irina
“Il secondo giorno mi hanno portata fuori dalla prigione. È stato allora che mi hanno legata a un palo della luce, vicino a una trafficata rotatoria, un posto che conoscono tutti a Donetsk col nome di ‘Motel’”. L’hanno avvolta in una bandiera ucraina, le hanno messo un cartello al collo: “Questa donna uccide i vostri figli”. È bastato. Nonostante fosse mattina presto e per le strade di Donetsk si avventurassero in pochi, una piccola folla si è radunata attorno a Irina. “Una donna ha fermato la macchina, ha tirato fuori dal bagagliaio dei pomodori e me li ha spremuti in faccia. Una vecchia che passava di lì mi ha preso a bastonate, un’altra a schiaffi, un’altra ancora a calci. Erano quasi tutte donne, gli uomini si limitavano a guardare oppure a fare foto. Eppure, essere lì era un sollievo rispetto alle sevizie in prigione e all’incubo costante dello stupro”.
La gente sfogava i propri istinti più vili, ma ai carcerieri di Irina non bastava. “L’uomo che si vede nelle foto, uno degli osseti, incitava le donne a picchiarmi. Diceva che per quello che ho fatto era il trattamento che meritavo”. Umiliata, terrorizzata, picchiata. “Lo sapevo che la mia gente è aggressiva, la gente del Donbass è violenta. Potevo aspettarmelo dai miei carcerieri, ma non potevo immaginare che le donne come me potessero arrivare a tanto odio”.
Tra la folla, Irina ha distinto un uomo che faceva foto. Era diverso dagli altri, vestito meglio, sembrava una persona per bene. “Gli ho chiesto aiuto con gli occhi, ma quell’uomo ha fatto le sue foto e se n’è andato”. Irina non poteva immaginare che quegli scatti sarebbero stati la sua salvezza.
Una foto che salva la vita
Il mattino dopo, l’immagine di Irina legata a un palo e presa a calci era sul New York Times. E da lì, rimbalzava sul web in tutto il mondo. “Lo sai che sei una star su internet?”, le ha detto uno dei carcerieri mettendosi a ridere. Per loro era una cosa di cui andare fieri. “Hanno smesso di picchiarmi, però, e mi hanno lasciata ammanettata al termosifone. La notte seguente mi sono venuti a prendere, ero sicura che mi avrebbero stuprato, mi sono messa a piangere e gridare. Mi hanno portato in un’altra ala del palazzo, dal comandante del battaglione, Aleksandr Khodakovskij”. Nella stanza del capo c’erano altri prigionieri, militari, e dei giornalisti. Khodakovskij si è avvicinato a Irina e le ha chiesto: “Sei tu la donna delle foto su internet?”. Lei ha detto di sì ed è scoppiata a piangere. Uno dei giornalisti si è avvicinato e le ha detto di stare tranquilla, perché il peggio era passato. Era l’inviato di guerra del Sunday Times, Mark Franchetti. “Aveva visto le mie foto, conosceva bene Khodakovskij, è in buoni rapporti con lui, gli ha parlato di me e mi ha fatto liberare”.
Al momento di lasciarla andare, Khodakovskij ha visto i lividi sul suo corpo e le ha chiesto chi le avesse fatto del male. “Come faccio a dirlo?”, ha risposto Irina. “Mi hanno picchiato in così tanti, non li guardavo mica in faccia, ero a terra, cercavo solo di proteggermi. Uno solo l’ho visto bene, è quello delle foto che si divertiva a prendermi a calci”. Khodakovskij ha promesso che avrebbe punito quegli uomini, ma pochi giorni fa un uomo anziano è stato sottoposto allo stesso trattamento e il video è stato caricato sul web. “Succede ogni giorno”, dice Irina. “La gente sparisce, viene uccisa o torturata ogni giorno in Donbass, e nessuno sarà mai punito. Nel mondo non se ne parla, ma bisogna dirlo forte. Un giorno tutte queste storie saranno raccontate”.