Bandiera ucraina © rospoint/Shutterstock

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Con grande lucidità e schiettezza l’analista politico Ivan Krastev offre un’analisi dettagliata della scena internazionale, a partire dalla situazione bellica scatenata con l'invasione dell'Ucraina da parte della Russia

27/03/2024 -  Sławomir Sierakowski

(Originariamente pubblicato da Project Syndicate , poi ripreso da Peščanik , il 9 marzo 2024)

 

La guerra in Ucraina è entrata nel suo terzo anno e in pochi credono che la Russia possa essere sconfitta. Lei come vede il futuro dell’Ucraina?

Penso che la sua osservazione sia troppo cupa. Gli eventi degli ultimi due anni testimoniano un palese fallimento strategico del presidente russo Vladimir Putin. Quando aveva lanciato la sua “operazione speciale” credeva che l’Ucraina sarebbe caduta in tre giorni. D’altra parte però, Putin è riuscito a convincere gran parte dei russi di essere coinvolti in una guerra infinita contro l’Occidente, guerra che [secondo Putin] non è stata innescata dalla Russia.

Perché questo punto è importante?

Perché dimostra che nessuno in Russia rimprovera a Putin il fatto di non aver raggiunto l’obiettivo prefissato. È proprio grazie a questo clima, e alla capacità di Putin di normalizzare la guerra a livello della vita quotidiana – il tenore di vita dei cittadini russi non è peggiorato (almeno non dal punto di vista economico) – che il presidente russo riesce a portare avanti la sua strategia a lungo termine.

Putin è convinto che il tempo giochi a suo favore: il sostegno occidentale all’Ucraina diminuirà portando gli ucraini allo stremo, così la Russia non dovrà intraprendere un’altra offensiva. Questo punto è importante, perché un’eventuale perdita di altri soldati russi in una nuova grande offensiva potrebbe danneggiare Putin. Quindi, il presidente russo aspetta, e nel frattempo distrugge le infrastrutture ucraine.

Vi è un altro aspetto che va a vantaggio di Putin. Come dimostrano i risultati di un sondaggio condotto dal Consiglio europeo per le relazioni estere (ECFR), la maggior parte dei cittadini dei paesi non occidentali (ad eccezione della Corea del Sud) crede che assistiamo ad una “proxy war” (guerra per procura) tra gli Stati Uniti (e l’Occidente) da una parte e la Russia dall’altra. Questo significa che la narrativa bellica russa ha preso piede in diverse parti del mondo, comprese le nuove potenze come Brasile, India e Cina. Da questo punto di vista, la Russia non è così isolata come molti sono portati a credere.

Perché l’atteggiamento nei confronti delle prospettive militari dell’Ucraina è cambiato così tanto?

L’attuale debolezza dell’Ucraina è dovuta innanzitutto alla riduzione del sostegno occidentale (sia economico che militare). Tuttavia, l’Ucraina ha anche un problema demografico. Si stima che l’età media dei soldati ucraini sia intorno ai 43 anni . Per questo l’Ucraina sta cambiando il suo approccio alla guerra difensiva. Gli ucraini con ogni probabilità riusciranno a difendere le loro posizioni, ma non otterranno di più.

Un altro punto riguarda i negoziati di pace. Dubito che Putin sia disposto a impegnarsi in un dialogo prima delle elezioni americane, anche se potrebbe far intendere che la Russia sia pronta a negoziare, pur di portare ad un ulteriore indebolimento del sostegno occidentale all’Ucraina. Una tattica che i paesi occidentali, che auspicano la fine della guerra, potrebbero non riuscire a valutare in modo oggettivo. Talvolta ho l’impressione che la leadership ucraina sottovaluti le difficoltà che Stati Uniti ed Europa hanno nel tentativo di fornire aiuti finanziari e armi [all’Ucraina].

Ad ogni modo, l’esito delle elezioni europee a giugno e di quelle americane a novembre sarà cruciale per lе prospettivе  dell’Ucraina. Però conta anche la situazione politica interna. Le tensioni tra quelli che sono in prima linea e il resto della popolazione si stanno acuendo. Diversi gruppi danno la colpa dell’attuale situazione ad alcuni attori politici, suggerendo che la prossima grande sfida per l’Ucraina sarà mantenere l’unità politica del paese.

Qual è l’obiettivo generale di Putin? Spera ancora di conquistare l’intera Ucraina o soltanto di mantenere i territori già annessi? Mi torna in mente un'affermazione  dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Zbigniew Brzezinski, secondo cui senza l’Ucraina non può esserci un impero russo…

Il piano poggia sulla seguente logica: ciò che desideri dipende da ciò che puoi ottenere. La leadership russa con ogni probabilità sta valutando diversi scenari. Se si presenterà l’occasione di conquistare città come Odessa o Mykolaiv – uno scenario che potrebbe emergere a causa dell’evidente debolezza dell’Ucraina e dei paesi occidentali – i russi la sfrutteranno. Per quanto riguarda invece la conquista dell’Ucraina occidentale, sono perplesso, soprattutto perché non sarebbe facile tenere insieme e controllare quell’intero territorio.

Putin improvvisa, come un musicista jazz. Quando vede la debolezza, la sfrutta. È importante tenere a mente questo aspetto in caso di eventuali negoziati. Detto questo, a meno che la Russia non venga completamente sconfitta, l’unica pace che Putin potrebbe accettare è quella in cui la Russia mantiene il controllo dei territori finora occupati.

Fin dove si spingerà Putin? È ancora interessato a prendere Kyiv?

Dipende da come valuta la situazione in un dato momento. C’è stato un periodo in cui la conquista della capitale ucraina sembrava un’ipotesi tutt’altro che irrealistica. Inoltre, molti punti critici dell’economia ucraina – dai porti alla principale industria della difesa nell’area di Dnipro e Kharkiv – si trovano nel raggio di 160 chilometri (100 miglia) dal campo di battaglia. Non dimentichiamolo. I russi cercheranno di conquistare questi punti se ne avranno l’occasione. È assurdo credere il contrario.

Va bene, però nello scenario più probabile Putin cercherà di creare una situazione di stallo oppure di preservare i territori già occupati. Sembra che l’Occidente stia pian piano accettando questo scenario. Se lo status quo dovesse protrarsi per mesi, o persino per anni, quale impatto avrebbe tale situazione sui paesi occidentali?

Lo status quo è una guerra. Potremmo invece chiederci cosa accadrebbe se l’Occidente accettasse di lasciare una parte del territorio ucraino sotto il controllo di Putin. Una recente ricerca dell’ECFR può offrire alcuni spunti. È curioso notare come la maggior parte degli europei e degli americani non creda che i loro paesi siano in guerra contro la Russia. Eppure, l’opinione generale è: se l’Ucraina vincerà, sarà una nostra vittoria; se invece l’Ucraina perderà, la sconfitta sarà tutta sua.

Le stesse persone che credono che la Russia vincerà, per la maggior parte credono anche che tra vent’anni non ci sarà più l’Unione europea. Vi è un grande divario tra il vero significato della guerra in Ucraina e la percezione che ne ha l’opinione pubblica di molti paesi.

L’Ucraina accetterebbe di rinunciare ad alcuni territori solo se dovesse avere garanzie di sicurezza, cioè l’adesione alla NATO o un nuovo accordo bilaterale con paesi come gli Stati Uniti o il Regno Unito, accompagnato dalla promessa di adesione all’UE. Altrimenti, nel paese continuerà a regnare la totale instabilità, sia dal punto di vista economico che militare.

C’è qualche buona notizia?

La buona notizia è che la situazione lungo la linea del fronte sta cambiando. La situazione quotidiana è ancora ben lungi dall’essere rosea, non dimentichiamo però quanto fosse terribile una settimana dopo l’invasione, quando la Russia controllava un’area molto più ampia. L’Ucraina forse riuscirà a garantire armi sufficienti grazie ai propri impianti di produzione e all’aiuto dell’Occidente, così da poter portare avanti la mobilitazione e recuperare una parte dei territori perduti (anche se i leader militari non annunceranno questa ipotesi in anticipo).

Al momento, però, la Russia è in vantaggio, ed è importante essere realisti su questo punto. È facile per gli europei e gli americani far finta che non siamo in guerra, essendo ancora incantati dalla sorpresa del 2022, quando un susseguirsi di vittorie dell’Ucraina aveva creato l’illusione che la Russia fosse una tigre di carta sul punto di sbriciolarsi. Nel frattempo, il Cremlino ha compiuto con successo il passaggio ad una guerra economica. La mobilitazione russa non è più sostenuta da motivazioni nazionaliste, bensì da interessi commerciali. La Russia è riuscita a mobilitare le persone giuste che hanno soldi. Inoltre, la qualità dell’esercito russo è migliorata rispetto ai primi mesi di guerra.

Se oggi gli occidentali sembrano troppo pessimisti, è in parte perché prima erano troppo ottimisti.

Negli ultimi mesi i falliti tentativi degli Stati Uniti e dell’Europa di raggiungere un accordo su un invio tempestivo di armi e di pacchetti di aiuti [all’Ucraina] hanno riportato in superficie alcune debolezze dell’Occidente. Come interpretare questa dinamica?

Uno degli aspetti più importanti che osservo è che le minacce esterne ormai non bastano più a generare qualsiasi forma di unità o mobilitazione nazionale nelle democrazie occidentali. La Polonia ne è un ottimo esempio. Vi è un ampio consenso pubblico sul fatto che la guerra russa in Ucraina rappresenti una minaccia per la Polonia, eppure la politica polacca è ancora incentrata sulla lotta contro i nemici interni. Lo stesso vale per gli Stati Uniti. Per Donald Trump e i suoi seguaci, il presidente Joe Biden rappresenta una minaccia molto più grande di Putin. Ecco perché i politici assumono posizioni pensate esclusivamente nell’ottica di una vittoria alle prossime elezioni, senza preoccuparsi affatto delle conseguenze della guerra.

Temo che i vertici ucraini siano sempre più preoccupati non solo per la disponibilità delle tecnologie più avanzate, ma anche per la fornitura di armi e munizioni essenziali. Questa preoccupazione porterà a ulteriori scontri politici, come quello a cui si è assistito di recente con la rimozione del capo [dell’esercito ucraino]. Tali escalation si verificano quando non ci sono alternative. I prossimi mesi saranno estremamente importanti, perché con l’avvicinarsi delle elezioni negli Stati Uniti, Biden avrà sempre meno opzioni. I repubblicani hanno dimostrato di non essere disposti a collaborare con Biden in alcun modo.

Lei è pessimista riguardo al futuro dell’UE e degli Stati Uniti?

Non sono particolarmente ottimista, ma non credo nemmeno che il corso degli eventi sia predeterminato. Nonostante la situazione in Russia sia abbastanza stabile, il paese sarà costretto a fare i conti con grossi problemi a lungo termine. Quindi, dovremmo chiederci se [in Europa] ci sia una leadership adeguata e un’opinione pubblica abbastanza attenta per comprendere che era dagli anni ’40 che l’Europa non affrontava una situazione come quella attuale. Ci sono talmente tante crisi globali che risulta difficile mantenere alta l’attenzione e l’interesse delle persone. È molto più facile concentrarsi sui giochi politici interni.

Un aspetto altrettanto importante riguarda i social media, che in molti paesi hanno alimentato una polarizzazione politica così profonda che i cittadini percepiscono gli stessi eventi in modo radicalmente diverso. Alcuni credono che il destino dell’Ucraina non avrà alcun impatto sull’Europa, altri invece – come il governo ungherese e quello slovacco – pensano che l’UE non debba nemmeno interessarsi della questione ucraina.

Non dovremmo essere così critici nei confronti della Russia – dicono – lasciamo che conquisti l’Ucraina, così sarà impegnata nel processo di annessione di un intero paese. Ovviamente, è uno scenario irrealistico. [Un’eventuale conquista dell’Ucraina da parte della Russia] scatenerebbe invece una crisi nei paesi baltici e in altri paesi vicini (ad eccezione forse della Scandinavia) e la gestione degli affari europei diventerebbe ancora più difficile.

Perché la guerra in Ucraina non è un campanello d’allarme per tutti gli stati membri dell’UE?

Il problema è che anche chi si è svegliato può rimanere a letto, come hanno fatto molti in Europa. Una recente ricerca dell’ECFR dimostra che i cittadini europei sono divisi in cinque gruppi in base alla loro percezione delle crisi. Se in alcuni paesi, come Polonia ed Estonia, la guerra in Ucraina è considerata la crisi più grande, in Germania a preoccupare maggiormente i cittadini è l’immigrazione, in Italia l’economia e nel Regno Unito il Covid 19.

Le probabilità che Biden venga rieletto sono così scarse come sembra, oppure ci sono dinamiche che a noi (e ai media) europei sfuggono?

Ci sono due candidati impopolari. Pur essendo entrambi anziani, l’età sembra essere il problema più grande per Biden. Tuttavia, negli ultimi due mesi la fiducia dei consumatori statunitensi è cresciuta e Biden con ogni probabilità può contare sul fatto che questa tendenza prosegua. Il punto più importante però è la capacità di mobilitare gli elettori. Nonostante il bacino dei potenziali elettori dei democratici sia più ampio, Trump è assai persuasivo nel mobilitare la base del Partito repubblicano.

In politica però otto mesi sono tanti. Biden si trova ad affrontare alcuni grossi problemi, e né la guerra in Ucraina né il conflitto in Medio Oriente giocano a suo favore. Gli americani sono stanchi delle guerre. Durante una recente visita negli Stati Uniti, parlando con i politici repubblicani, sono rimasto colpito dal loro isolazionismo. “Cosa stiamo facendo in Ucraina?”, hanno chiesto. “Cosa stiamo facendo in Medio Oriente?”. Per molti repubblicani che sostengono Trump (e lo sostiene la maggior parte dei repubblicani), l’unica guerra che vale la pena combattere è quella contro l’odiato “Stato profondo”, che comprende non solo il Pentagono e la CIA, ma anche le aziende big tech, la grande industria farmaceutica, etc.

Altrettanto rilevante è il divario generazionale, emerso prepotentemente durante la guerra di Gaza. Il problema qui non è che Biden sia ignaro della presenza dei suoi giovani elettori nelle università, è che non riesce a capire cosa stiano facendo, come anche loro non capiscono perché Biden sostenga Israele. Si tratta di una divisione alquanto nuova, e molto importante, all’interno del Partito democratico.

A tal proposito, mi tornano in mente le elezioni russe del 1996. Da un lato c’era Boris El’cin, ormai anziano e sempre meno adatto [all’incarico di presidente], i cui sostenitori dicevano: “Questa è una lotta per la democrazia; pur non essendo il candidato migliore, è l’unico candidato che abbiamo”. Dall’altro c’era Gennadij Zjuganov del Partito comunista, candidato che avrebbe cambiato tutto. All’indomani delle elezioni, vinte da El’cin, molti si chiesero: “Chi è veramente al potere?”. Credo che tale incertezza negli Stati Uniti avrebbe gravi ripercussioni sul mondo intero.

A mio avviso, Biden ha fatto tutto il possibile per rafforzare il ruolo degli Stati Uniti a livello globale. Un’impresa che però implica anche la necessità di comprendere i limiti del potere americano. Se pensiamo a quanto sta accadendo in Yemen, dove i miliziani [huthi] hanno bloccato le rotte commerciali, è chiaro che l’influenza esercitata dagli Stati Uniti sui suoi alleati, come Israele e Ungheria, col tempo è diminuita. Il livello di incertezza e insicurezza raggiunto è tale che nessuna vittoria elettorale può innescare un immediato ritorno alla stabilità.

Ritiene che oggi i leader politici siano meno capaci di raggiungere gli obiettivi prefissati rispetto al passato? L’importanza della leadership politica è diminuita man mano che è aumentata l’importanza di grandi forze sociali, economiche e tecnologiche?

Se di recente si è assistito all’indebolimento dell’influenza di alcuni leader politici, di certo non si può parlare di un fenomeno universale. Da un lato, la Cina non è riuscita a incidere sulle recenti elezioni a Taiwan, e ora si trova costretta a sopportare un presidente taiwanese che non le piace. D’altro lato, i leader politici di alcune delle cosiddette potenze medie stanno diventando sempre più influenti, come il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, il primo ministro indiano Narendra Modi, i principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e altri.

Alcuni esponenti della leadership ucraina mi hanno detto che ripongono fiducia in Erdoğan, considerandolo capace di aiutare l’Ucraina nel conflitto con la Russia. Erdoğan è uno di quei leader che dialogano con tutti gli attori globali, e all’improvviso sono diventati molto più influenti di quanto ci si aspettasse due o tre anni fa.

Anche all’interno dell’UE un solo leader può praticamente bloccare una decisione appoggiata da tutti gli altri stati membri, invertendo così il corso della politica europea. Date queste premesse, non si può affermare che la leadership politica stia perdendo importanza. Prendiamo l’esempio della Polonia, che dimostra fino a che punto un cambio della leadership politica riesce a trasformare il modo in cui un paese percepisce il mondo circostante.

Un problema ancora maggiore per le democrazie è che ogni tornata elettorale assomiglia sempre più ad un cambio di regime, il cui esito potrebbe cambiare radicalmente l’identità o la posizione strategica di un paese.

Quando pensiamo allo scontro tra l’Occidente da un lato e la Russia o la Cina dall’altro, tendiamo a ignorare l’esistenza di queste medie potenze che lei ha appena citato. Come la loro nuova assertività incide sulle relazioni internazionali?

Si tratta di paesi molto attivi sulla scena geopolitica. I loro leader sono onnipresenti e stanno diventando importanti partner di dialogo. Basti pensare all’Azerbaijan, paese che, grazie alle sue manovre geopolitiche, recentemente è riuscito a realizzare ciò a cui aspirava da oltre tre decenni: strappare il Nagorno Karabakh all’Armenia.

Questo esempio mette in luce uno dei principali cambiamenti avvenuti negli ultimi due anni. Se prima, di fronte ad una moltitudine di conflitti congelati in tutto il mondo, c’era una percezione diffusa che il ricorso alle armi non potesse essere un’opzione, ora ci stiamo rendendo conto che ci sono anche “soluzioni” che implicano l’utilizzo delle armi.

Quali vantaggi potrebbero trarre gli altri paesi dall’ascesa delle medie potenze? Considerando l’attuale contesto geopolitico, quali sono le prospettive per i paesi come Giappone, Corea del Sud, Taiwan e Singapore?

Questi paesi si trovano in una situazione difficile perché – come la maggior parte delle nazioni asiatiche – vedono l’ascesa della Cina come una minaccia alla propria sicurezza economica e politica. Nessuno dei paesi che lei ha citato – paesi che devono gran parte del loro successo agli Stati Uniti – può contrastare la Cina da solo. Erano entusiasti della decisione di Biden di consolidare le alleanze esistenti, ora però si chiedono se la politica statunitense sia destinata a cambiare.

È curioso notare come la disponibilità di alcuni di questi paesi a fornire sostegno all’Ucraina non fosse legata tanto alla loro preoccupazione per quanto stava accadendo in Europa quanto al desiderio di mettere alla prova la credibilità degli Stati Uniti riguardo agli impegni assunti e alle garanzia di sicurezza. Hanno buoni motivi per essere nervosi, ora che l’Occidente si sta dimostrando incapace di mantenere le promesse di sostegno all’Ucraina.

Va inoltre ricordato che questi paesi sono polarizzati. Alle ultime elezioni a Taiwan, addirittura il 60% degli elettori ha appoggiato candidati favorevoli ad una politica più amichevole nei confronti della Cina rispetto a quella portata avanti dall’attuale presidente taiwanese. Quindi, non bisogna dare per scontato che la posizione strategica dei paesi asiatici sia immutabile.

In altre parole, il Giappone, la Corea del Sud e Taiwan sostengono l’Ucraina per dare maggior peso alle garanzie statunitensi, in modo da evitare che le dispute che li vedono coinvolti vengano risolte militarmente?

Questi paesi intervengono solo se lo fa anche l’America, punto. Sono disposti a impegnarsi attivamente e a fornire sostegno all’interno di un’alleanza a guida americana. Non continuerebbero però a inviare armi e aiuti finanziari all’Ucraina se gli Stati Uniti dovessero tirarsi indietro. È irrealistico pensare il contrario. Lo stesso discorso vale per Taiwan: se gli Stati Uniti dovessero arretrare, l’Europa non prenderebbe il loro posto e si assumerebbe la responsabilità della difesa dell’isola.

Inoltre, molti paesi semplicemente non hanno la capacità di fornire un forte sostegno militare agli altri. Forse non tutti sanno che l’anno scorso la Corea del Nord ha prodotto e inviato alla Russia più proiettili di artiglieria convenzionale di quanti l’Europa ne abbia forniti all’Ucraina.

Pur disponendo delle risorse necessarie, l’UE non riesce ad avviare una produzione industriale su larga scala nel settore della difesa. Questa incapacità è in parte legata al fatto che ogni stato membro è più interessato a mantenere viva la propria industria della difesa che a coordinarsi con gli altri stati per massimizzare la produzione. La Commissione europea sostiene che l’UE entro la fine dell’anno produrrà 1,1 milioni di proiettili di artiglieria per l’Ucraina. Forse anche riusciremo a produrli, resta però da vedere se li consegneremo. Molti stati membri saranno tentati di tenere le armi prodotte per i propri eserciti.

Quali sono le sue previsioni per le elezioni presidenziali francesi del 2027?

Siamo ancora lontani dal 2027, quindi non credo che al momento si possano fare previsioni. Sembra però che la leader della destra francese Marine Le Pen possa vincere le elezioni per il Parlamento europeo di quest’anno. Il suo partito è in vantaggio di dieci punti percentuali rispetto al partito del presidente Macron. Alcuni recenti sondaggi suggeriscono che in sette paesi dell’UE, tra cui Italia e Francia, vincerà la destra nazionalista. Anche se dovesse ottenere un buon risultato alle imminenti elezioni, l’estrema destra europea non si è mai dimostrata capace di promuovere una cooperazione tra i suoi membri, e ciò che conta a livello europeo è proprio la cooperazione.

Un altro dato interessante emerso dai sondaggi indica che il sostegno di cui gode l’estrema destra nell’UE (ad eccezione della Germania e di altri due o tre stati membri) è legato non tanto alla paura dell’immigrazione quanto alla preoccupazione per le conseguenze del Green Deal (oltre al persistente sentimento di contrarietà ai vaccini e al lockdown). È curioso che, anche quando l’estrema destra sale al potere, l’immigrazione spesso non diminuisca. L’Italia ne è un ottimo esempio. Secondo quel recente sondaggio condotto dall’ECFR a cui abbiamo accennato prima, solo il 10% degli italiani percepisce l’immigrazione come la crisi più grave con cui il paese deve fare i conti. Nel primo anno di governo di destra, in Italia il numero di immigrati è aumentato rispetto all’anno precedente. D’altra parte però, secondo la ricerca condotta dall’ECFR, solo il 10% degli italiani percepisce l’immigrazione come la crisi più grave con cui il paese deve fare i conti.

Anche in Polonia si è assistito allo stesso scenario…

Esatto. Ricordo i primi anni ’90, quando l’allora presidente polacco Lech Wałęsa aveva affermato che “si può fare una zuppa di pesce da un acquario, ma non si può fare un acquario con una zuppa di pesce”. Non è facile tornare allo stato di diritto e alla normalità dopo un governo populista.

Quando, nel 2007, Donald Tusk per la prima volta era salito al potere dopo Jarosław Kaczyński e il suo partito Diritto e Giustizia (PiS), si poteva ancora parlare di normalità. Oggi invece la Polonia è talmente divisa che le elezioni e altri processi democratici iniziano a somigliare ad una guerra civile infinita. Tutti sono continuamente mobilitati. Perdere le elezioni non equivale più a lasciare che l’altra parte salga al potere. Come superare questa politica in cui gli oppositori non sono più percepiti come avversari da sconfiggere, bensì come nemici da distruggere? Se una parte promuove il concetto del politico di Carl Schmitt, l’altra è costretta a fare lo stesso.

Non è però un problema circoscritto alla Polonia. L’UE sostiene lo stato di diritto e le istituzioni imparziali, però in un ambiente politico fortemente polarizzato ormai nessuno crede nel principio di imparzialità.

Come appaiono i cambiamenti in Polonia a chi guarda dall’esterno? Ci si rende conto quanto sia complicato il compito di Tusk oppure si pensa che il primo ministro stia solo cercando di vendicarsi di Kaczyński?

Le percezioni variano perché le persone tendono ad osservare i paesi stranieri attraverso la lente dell’esperienza del proprio paese. Per come la vedo io, il PiS, attualmente all’opposizione, è fermamente deciso a non permettere al nuovo governo di governare. Il presidente, sempre fedele al PiS, ha fatto tutto il possibile per posticipare la formazione del nuovo esecutivo, poi ha bloccato tutto ciò che poteva bloccare. Vi è una perversa ironia nel fatto che è ora il PiS a invocare lo stato di diritto, criticando gli sforzi di Tusk di rimettere in sesto il paese.

Gli osservatori occidentali capiscono queste dinamiche?

La situazione in Polonia suscita una sensazione di disagio nella maggior parte delle persone, soprattutto all’interno delle istituzioni dell’UE. Credono che i tribunali debbano essere apolitici. Ma questo atteggiamento davvero aiuta in un contesto, come quello polacco, dove il PiS ha riempito i tribunali con persone ad esso leali, nominate ricorrendo a metodi inopportuni. Anche a chi osserva dall’esterno dovrebbe essere chiaro che Tusk ha scelto una delle poche, se non l’unica strada che aveva a disposizione.

Viene però da chiedersi fin dove il premier polacco possa arrivare. Ad esempio, per sbloccare i fondi UE congelati a causa delle riforme giudiziarie del precedente governo, la Polonia deve soddisfare alcuni requisiti tecnici. E se il presidente decide di bloccare gli sforzi del governo di soddisfare i criteri europei? L’UE può semplicemente ignorare i propri criteri?

Solitamente, in un paese democratico chi perde le elezioni cerca di riorganizzarsi mentre governa chi ne è uscito vincitore. Il PiS invece si comporta come se non avesse visto i risultati delle elezioni, e lo fa probabilmente pensando alle elezioni amministrative che quest’anno si terranno in Polonia, oppure alla possibilità che Trump – in cui il PiS vede un grande alleato – vinca a novembre.

Il PiS è un grande partito che col tempo è riuscito a consolidare il suo bacino elettorale. Dicono: “Puoi anche avere la maggioranza, ma ciò non significa che ti lasciamo governare”. Tale atteggiamento potrebbe diventare una nuova realtà della politica europea. Quanto sta accadendo in Polonia potrebbe accadere anche altrove.