Nei giorni scorsi la giornalista e scrittrice premio Nobel Svetlana Aleksievič era a Pordenone per ricevere il premio "La storia in un romanzo". L'abbiamo incontrata ed abbiamo parlato dei suoi romanzi ma anche di stretta attualità sull'Ucraina e la Bielorussia
"È bello vedere il mondo dell’economia andare incontro a quello dell’arte, superando così gli orizzonti e aprendosi a nuove visioni del mondo", così il premio Nobel per la letteratura (2015) Svetlana Aleksievič (o Svjatlana, secondo la trascrizione bielorussa) al momento della consegna a Pordenone sabato 21 settembre del premio Friuladria Crédit Agricole “La storia in un romanzo” – è la prima donna a riceverlo, dopo grandi autori, da Umberto Eco a Javier Cercas, a Emanuel Carrère. "Qui sono la prima e in Svezia ero la 14esima: a ricordare che noi esistiamo".
Per la grande giornalista, la storia delle persone comuni da sempre parla più di ogni libro, racconta una verità che la storiografia con le sue date, le sue vicende non sa rappresentare. È questo il testo storico che lei ha voluto e saputo raccogliere in oltre quarant’anni di attività, nei cinque libri che l’hanno resa famosa in tutto il mondo. Per ognuno ci sono voluti dai sette agli undici anni di lavoro: "È un peccato che non mi rimanga altrettanto tempo per scriverne altri", commenta. Tuttavia, ha confidato di essere in una nuova fase di scrittura: "Sto lavorando a due libri, uno dedicato all’amore, così come lo raccontano le donne, l’altro alla vecchiaia. La nostra civiltà ci ha regalato ulteriori vent’anni di vita, e quindi nel libro mi domando come viverli, cosa farne. L’amore e la morte sono le cose principali che ci succedono nel corso dell’esistenza, e l’uomo non nasce certo per morire a Černobyl’".
La guerra non ha un volto di donna (У войны не женское лицо [1985]; Bompiani 2015) narra la Seconda guerra mondiale dalla prospettiva delle donne, protagoniste volontarie – e non solo come infermiere – di un conflitto atroce che le ha segnate, e dalla cui narrazione però sono sempre rimaste fuori. Gli ultimi testimoni (Последние свидетели [1985]; Bompiani 2016) ripercorre lo stesso evento dalla prospettiva invece, ancora per molti versi inesplorata, dei bambini, vittime innocenti della guerra degli adulti. Ragazzi di zinco (Цинковые мальчики [1989]; e/o 2003) descrive con questo titolo evocativo, che rimanda a quelle casse di zinco che riportavano a casa i giovani soldati sovietici caduti, la guerra in Afghanistan. Quindi, Preghiera per Černobyl’ (Чернобыльская молитва [1997]; e/o 2002), forse il suo libro più noto, divenuto un testo fondamentale, assieme alla sua autrice, per gli autori della fortunata serie HBO Chernobyl. Infine Tempo di seconda mano (Время секонд хэнд [2013]; Bompiani 2014), un volume dedicato al crollo definitivo della realtà (e utopia) sovietica.
Donna-orecchio
"Sento di aver vissuto nel mezzo della storia e pertanto percepivo come un dovere quello di affrettarmi e mettere tutto su carta", racconta Aleksievič. I suoi non sono tanto volumi storiografici, quanto lunghi reportage corali, nei quali a raccontarsi sono le "piccole grandi persone", quel piccolo uomo (malen’kij chelovek) che da sempre contrassegna la letteratura russa, e che racchiude nel suo microcosmo, per chi sa ascoltarlo, un universo intero. Svetlana è una “donna-orecchio”, come si era definita lei stessa al conferimento del premio Nobel, e lo è da sempre.
Figlia di padre bielorusso e madre ucraina, insegnanti di campagna, Svetlana ha passato gran parte della sua vita nell’ambiente rurale: "Volete sapere com’è la campagna slava? Tutti si conoscono, si sta spesso fuori, si sa tutto di tutti, si ascolta", spiega. "Inoltre, questa prospettiva di ascolto caratterizzava anche le estati che, bambina, passavo dalla mia amata nonna, in Ucraina: mi ricordo queste bellissime donne che lavoravano nei campi, le loro lunghe trecce bionde, i loro occhi vivi, i vestiti colorati e i loro racconti personali, tragici, drammatici", aggiunge. "Si è come instillato allora in me il gene della verità".
Dopo la laurea in giornalismo, Svetlana si rese conto che la carta stampata sovietica non era ciò che cercava: "Era solo propaganda, mentre io volevo raccontare le storie che sentivo dalla gente comune, nelle campagne – racconta – sono persone la cui coscienza non è ancora stata ‘corrotta’ dalla letteratura o dai giornali: ogni ragionamento è loro, individuale". La sua è una sorta di anacronistica “andata al popolo” per raccontare anche l’altra faccia di quella storia solenne, celebrativa, unicamente vittoriosa che si raccontava sui giornali.
Eppure, è una “andata al popolo” diversa, fatta da una persona cresciuta direttamente in questo contesto rurale e che non ha mai abbandonato quella semplicità, quell’umiltà che l’hanno aiutata ad accedere ai racconti più dolorosi, tragici, personali di quelle voci poi divenute le narratrici dei suoi volumi. Si tratta di quella stessa umiltà che mostra ancora oggi di fronte ai giornalisti e al suo pubblico di lettori. Tuttora, racconta Aleksievič, ama passare il suo tempo fuori Minsk, nella tranquillità della campagna; il premio Nobel non ha cambiato quasi nulla per lei: "Semplicemente viaggio più spesso e sento più forte sulle spalle un certo senso di responsabilità".
Il libro più difficile da scrivere
È Preghiera per Černobyl’ il libro che la giornalista ha trovato più difficile scrivere. Innanzitutto, davanti a questa tragedia si è trovata lei stessa ad esserne testimone in prima persona. Inoltre, spiega, "di libri di guerra in Unione Sovietica ne circolavano a migliaia; libri su una catastrofe di questo tipo invece non ne erano mai esistiti e mancava proprio un linguaggio, delle parole per descrivere quanto era accaduto e ancora succedeva. Andando allora a Černobyl’, mi trovai davanti una situazione a dir poco straniante: il luogo era come rimasto uguale, apparentemente; eppure era allo stesso tempo tutto morto. La radiazione è un collasso totale per le nostre capacità umane, perché nessuno dei cinque sensi ci aiuta a percepire cosa sia e quindi non sappiamo nemmeno trovare le parole per descriverla. Pare che invece per gli animali sia diverso: allora, molti uccelli sceglievano di suicidarsi, andando a sbattere con violenza contro i vetri, le mucche si rifiutavano di bere l’acqua dei fiumi. Ecco, mi ci sono voluti undici anni per riuscire a scrivere di Černobyl’. Il dramma della nostra epoca è che siamo abituati a vivere nella banalità: è banale ciò che leggiamo, ascoltiamo, ciò che ci dicono alla tv. Quando succede qualcosa di non banale, non sappiamo come parlarne. È compito della letteratura riuscire a proporre nuove idee, nuovi ragionamenti, benché non sia affatto facile per lo scrittore. Io stessa in più momenti mi sono disperata".
Svetlana Aleksievič segue con attenzione e preoccupazione la situazione politica odierna. "Si osserva una sorta di Anschluss silenzioso oggi tra Russia e Bielorussia; temo che la Bielorussia finirà per divenire parte della Federazione russa, un paese che va sempre più verso un regime totalitario, dove la libertà si paga con il sangue, con le vite dei giornalisti, degli attivisti, di chi rivendica libertà di espressione. Putin avrà la possibilità già in tempi brevi di farsi eleggere presidente di una Confederazione tra i due paesi e da lì il passo sarà breve". Intanto, afferma, in Russia si va incontro a una crescente ri-stalinizzazione: "Ovunque nel paese si registrano casi di persone comuni che invocano l’apertura di musei o l’erezione di statue in onore di Stalin, e spesso sono persone i cui stessi genitori, nonni, parenti furono vittime delle repressioni staliniane. Semplicemente, è questo ciò che loro comprendono della storia russa. La perestrojka di Gorbačëv fu attuata e compresa solo da lui e dal suo quadro dirigenziale: l’intera nazione non stava affatto capendo cosa stesse succedendo. Anche noi ‘democratici’ quando negli anni Novanta ci rallegravamo con ingenuità della libertà, in realtà non stavamo capendo la situazione. Putin ha invece compreso bene cosa dire alla nazione: la Russia si vuole ancora vedere come una grande potenza, forte; è questo che la popolazione capisce e tutto ciò che dai tempi sovietici poteva essere ripristinato, lui l’ha ripristinato. Se c’è una parola chiave per gli anni Novanta, ecco, questa è negotovnost’, impreparazione – al cambiamento, alla nuova realtà".
Nel corso della conferenza stampa, abbiamo infine interrogato Svetlana Aleksievič su un’altra questione strettamente attuale: non sente forse la necessità oggi o in un futuro prossimo di aggiungere un nuovo capitolo al suo La guerra non ha un volto di donna, un capitolo dedicato a quelle donne che sono oggi coinvolte nel conflitto nel Donbass? "Questo è compito della nuova generazione, che deve farlo. Io ho fatto tutto ciò che potevo, ora tocca ai giovani proseguire. Purtroppo l’uomo pare non riuscire a staccarsi dall’idea della guerra", ha risposto e ha poi aggiunto: "Oggi il futuro dell’Europa si gioca in Ucraina e l’Europa, a mio avviso, deve sostenere il nuovo presidente Zelenskij".