"La palisiada", poliziesco sui generis e centrifugo dell'ucraino Philip Sotnychenko, ha vinto il recente 41° Torino Film Festival. Nel frattempo, al 76° Locarno Film Festival l’esordiente ucraina Maryna Vroda è stata giudicata miglior regista per il suo “Stepne – Steppa”
Una pellicola ucraina ha vinto il 41° Torino Film Festival, svoltosi tra fine novembre e inizio dicembre. Il premio di miglior lungometraggio del concorso internazionale è stato assegnato a “La palisiada” di Philip Sotnychenko, uno dei più discussi tra gli spettatori del festival, ma pure tra i più interessanti del lotto.
Il film mette in parallelo due piani temporali, mescolando immagini di finzione a immagini d’archivio. Due indagini a 25 anni di distanza, in seguito a due spari, con alcuni personaggi in qualche modo coinvolti entrambe le volte. Il prologo è nel 2021, prima dell’invasione russa, con la relazione tra due giovani, lei artista che sta allestendo una mostra a Odessa, che culmina in uno sparo. Si salta indietro nel 1996 con l’Ucraina da poco staccatasi dall’Urss (“Ti ricordi quando l’Ucraina è diventata indipendente?” chiedono al giovane accusato): il legame tra il due segmenti è rappresentato dai padri dei ragazzi, che erano stati colleghi e amici, occupandosi, uno da poliziotto e l’altro da psichiatra forense di un caso di cronaca.
È un film di indagine anche per lo spettatore, costretto a mettere insieme frammenti labili, elementi di un puzzle che combaciano a fatica, per ricostruirsi da solo situazioni e collegamenti tra i personaggi. Per lo spettatore si tratta anche di trovare il proprio punto di vista, tra le immagini d’archivio e quelle di finzione. “La palisiada” (significa “lapalissiano”, come si spiega nella cena del finale) è un poliziesco sui generis e centrifugo, che dà un quadro fosco di una società che negli anni ‘90 era ancora alle prese con la pena di morte e costretta letteralmente a lavare il sangue dei morti.
Uno dei perni del film è la ripetuta rimessa in scena del primo omicidio per verificarne le circostanze. Sotnychenko fa abbondante uso di piani sequenza e costruisce alcune scene che sorprendono e restano negli occhi, oltre al finale di forte impatto. Molto bello il momento in cui lo psichiatra Sasha, reduce da un interrogatorio, compra al mercatino all’aperto un’armonica per la figlia e all’improvviso i venditori spostano le bancarelle dai binari per far passare il treno (una situazione rivista più tardi dalla soggettiva del conducente del treno).
Nel concorso documentari, menzione al bosniaco “Silence of Reason” di Kumjana Novakova, vincitrice anche del premio collaterale “Gli occhiali di Gandhi”. Un’opera che lascia senza parole, una ricostruzione, attenendosi alle prove - immagini fotografiche e video, voci e trascrizioni delle deposizioni delle donne rinchiuse nei Campi di stupro nella zona di Foča – del procedimento tenutosi davanti al Tribunale penale internazionale nel 2000 per stupri avvenuti durante la guerra in Bosnia.
Le testimonianze al processo portarono per la prima volta a riconoscere lo stupro di massa come crimine contro l’umanità. Il documentario parte dal ritrovamento di tre donne morte lungo la Drina in punti diversi nella zona di Foča tra il 25 giugno e l’8 luglio 1992, tutte non identificate e sepolte sul posto. Il linguaggio asciutto e inesorabile dei verbali è accompagnato da vecchie riprese video dell’area.
La regista si addentra poi nei casi delle tante donne rapite e rinchiuse nei campi, picchiate, violentate, detenute, a volte vendute, raccontandone le vicende con esattezza e con il rigore freddo di una deposizione. Un documentario cui basta solo lo scorrere delle scritte che a volte sostituiscono le voci, senza bisogno di mostrare immagini, per togliere il fiato allo spettatore.
Da non dimenticare il Premio speciale della giuria di Locarno per “Don Not Expect Too Much Of The End Of The World” del romeno Radu Jude, anche questo presentato in prima italiana a Torino.
Premi all’Ucraina anche la scorsa estate al 76° Locarno Film Festival, il cui Pardo d’oro è andato all’Iran per “Critical Zone” di Ali Ahmadzadeh. L’esordiente ucraina Maryna Vroda è stata giudicata miglior regista tra i 17 in gara per “Stepne – Steppa” e si è aggiudicata anche premio Fipresci della stampa. Se il vincitore, al suo quarto lungometraggio, non ha potuto ritirare il premio perché fermato dal regime proprio a causa del film, Vroda durante la premiazione ha elencato i membri della troupe morti a causa dell’invasione russa.
L’opera prima della Vroda mostra una maturità, una sensibilità e un’asciuttezza rare nel ritrarre la vita di un villaggio sperduto, popolato solo di anziani che non hanno fatto del tutto i conti con la fine dell’Urss.
Anatoly è un uomo maturo che in autobus arriva in un villaggio sperduto nella campagna ucraina. Non si sa nulla di lui, solamente pare reduce da un lungo viaggio. Trova la madre morente, che ha solo brevi istanti di lucidità, assistita da Anna, una vicina della quale l’uomo è silenziosamente innamorato. Alla morte della madre sopraggiunge anche l’altro figlio Oleksi e i due dovranno prendere decisioni sul futuro.
La steppa immersa nell’inverno è un luogo bloccato nel passato, abitato solo di anziani che raccontano vecchie storie della Guerra mondiale e dell’epoca sovietica e non hanno mai superato il sentimento di alienazione e abbandono seguiti al crollo dell’Urss. Con la macchina a mano, la regista non distingue tra attori e persone reali, ascoltando i racconti e le canzoni popolari con un senso di partecipazione e adesione, facendo memoria di tragedie passate che si ripropongono e un senso di povertà e dolore dal quale sembra non si possa uscire.
L’attenzione all’Ucraina è certamente cresciuta dopo l’invasione, ma il suo cinema vive un’ottima stagione da almeno un decennio, venuto alla ribalta con le opere di Sergej Losnitza e con “The Tribe” (2014) di Myroslav Slaboshpytskiy. A seguire “Atlantis” e “Reflection” di Valentin Vasyanovitch: in particolare il primo, presentato alla Mostra di Venezia 2019, è collocato nel 2025, “un anno dopo la fine della guerra” vinta dall’Ucraina, come dice la didascalia iniziale. Il cinema ucraino ha un lunga tradizione già dall’epoca sovietica e negli ultimi anni ha guardato anche alla scuola e allo stile dei vicini romeni.
Sempre a Locarno, doppio premio importante al bel thriller serbo-francese “Čuvari formule – Guardians of the formula” di Dragan Bjelogrlić. Un film solido e ben fatto che meriterebbe una distribuzione anche da noi: si è aggiudicato il Pardo Verde al “miglior film sulla sostenibilità” e il Premio Variety destinato al miglior lungometraggio proiettato nell’incomparabile Piazza Grande locarnese.
Il film è basato sul romanzo “Vinča Case” di Goran Milašinović e molto ben sceneggiato da Vuk Ršumović (noto soprattutto come regista di “No One’s Child”, vincitore della Settimana della critica di Venezia del 2014), è una produzione Serbia, Slovenia, Montenegro e Macedonia del Nord. Il nutrito cast è composto da Alexis Manenti, Radivoje Bukvić, Lionel Abelanski, Jérémie Laheurte, Olivier Barthélémy, Ognjen Mićović e Jovan Jovanović, con la partecipazione anche del grande Miki Manojlović. Quest’ultimo è impegnato nel ruolo del professor Savić, l’iniziatore del progetto di ricerche sulla bomba atomica in Jugoslavia.
Il film inizia nell’ottobre 1958 dopo un incidente nel laboratorio di Vinča sulla Stara Planina: qui si conducevano esperimenti per l'arricchimento dell’uranio utilizzando combustibile nazionale prodotto da nuove miniere, al posto di quello sovietico dopo la rottura con l’Urss, il tutto sovrinteso da Aleksandar Ranković fino alla chiusura del progetto nel 1962.
Alcuni ricercatori jugoslavi sono colpiti da forti radiazioni e trasportati all’istituto Pierre e Marie Curie a Parigi. Qui il professor Popović, il responsabile del progetto, e i suoi collaboratori sono presi in cura dal professor Mathé. Gli studiosi ricevono donazioni prima di sangue e poi di midollo (trapianti sperimentali all’avanguardia e assai azzardati) da volontari, tra i quali alcuni ex partigiani molto sensibili all’amicizia con il Paese oltre cortina. Una solidarietà disinteressata per ragioni ideali da parte di semplici cittadini, tra i quali emerge la figura di un meccanico, che merita di essere riscoperta.
Il tutto mentre il dottor Mathé è così coinvolto che, nel dedicarsi ai trapianti, trascura la nascita in contemporanea della propria figlia. Mathé e Popović sono personaggi molto simili, entrambi ambiziosi e completamente dediti alla scienza. Il film rievoca una gran bella vicenda, un po’ dramma storico, un po’ thriller spionistico, con un ottimo lavoro di scrittura che la fa diventare coinvolgente e commuovente.
Curioso che il film sia arrivato negli stessi mesi di “Oppenheimer” di Christopher Nolan sulla vicenda di Robert Oppenheimer, considerato il padre della bomba atomica (già portata sullo schermo nel 1989 da Roland Joffé ne “L’ombra di mille soli” con Paul Newman), e di “Asteroid City” di Wes Anderson, che racconta a suo modo la paranoia da guerra fredda.