Nel luglio del 2022, decine di prigionieri di guerra ucraini appartenenti al reggimento Azov sono morti nell'esplosione della struttura carceraria di Olenivka, nell'oblast' di Donec'k. Un caso di probabile crimine di guerra ancora non chiarito, nonostante le pressioni dei familiari
Olenivka, un caso “chiuso” senza verità definitive. Sono passati due anni da quando si è consumato quello che è, con tutta probabilità, il crimine più grave commesso contro prigionieri di guerra nel contesto dell’invasione russa in Ucraina. La notte del 29 luglio 2022 una misteriosa esplosione nei pressi della struttura carceraria nei territori occupati dell’oblast’ di Donec’k lasciava senza vita almeno 53 persone , tutti militari ucraini del reggimento Azov [la cui composizione, dal 2022, è caratterizzata da un cospicuo numero di volontari e civili non appartenenti ai movimenti di estrema destra, ndr] che si erano consegnati nelle mani dell’esercito di Mosca in seguito alla resistenza nelle acciaierie Azovstal’ di Mariupol’.
Una scena infernale, per come l’hanno descritta i pochi sopravvissuti che hanno potuto rendere pubblica la propria testimonianza mesi dopo: “L’intera via era ricoperta di sangue”, ha dichiarato a Media Initiative for Human Rights un paramilitare medico che ha provato a prestare i primi soccorsi all’esterno dell’edificio. “Le persone si trascinavano a stento, non avrei mai potuto immaginarmi una cosa simile in tutta la mia vita. Alcuni avevano amputazioni traumatiche, lacerazioni addominali profonde, fratture craniche e numerose ferite da schegge”.
Secondo le stime, oltre 130 i feriti. I più, invece, bruciati vivi nelle fiamme che hanno avvolto la “caserma N°200” della zona industriale della cittadina di Olenivka (19 chilometri a sud di Donec’k). Le autorità russe hanno quasi immediatamente incolpato le forze armate ucraine, affermando che la struttura carceraria sarebbe stata colpita da un missile HIMARS (e aggiungendo, fra le altre cose, che l’attacco sarebbe stato effettuato in maniera deliberata per eliminare personale militare che avrebbe potuto rivelare “verità scomode”).
Un’ipotesi smentita lo scorso ottobre dall’Onu, che aveva subito aperto un’indagine ad hoc ma si è ritrovata impossibilitata a condurre le indagini in modo appropriato per via del ripetuto diniego da parte di Mosca di poter accedere al luogo della strage (lo stesso rifiuto che ha ricevuto anche la Croce Rossa Internazionale).
Nel frattempo, i corpi di alcuni deceduti sono stati riconsegnati a Kyiv , qualcuno fra i sopravvissuti ha fatto ritorno in patria attraverso gli scambi di prigionieri. Secondo l’Ucraina, si è trattato di un massacro pianificato dalle forze russe (viene incolpata la compagnia Wagner dell’ormai scomparso Evgenij Prigožin), ma gli elementi per provare la dinamica della strage ancora non ci sono e, probabilmente, non potranno mai essere raccolti. A gennaio 2023, l’Onu ha ufficialmente sciolto la propria commissione d’indagine.
L’impegno dei familiari e la nascita della “Comunità di Olenivka”
“Speravamo che ci sarebbe stata una reazione ‘normale’ a livello internazionale, che le indagini sarebbero proseguite in maniera regolare, ma questo non è successo”. Ksenija Prokopenko, sorella di uno dei militari deceduti nella colonia penale di Olenivka, è chiaramente affranta, ma determinata.
La rinuncia da parte della Nazioni Unite di proseguire nella ricerca della verità sulla strage è stata per lei e per altre otto persone legate ai combattenti del reggimento Azov morti, imprigionati o scomparsi l’occasione per impegnarsi direttamente. “Abbiamo cercato di rivolgerci ai media, di far conoscere il nostro caso, e abbiamo richiesto la creazione di una giornata nazionale di commemorazione per le persone coinvolte nell’attacco terroristico”, spiega Anna Lobova, il cui marito è rimasto ferito in quella notte del 29 luglio di due anni fa.
Grazie alla sua iniziativa è nata infatti l’organizzazione “Olenivka Community ” (Spil’nota Olenivky), che nel tempo è riuscita a ottenere una certa visibilità e ha provato a chiedere un maggiore ascolto da parte delle autorità di Kyiv.
A maggio scorso durante un briefing presso l’agenzia di stampa nazionale Ukrinform il gruppo ha sollevato la questione di come non avvenissero scambi di prigionieri da molto tempo, sottolineando inoltre che poco viene fatto affinché i feriti di Olenivka ancora in mano russa possano far ritorno in patria. “Non vogliamo lanciare rivendicazioni generiche”, prosegue Anna Lobova. “Abbiamo per esempio proposto che per ottenere i nostri uomini indietro si faccia maggiore leva su spie e agenti russi che dall’inizio della guerra sono stati arrestati in Ucraina, soprattutto nell’ambiente ecclesiastico . Pensiamo si tratti di una reale possibilità per procedere con la liberazione dei difensori di Azovstal’, inclusi coloro coinvolti nella strage di Olenivka”.
Sino a ora Kyiv è riuscita a recuperare un totale di 3.210 prigionieri civili e militari dall’inizio dell’invasione, attraverso oltre 50 scambi di detenuti. Nel 2024, però, la frequenza di questi ultimi è diminuita e ultimamente stanno facendo discutere le condizioni in cui i cittadini ucraini fanno ritorno dalle colonie penali sotto il controllo di Mosca, talvolta al limite della denutrizione oltre che reduci da torture e privazioni.
Non stupisce dunque che familiari e conoscenti si mobilitino, spesso con manifestazioni pubbliche sia in Ucraina che all’estero, raccolte fondi, campagne di sensibilizzazione. “La nostra probabilmente è stata tra le ultime organizzazioni a nascere”, racconta Anna Lobova. “Siamo state costrette dai tragici eventi a creare una realtà distinta, perché si tratta di un caso particolare che ha a che fare anche con la questione delle indagini, oltre che con il problema della restituzione dei prigionieri. Purtroppo, non abbiamo contatti e comunicazioni con i sopravvissuti rimasti in cattività. Nessuno sa dove siano e quali siano le loro condizioni”.
Evoluzioni legislative
La possibilità di effettuare scambi di detenuti è ovviamente inficiata dalla scarsa fiducia che sussiste fra le due parti in guerra. Ancora più difficoltoso, quando non impossibile, è poi condurre indagini indipendenti nei territori occupati, data la scarsa disponibilità di accesso e dialogo fornita dalle autorità russe agli organi internazionali. Tuttavia, per quanto non diminuisca in alcun modo l’entità delle tragedie personali, il fatto che familiari e conoscenti dei prigionieri formino associazioni e si mobilitino autonomamente è positivo in sé.
“In una situazione angosciante come quella di chi non ha alcuna informazione sul destino dei propri cari, ricevere il sostegno di altre persone coinvolte è fondamentale”, commentano i vertici della Croce Rossa Internazionale in Ucraina. “Stiamo parlando di migliaia di famiglie nel paese, oltre al caso di Olenivka. Alla base direi che c’è anche il rifiuto di essere vittime che soffrono in silenzio. Al contrario c’è la volontà forte, che parte soprattutto dalle donne, di essere proattive e di costruire dei legami. Spesso anche chi riesce a riavere indietro il proprio compagno continua a restare attivo nelle associazioni, per spirito di solidarietà [cosa che è successa anche per la comunità di Olenivka, ndr.]”.
Questo attivismo ha inoltre potenziali risvolti pratici. Oltre a facilitare i contatti fra i parenti delle persone scomparse e le istituzioni internazionali, l’autorganizzazione da parte delle famiglie dei prigionieri può anche aiutare le autorità a raccogliere dati e informazioni. Per esempio, in Ucraina nel 2019 era stato presentato un disegno di legge per creare un registro unificato di tutte le persone scomparse e coordinare così l’assistenza alle famiglie. Tuttavia, soprattutto per i membri della “Comunità di Olenivka”, i passi da compiere sono ancora molti.
“Nel nostro paese non c’è una giornata nazionale generale di commemorazione per i prigionieri, come non c’è mai stata una giornata di lutto per Olenivka”, concludono Anna e Ksenija. “Ci siamo rivolte anche alle Nazioni Unite, abbiamo inviato due appelli per riprendere la missione, chiuderla o istituirne una nuova. Ci sono già abbastanza elementi. Ma, per qualche motivo, sembra che tutto passi in sordina”.