Pedalando lungo il confine: il Collio e i suoi vigneti, divisi in italiani e sloveni da un confine invisibile agli occhi della natura (Tratto da Isonzo-Soča n.62, maggio-giugno-luglio 2005)
di Emilio Rigatti
Tutti i confini hanno un loro fascino, forse perché si trovano appena prima di una differenza, quando non addirittura prima dell'ignoto. Bisogna starci attenti, perché ogni limite, fiume vetta porta o ponte, ha i suoi Dei guardiani, ma è anche vero che non bisogna desistere sistematicamente dal varcarli. Attraggono e spaventano, a seconda di che confini si tratti. Come quello tra il silenzio e la parola. O tra te e lei. O tra la notte e l'alba. Tra il dire e il fare, tra un'età e l'altra, tra l'ombra e la luce, tra il ponte e il vuoto, tra la vita e il nulla.
Ce n'è di quelli, però, che si articolano tra loro, s'intrecciano, si complicano, dando luogo a veri e propri tessuti, dove l'ordito e la trama sono costituiti da fili di confini diversi.
Varcare un confine dà sempre un'emozione: dilettevole o spaventosa, minima o enorme. Se non la provi, significa che non c'è confine, o che non ti sei accorto di varcarlo. Come sconfinando per errore sul Carso, o morendo di un colpo fulminante. Si è oltre, ma senza saperlo. Se di là c'è qualcuno, graniciaro o angioletto, ci avviserà, altrimenti mai sapremo dello sconfinamento, né proveremo le dovute emozioni. Sui confini veglia, benedetto e benedicente, l'Angelo della Diversità.
Lungo il confine tra l'inverno e la primavera, in Friuli Venezia Giulia, se ne snoda un altro, che esiste sempre ma che in questo periodo sembra quasi rifermentare tra le fioriture successive di mandorli, ciliegi, ippocastani, acacie: quello tra Italia e Slovenia.
E' una percezione particolarmente succosa lungo il tratto di frontiera che va da Gorizia a Cormòns, attraversando il Collio, dividendo talora vigne e campi a metà: all'inizio di un filare c'è l'uva slovena, e alla fine c'è l'uva italiana, dallo stesso sapore ma con passaporto diverso, ignorato dal saccaromices cerevisiae. Ti chiedi quale possa essere il concetto di patria per gli sloveni di qui, o per quelli del Carso. Per loro una patria forse è un'entità difficilmente definibile: loro, di lingua slovena ma in terra italiana, bistrattati dal fascismo, sentiti spesso come estranei dai giuliani e dai friulani. Per chi tifano durante una partita Slovenia-Italia? Cosa sentono vedendo sventolare una bandiera italiana o slovena?
Senza bandiere, chissà come ci si sentirebbe, attorno a quale universo simbolico si condenserebbe il concetto di patria, di heimat. Forse attorno al pampino del terrano sullo sfondo della terra rossa? O nelle volute del falco pellegrino che si addormenta sul cuscino d'aria delle correnti ascensionali? o nella visione della casa di pietra bianca, coi coppi appesantiti da pietre affinché la bora non se li porti via? Nel tino uva slovena e uva italiana bollono assieme, e i saccaromiceti italiani e quelli sloveni lavorano di comune accordo, senza bandiere.
Sotto questo confine covano ancora le ife di vecchie tensioni, pronte a moltiplicarsi come una neoplasia se qualche apprendista stregone decidesse di stimolarne le capacità riproduttive. E' un confine da cui, anche, si entra nell'Europa del bollino "UE". O -viceversa- da dove si mette il piede in una terra dove "da", "duh", "medved" vogliono dire rispettivamente "sì", "anima", "orso" da San Floriano del Collio a Vladivostok, vocale più vocale meno, chilometro più chilometro meno. Un confine attorno al quale s'intrecciano amicizie, amori, scambi culturali e commerciali. Perciò è un confine che ha tutto: l'incognita, la differenza e un "di là" di un'estensione vertiginosa. Appunto: da San Floriano a Vladivostok.
Da San Michele - Vrh verso il vallone che unisce Gorizia a San Giovanni di Duino - Štivan si passa davanti a delle case abbandonate, sulla sinistra, con le imposte cadenti. E' il villaggio di Devetaki (vedi foto). Scendo dalla bici, apro il portone sgangherato ed entro nell'aia erbosa. Sopra la porta d'entrata di una di esse, quasi un affresco antico e sbiadito, s'intravedono due bandiere della Federativa incrociate. Dipinte molto tempo fa da mano naif e accurata, certamente in quei mesi attorno al 25 aprile del '45 dovettero apparire smaglianti, annuncio di speranze e di vendette per molti. Come un ricordo sfiorito, ma non cancellato del tutto, sono segno debole ed eloquente di momenti in cui i confini sembravano aprirsi sotto i piedi come abissi, dove le speranze degli uni erano il terrore degli altri. Chissà se chi abitava questa casa abbandonata si è costruito una villetta nei dintorni, o se come molti monfalconesi andò in Jugoslavia, a costruire il socialismo con i compagni di là. E chissà se ha ripassato quel confine per ritornare da dov'era partito, come i protagonisti de "Il sogno di una cosa" di Pasolini.
Da quel cortile invaso dall'erba si vede la cresta bassa su cui passa il confine. Subito lì dietro, a pochi minuti, c'è Opatja Selo, ma la strada che ci arriva non è mai stata asfaltata ed è interrotta dal confine. Dopo pochi chilometri da Opatje Selo si arriva a Sela na Krasu, da cui, per poche centinaia di metri, si è sorpresi da un'inaspettata visione del Golfo di Trieste, che giustappone alla terra rossa dei vigneti un ventaglio turchese. Lo sguardo - almeno quello - non ha bisogno di passaporto. Da Sela, basterebbero ancora pochi chilometri per arrivare a Medeazza d'Ermada, e da lì scendere in pochi minuti al mare, presso Duino.
E se ci fosse festa in uno dei due paesi, a noi basterebbero pochi minuti in auto per essere di là, e a loro di qua, se non ci fosse il muro invisibile. Ma il muro c'è. Così, ogni tanto, pedalo lungo il confine, però preferibilmente di là, in Slovenia, tra i campi rossi piantati a terrano, boschi di querce e carpini, prati stabili da sfalcio sfiancati dalle raffiche della bora. C'è meno gente, non c'è quasi traffico d'automobili. La strada è in parte parallela alla costa, e in parte all'altra del Vallone, che unisce Gorizia a Duino. Esploro nel paesaggio e sulla carta le possibilità di nuovi itinerari, per quando la Slovenia entrerà nell'Europa col bollino UE e non ci sarà più il muro invisibile. Forse.
Gli Sloveni del Collio goriziano hanno case curate, giardini perfetti, grandi gelsi centenari che potano ogni anno. Il verde qui è intenso e l'aria si fa di colpo azzurra, l'orizzonte ad est è acquoso, le piccole vallate interrotte dai colli e disseminate di paesi sembrano un fondo marino, o una di quelle sfere di vetro con la neve e un paesaggio -Venezia o la torre di Pisa - che si vendono come souvenir. Mi ricordo di alcuni versi di Biagio Marin che si riferiscono proprio a questi monti :"...vision, la più biava in tramontana, dei munti in movimento". Non ci avevo mai pensato così precisamente, fino a questo momento in cui sono sceso dalla bici per scrivere queste note su un pezzo di carta macchiata rinvenuta nello zaino: qui il colore dominante, specialmente nel sereno dopo la pioggia, è il blu, in infinite gradazioni, dal celeste all'indaco.
Era primavera, e qualcuno cui volevo molto bene stava morendo. Per pulirmi da tutte le sensazioni torbide che la morte suscita, per ore pedalavo lungo questo confine, pensando con rabbia a come far uscire lui dal vicolo dove si era trovato, e in cui tutti, prima o poi, ci troveremo. Quel blu e quella primavera, con i cumuli esagerati di nubi mobili e i suoi scrosci improvvisi di pioggia, quella terra pesante che cominciava a smuoversi per le radici che in aprile - il più crudele dei mesi - riprendono a camminare dopo l'inverno, diventerà - in ogni primavera a venire - la cifra di tutti i confini più inquietanti, e del più inquietante di tutti. Questo blu, fiorito di bianco e di giallo, ma desolato per ciò che mi evoca, ha tuoni primaverili su lontane montagne, verso il Krn e il Triglav. Il suo intreccio di confini, terreni e celesti, è spesso battuto dalla bora forte in aprile, e il vento e le fioriture nuove rendono il pedalare profumato e, allo stesso tempo, faticoso. Proprio come il ricordo, confine tra ciò che è stato e ciò che sarà, mi pare.
Un raggio di sole inchioda la chiesa di Smartno sulla sommità del colle, e le mura bianche splendono abbacinanti contro un temporale nero indaco che la incalza alle spalle, dal Sabotino. Anche i pali delle vigne in acacia, - chissà perché qui li fanno così alti - sono illuminati contro l'oscurità quasi notturna di questo primo tra i temporali primaverili. Un fulmine, come in quel quadro con la cigana e il soldato all'Accademia di Venezia, si disegna sul Sabotino, sospeso per un istante sopra il confine. Dopo la citazione giorgionesca, il temporale si scatenerà con forza, in un mulinare di fiori strappati ai frutteti e mi spazzerà velocissimo lungo la Mainizza fin dentro Gradisca, inseguito da scrosci gelidi. E di lì ancora, incalzante, fino alla fine di questa fuga lungo i monti blu, a casa mia, sotto la doccia calda, fuori dalla pedalata, fuori dalla primavera, dentro la prossima estate che offusca le montagne azzurre nella la sua calura umida, addormentando i confini.