La linea ferroviaria Transalpina, o Bohinjska proga, nata per collegare il Litorale al Centro Europa, compie il suo primo secolo di vita (Tratto da Isonzo Soča, n.68, giugno-luglio-agosto 2006)
di Diego Kuzmin
È il 19 luglio del 1906. Alle sedici e venti precise, proprio nel mezzo della campata del ponte di Salcano lunga tutti i suoi 85 metri, in gran stridore di freni sferragliando s'arresta il treno speciale partito da Assling-Jesenice. Per tre ore ha percorso solo strette valli e gallerie, immerso in un panorama del tutto alpino. Dal vagone-salone reale s'affaccia Sua Altezza l'I.R. Arciduca Francesco Ferdinando d'Austria-Este, erede al trono dopo il duplice suicidio avvenuto sette anni prima a Mayerling, tra Maria Vétzera e Rodolfo d'Asburgo, l'unico figlio di Elisabeth Eugenie Amalie von Wittelsbach, meglio conosciuta come Sissi e Francesco Giuseppe I d'Austria-Ungheria.
Rapito dalla repentina e prodigiosa larghezza del paesaggio dell'esorbitante vallata dell'Isonzo, solcata dal fiume di smeraldo, nel gala della candida uniforme, l'Arciduca scende la scaletta, si affaccia al parapetto e guarda giù da basso, incontrando gli spruzzi della vertigine. Poi a piedi raggiunge la sponda sinistra, dove il ministro delle Ferrovie de Derschatta gli presenta gli ingegneri Örley e Jaussner (*), progettisti di questo audace e mai più raggiunto capolavoro in pietra di Nabresina, campione per la più lunga arcata in conci mai più costruita al mondo.
La stretta valle dell'Isonzo, proprio in quel punto si apre in una panoramica improvvisa che mozza il fiato. Un po' l'effetto, di quando percorrendo la strada internazionale del Sabotino, dalle colline si scende a valle e subitamente si supera il tratto ricavato in trincea. Di colpo s'apre una veduta di vastità tale da annullare ogni parola... Sensazione indescrivibile...
Ad attendere Francesco Ferdinando sui verdi prati che portano alla sponda, c'è tutta la popolazione di Salcano, collo Zupano in testa, in uno sfolgorio di bandiere slovene contraddistinte dagli stessi eroici colori di quelle della Rivoluzione Francese: bianco, rosso e blu. Dopo ben dodici minuti di sosta sul ponte, il treno speciale riprende la sua corsa verso la stazione di "Görz/Gorizia Staatsbf", dove viene accolto da numerosa e festosa cittadinanza, in primis le personalità istituzionali del Comune e della "Principesca Contea di Gorizia e Gradisca" (come si chiamava l'amministrazione provinciale di Gherghetta, sotto la A-U), e il Principe Arcivescovo davanti a tutti. Quasi il 30 aprile del 2004...
A Gorizia però, diversamente da tutte le altre fermate che portavano accanto al principale nome del luogo in tedesco anche quello nella/e lingua/e del posto, sulla tabella c'era il toponimo tedesco, quello italiano, ma non quello in sloveno. Un "buon risultato" ottenuto grazie alla granitica, ferrea, bronzea, inossidabile e intransigente, pervicace caparbietà della lobby nazionalistica filo-italiana, che all'epoca prevaleva in municipio. Insipiente al punto tale da impedire l'uso della lingua slovena per nominare una città, della quale gli sloveni costituivano parte poi più che rilevante. Ed era appena il 1906. Col senno di noi, poi, dopo, astio e azioni del tutto insensate.
Quella che oggi chiamiamo Ferrovia della Transalpina, battezzata idealmente collo Champagne (o forse Prosecco triestino?) del viaggio inaugurale dell'erede al trono di giusto cent'anni fa, si chiamava ufficialmente Wocheinerbahn, dal nome della valle di Bohinj che in tedesco si dice Wochein. Da qui il nome sloveno di Bohinjska Proga, che però non ha traduzione ufficiale in italiano. Una manchevolezza che ha scaturito il nome di "Ferrovia della Transalpina", il quale più propriamente andrebbe invece riferito all'intero tratto che da Trieste scavalca le Alpi e arriva fino in Boemia (Alpenbahnen Programm).
Tra i grandi protagonisti di questa opera ciclopica, iniziatasi nel 1901 e terminatasi nel tempo brevissimo -impensabile oggi nella burocrazia della globalizzazione italicamente interpretata- di soli 5 anni (cinque), un contadino friulano, tale Giacomo Ceconi. Emigrato diciottenne e scarsamente alfabetizzato a Trieste, lavorando e studiando "il furlan" diventa imprenditore edile nel 1857. In breve diventa anche esperto di costruzioni ferroviarie (in particolare trafori) e si aggiudica pure buona parte delle opere della Wocheiner, dove tra l'altro realizza una tra le gallerie più lunghe al mondo, quella tra Podbrdo (Piedicolle) e Bohinjska Bistrica sotto il monte Kobla, di quasi sei chilometri e mezzo (6.339 ml.). Ricchissimo, noto per il bassissimo numero di incidenti nei suoi cantieri (vi impiegava anche 16 mila operai), fu insignito da Francesco Giuseppe del titolo di conte col predicato di "MonteCecon", per i suoi meriti di Eisenbahner cioè costruttore di ferrovie. Per meglio seguire i suoi lavori sparsi sull'arco alpino, il Ceconi si stabilisce per un periodo a Gorizia, dove negli anni settanta dell'800 si fa costruire dall'architetto Giovanni Andrea Berlam, una bellissima villa in stile neogreco (il medesimo del coevo palazzo Economo, in piazza della Libertà a Trieste), costruzione poi ampliata nel primo dopoguerra da Max Fabiani, all'uso dell'odierna sede conventuale delle Madri Orsoline.
Nell'etica del neoclassicismo (riproposto in questo caso dall'eclettismo), la Grecia è il seme, il principio, la fondamenta dell'"homo faber". E' l'epoca nella quale l'Alfa della cultura classica è tutta pronta all'amplesso virtuoso coll'Omega del tecnicismo ingegneristico (e ferroviario in questo caso), colmo di aspettative in grande ascesa. Tutte poi brutalmente stroncate tra il millenovecentoquattordici e il '18.
La linea della Wochein viene ufficialmente aperta al pubblico transito il giorno successivo alla sua inaugurazione, incontrando fin da subito uno straordinario successo di passeggeri. Tale da aprire allo sviluppo turistico località isolate e fino allora visitabili solo con grandi disagi, come anche Bled e la stessa Bohinj.
Comunità arroccate in arretrate valli alpine, si ritrovano di colpo proiettate in un contemporaneo futuro grazie alla nuova ferrovia. In un paio d'ore le persone sono trasportate dalle più disperse valli montane fin'anche a Trieste, la più cosmopolita e libertina tra le città dell'Impero. Alla nuova linea così il merito anche di mutare e formare le genti e le popolazioni, per meglio trasfondere assieme le diverse peculiarità di questa alpestre comunità.
Una delle particolarità, nel corso della realizzazione di questa TAV verticale dei primi del '900, cent'anni fa, è stato il burocratico e ostinato uso di forme di democrazia incredibilmente partecipata, di grande trasparenza nel senso di succo del discorso alla Beppe Grillo, tali da apparire oggi modernissime ancorché non esistessero telecamere, né altri strumenti informatici. Molto semplicemente i progetti edili ed espropriativi venivano esposti a stampa e con largo anticipo presso
le comunità locali, nei Municipi.
Chiunque poteva presentare le proprie osservazioni, chiedere modifiche e integrazioni, sempreché per iscritto e nei modi e nei termini previsti dalla legge. La quale essendo comunque asburgica, era per sua natura semplice e comprensibile ai più, alfabetizzati già grazie a Maria Teresa, che aveva reso obbligatoria l'austroungarica istruzione scolastica per tutti (maschi e femmine), diversamente da quanto accadeva nel Regno d'Italia. Alla fine un accordo veniva sempre raggiunto, anche per quelle case che, trovandosi nel cono delle scintille prodotte dai forni dalle locomotive, andavano demolite e ricostruite più in là pel pericolo d'incendi.
Ma il disastro mondiale è dietro l'angolo. Arriva la domenica del 28 giugno 1914 ed accade a Sarajevo in Serbia. Nei Balcani. L'Arciduca Francesco Ferdinando e la consorte Sophie Chotek von Chotkova, sono assurdamente assassinati da Gavrilo Princip, un giovane studente nazionalista serbo. Sparati da una pistola semi-automatica, Browning M1910-calibro 7.65x17mm., i proiettili centrano al collo Francesco Ferdinando e la moglie allo stomaco. Proprio nel giorno di S. Vito (Vidovdan), grande festa nazionale serba. Gavrilo, arrestato, cerca invano il suicidio. Prima coll'ingestione di cianuro, quindi prova a spararsi con la propria pistola. Essendo poi, all'epoca dell'attentato ancora troppo giovane per subire la pena capitale (19 anni), viene condannato a soli vent'anni di prigione. Morirà di tubercolosi all'età di 23...
Oggi uno a diciannove anni se ne va con lo spray sui muri a imbrattare... Cosa pensare di Gavrilo e della sua integrità mentale? Che cosa aveva in testa? Cosa credeva di fare? Era tutto fuori come la De Nardo che ha accoltellato mamma e fratellino e oggi gioca a pallavolo? O veramente questo mona pensava di raggiungere un risultato in qualche modo politicamente positivo?
Comunque sia, la furia degli opposti nazionalismi, artatamente fomentati e oltremisura amplificati dal sistema del grande capitale (che mai sopisce), nel durante dei tre decenni della Belle Époque, esplode fragorosamente col primo grande conflitto mondiale e frantuma, col Maglio inesorabile del destino, la Ceramica di questa nostra comunità multietnica, limpida e pacifica, cresciutasi a cavallo delle Alpi con notevole anticipo rispetto alla nuova comunità europea (teorizzata solo molto più tardi, anche da Altiero Spinelli a Ventotene negli anni '40).
Tra poco la Transalpina compirà il suo primo secolo di vita. Pessime piastrelle di ceramica "similravennate", di recente hanno malamente ricoperto le originarie formelle di cemento colorato, del tipo "comprimé de chocolat", che fino a poco tempo fa ancora pavimentavano il portico che dà sui binari. Formelle che, volendo, si trovano ancora da Deana a Udine (dopo che la storica ditta Maroni di Gorizia, una quindicina d'anni fa ha chiuso i battenti di via duca d'Aosta). La sala d'ingresso, col suo colore giallo polenta copre le decorazioni di Clemente Delneri, non note ma raccontate dal Cossar in "Storia dell'Arte...", ancora nel 1948. Resiste invece il pavimento della hall e -caparbiamente- resiste anche un contorto e annoso Cercis "asburgico", estremo, quasi antico simbolo fideistico. Se ne sta lì questo antico albero di Giuda, subito oltre i servizi, esposto alla bora che proviene dalla valle dell'Isonzo e tutto incravattato da cinghie di ferro obbligategli dall'uomo. Saggia operazione questa. Antica, e finalizzata ad impedire l'inevitabile sfascio di una natura che, una volta urbanizzata, non può essere abbandonata a sé stessa, ma necessariamente va governata con metodo e criterio.
Le frontiere oggi sono (quasi) scomparse e le genti di questo piccolo lembo d'Europa, lentamente e faticosamente, ritornano a congiungersi nel seno di una comunità più ampia.
Noi goriziani ci ritroviamo però di nuovo al punto di partenza e non proprio nelle posizioni migliori. Anzi, sicuramente assai peggio. Proprio come la Wocheiner, nata per collegare il Litorale al Centro dell'Europa, che per soli nove anni è stata utile allo scopo per cui era destinata e per il quale sono stati spesi valanghe di soldi. Un breve ma intenso periodo, durante il quale violette, fragole e ciliegie di Oslavia -primizie- colla Transalpina in poche ore raggiungevano le tavole di una Vienna spesso ancora imbiancata di neve...
In questo terzo millennio, la Bohinjska Proga può rinascere a nuova vita in un territorio senza più confini. Confidando comunque su un periodo ben più lungo dei cent'anni appena trascorsi... Deja vu... come il bel viso dell'elegante e affascinante fanciulla della foto in copertina, che tutti vorremmo incontrare salendo sul treno... Un sorriso nulla paga ma sempre rende tutti di buon umore...