Vesna Terselic

Vesna Terselic è direttrice del centro ''Documenta''. L'abbiamo incontrata a Zagabria. Continua la pubblicazione dei materiali del nostro dossier ''Memoriali''

08/10/2007 -  Andrea RossiniNicole Corritore

Vesna Terselic è direttrice di "Documenta - Centar za suocavanje s prosloscu", centro con sede a Zagabria nato nel 2004 con due fondamentali obiettivi: documentare, utilizzando diversi strumenti, le violenze e i crimini di guerra commessi dal 1991 ad oggi in Croazia e approfondire il dialogo pubblico sul tema del confronto con il passato.

Come nasce il suo interesse per il lavoro di documentazione della memoria?

Da forte interesse intellettuale e morale ma altrettanti motivazioni personali. Quando ero piccola, stavo spesso a casa di vicini dove giocavo con bambini a cui ero molto legata, orfani di padre. La madre era stata in una prigione durante la Seconda guerra mondiale ed era cieca ad un occhio. Scoprii dai miei genitori che aveva perso l'occhio proprio durante la prigionia e che il marito si era suicidato subito finita la guerra. Una storia che però ufficialmente non si raccontava, perché si trattava di persone che ai tempi erano considerate "nemiche".

Ma anche nella mia famiglia ho sentito storie diverse da quelle ufficiali. Mio nonno venne rinchiuso a Gonars e venne tirato fuori dal suo datore di lavoro, che era un cosiddetto "volk deustcher", un tedesco della minoranza. I miei poi si arruolarono tra i partigiani ma mio nonno, dopo la guerra, volle testimoniare a favore di colui che l'aveva salvato perché, nella fase della nazionalizzazione delle proprietà dove venivano espropriati in primo luogo gli appartenenti a questa minoranza, non gli venisse tolto tutto ciò che possedeva.

Nacque in me la consapevolezza che la verità ha più strati, che non c'è posto per una sola interpretazione e che bisogna tener conto di ogni dettaglio. In queste zone ognuno ha un racconto legato alla Seconda guerra mondiale, ai crimini di allora e di dopo, e per me è decisiva l'atmosfera di così tante storie che meritano tutte di essere ascoltate.

Quando è nato il vostro centro di documentazione e perchè?

Il centro è nato poco più di due anni fa su iniziativa di quattro organizzazioni: il "Comitato di Helsinki per i diritti umani", il "Comitato cittadino per i diritti umani" e due organizzazioni pacifiste, il "Centro per la pace" di Osijek e il "Centro per gli studi per la pace" di Zagabria.

Come dice il nome stesso del centro, il nostro obiettivo è documentare in primo luogo eventi e crimini commessi negli anni novanta durante la guerra in Croazia, quindi ciò che è accaduto a cittadini e cittadine della Croazia a partire dal '91. In realtà potenzialmente, come da statuto, possiamo lavorare anche sulla documentazione di crimini commessi durante la Seconda guerra mondiale e sui crimini commessi per vendetta dopo la Seconda guerra mondiale. L'intreccio tra questi ultimi e quelli più recenti è cruciale, ma al momento ci stiamo focalizzando sui crimini perpetrati negli anni novanta. Sottolineo che non documentiamo soltanto la storia negativa: raccogliamo anche documentazione di eventi positivi, cioé esperienze di persone che hanno aiutato, dato una mano a qualcun'altro.

Inoltre abbiamo il compito di approfondire il dialogo su quanto è avvenuto, in particolare sulle violenze del passato, per l'intero periodo dal 1991 in poi. Nel nostro lavoro collaboriamo attivamente con le nostre organizzazioni fondatrici in Croazia, e abbiamo firmato nel 2004 il Protocollo sulla cooperazione regionale con il "Centro per il diritto umanitario di Belgrado", diretto da Nataša Kandić e con il "Centro di documentazione e ricerca" di Sarajevo, diretto da Mirsad Tokača.

Un lavoro di documentazione della memoria che quindi va oltre i crimini di guerra?

Sì. In questo momento stiamo ad esempio raccogliendo materiale sulla "Antiratna Kampanija" (Campagna contro la guerra) che durante tutto il periodo bellico aveva avviato una serie di iniziative pacifiste e antibelliche in Croazia. Perché riteniamo importante conservare questo materiale e possibilmente farne una pubblicazione, affinché l'opinione pubblica conosca di più l'azione pacifista croata degli anni novanta.

Come lavorate sul campo? Quali le difficoltà?

Negli ultimi due anni ci siamo concentrati sulla raccolta, tramite registrazioni audio e video perché più semplice sia sul piano economico sia su quello organizzativo, di memorie personali di guerra, a Pakrac e Pik. Abbiamo scelto Pakrac perchè è la seconda città della Croazia più distrutta e divisa durante l'ultima guerra. Prima della guerra era una città davvero multiculturale in cui vivevano serbi, croati, cechi, italiani, bulgari. Nel '95 circa il 75% delle case era distrutto ed è stata letteralmente divisa dopo la guerra. Per noi è stato davvero importante registrare le memorie personali in un luogo con esperienze così diverse. La pubblicazione di queste memorie è in corso e dunque non sappiamo ancora quali saranno le reazioni dell'opinione pubblica.

Quando parlo di registrazione di sensazioni personali non significa che registriamo migliaia di racconti e ricordi. Ciò che siamo riusciti a registrare, con l'aiuto di volontari e volontarie sono 44 interviste audio e 11 interviste video. Giusto perché abbiate un'idea di ciò che si riesce a realizzare in un anno di lavoro.

Abbiamo inoltre avviato la registrazione di memorie di guerra a Sisak e a Osijek. Per fare questo lavoro ci vorranno anni e al momento non sappiamo se avremo i mezzi per coprire tutte le zone colpite dalla guerra in Croazia. Oltre alle registrazioni di memorie di guerra, forse la parte fondamentale della documentazione è la ricerca sul campo di tutti coloro che sono sopravvissuti agli eventi di guerra, per poter in primo luogo raccogliere tutti i nomi di coloro che sono stati uccisi o sono scomparsi.

Nell'ambito del lavoro sul tema del dialogo: quanto e come l'opinione pubblica partecipa al dibattito?

Riporto un esempio recente. Nel luglio del 2006, con l'aiuto dell'agenzia PULS, abbiamo svolto una ricerca su questioni legate al tema del confronto con il passato, su un campione rappresentativo di 1000 persone. Abbiamo analizzato posizioni e opinioni sul processo di confronto col passato; sulle vittime della guerra in Croazia; sui crimini di guerra, cioè cosa viene riconosciuto dall'opinione pubblica come crimine di guerra e infine posizioni e opinioni sui crimini di guerra per i quali sono stati avviati processi.

E su scala regionale cosa avviene?

A febbraio di quest'anno c'è stata una grande conferenza sul tema della constatazione della verità, un forum che fa parte di una serie di seminari. E' emerso che per la constatazione della verità, perfino della verità dei fatti, è necessario guardare dalla prospettiva croata, serba, della Bosnia-Erzegovina e del Kosovo. Questi seminari sono tuttora in corso: il primo si è tenuto a maggio del 2006 a Sarajevo, il secondo a Zagabria. Vi hanno preso parte più di 300 partecipanti, sono venuti diversi esponenti del TPI inclusa Carla Del Ponte e la grande affluenza è in parte dovuta proprio alla loro presenza. Prima dell'inizio dei lavori, di fronte all'aula è stata organizzata una protesta dell'associazione delle vittime e dei veterani, che però in seguito hanno partecipato alla discussione in sala.

Cerchiamo dunque di utilizzare, a livello regionale, gli stessi metodi di constatazione della verità. Abbiamo appena portato a termine un progetto per la realizzazione di tre sistemi informatici simili, ma indipendenti e complementari, per la documentazione delle persone scomparse, la documentazione dei caduti e delle circostanze di morte.

Quanto influiscono sui vostri progetti mirati al dialogo i contatti con i diversi soggetti della società croata con cui vi rapportate?

E' molto importante dialogare sugli eventi di guerra con tutti: associazioni di vittime e sopravvissuti, in particolare di famiglie di scomparsi ma anche associazioni di veterani. Stiamo inoltre cercando di rafforzare la collaborazione con istituzioni scientifiche. Perché la documentazione per il confronto con il passato è un processo sociale che deve essere di qualità e può essere tale solo se tutti contribuiscono. Si deve prestare attenzione e ascolto ai gruppi che sostengono diversi sistemi di valori e raccogliere le differenti posizioni in modo che ci sia posto per tutte le voci in campo.

Quindi parla del raccordo tra diverse memorie e interpretazioni?

Sì, perché vorremmo prendere le distanze dai continui "battibecchi" non costruttivi e con il lavoro di documentazione indirizzarci verso il dialogo tra le interpretazioni. Confermati i fatti, spero sinceramente che non litigheremo più su quanti sono stati uccisi, chi è stato ucciso, ecc. e che riusciremo a costruire un nuovo spazio di confronto. Non solo. Voglio sottolineare che è normale che le interpretazioni "narrative" di esperienze personali di singole persone siano diversificate, anche perché appartengono a gruppi differenti e utilizzano terminologie differenti. Per cui gli stessi episodi di guerra vengono descritti in modi diversi.

Siamo ancora oggi in una fase di transizione postbellica, di transizione da un sistema socialista in cui esisteva solo la voce del partito comunista e dunque una sola e significativa interpretazione di tutto ciò che era avvenuto durante la Seconda guerra mondiale, ad un sistema a più voci in cui c'è posto per diversi pensieri, esperienze, interpretazioni e racconti. Nonostante le difficoltà, alcuni esempi mostrano che qualcosa si sta muovendo. Ad esempio, quando la commissione che sceglie i testi scolastici da adottare nel paese ha reso noto che con il nuovo anno scolastico ci sarebbero stati cinque diversi manuali di storia per l'ottava classe delle scuole elementari, è partita la polemica ancora prima che i testi venissero pubblicati! Perché nei cinque manuali è stata tematizzata in modo diverso la storia dell'ultimo conflitto in Croazia ed in alcuni emergono le responsabilità croate. Mi auguro che gli insegnanti scelgano quelli che sono stati maggiormente oggetto di polemica... Rimane il fatto, importante, che tutto ciò è scritto ed è diventato parte del materiale storico di libri scolastici.

Sta emergendo una diversa politica della memoria in Croazia?

Non so se è già tempo di parlare di una politica della memoria. Al momento direi che esistono dei segmenti di questa politica, che siamo in cammino verso qualcosa che si potrebbe definire "politica". Esiste una "prassi" della memoria, una prassi di esperti e di istituzioni di governo. E' necessario che nei bilanci annuali del governo vengano stanziati più fondi per il lavoro di documentazione di istituzioni di esperti e di organizzazioni della società civile. Perché dagli inizi degli anni novanta si parla molto anche dei crimini commessi dopo la Seconda guerra mondiale, di prigioni e centri di detenzione come quello di Goli Otok e del loro intreccio con quelli più recenti. I testimoni di quel tempo sono ormai pochi e molto anziani, dunque il lavoro di annotazione e conservazione delle loro memorie oltre ad essere immenso deve essere fatto prima che sia troppo tardi.

Rispetto al conflitto degli anni novanta, sono state avanzate delle sollecitazioni in parlamento che però, a mio parere, non hanno colto nel segno. Perché il parlamento croato ha una sua dichiarazione sulla guerra e sull'operazione Tempesta in cui viene definita la "verità" sulla guerra degli anni novanta: cioè che la Croazia ha condotto una guerra difensiva. Sappiamo invece che la Croazia è stata coinvolta nell'aggressione alla Bosnia Erzegovina ma di questo, nella dichiarazione, non si fa alcun riferimento.

Inoltre, penso che governi e parlamenti non siano i luoghi in cui valutare e decidere su determinati avvenimenti, ma che debbano farlo persone ed istituzioni esperte sul piano scientifico, oltre alle istituzioni giudiziarie. Il ruolo della giustizia è cruciale e molto significativo nel percorso di dialogo e purtroppo sappiamo già che le istituzioni giudiziarie non potranno sollevare accuse o condurre indagini contro tutti i possibili criminali. Il TPI dell'Aja ha sollevato un totale di 141 accuse e l'anno scorso in Croazia sono stati avviati solo 23 processi. Se consideriamo che in Croazia ci sono stati tra i 10 e i 15.000 morti, in Bosnia - Erzegovina circa 100.000, è chiaro che non si riuscirà ad indagare su tutti i crimini.

Inoltre, nei processi viene riservato un trattamento diverso alle vittime, a seconda che siano vittime croate, ovvero vittime cadute dalla parte croata, o vittime cadute dalla parte serba. Ecco perché vigiliamo affinché i processi siano il più possibile fedeli agli standard di equità e giustizia sia per le vittime che per gli accusati e supportiamo il percorso giudiziario con il lavoro di documentazione.

Secondo lei la memoria va affrontata anche con altri strumenti?

E' molto importante verificare i nomi di tutte le persone, soprattutto per rispetto di coloro che non ci sono più. Si deve riconoscere la sofferenza di ogni persona che è stata uccisa e, se in qualche modo è possibile, scrivere il nome di questa persona in un posto che resti nel tempo, un libro o un monumento. E' importante per la famiglia, per la comunità della persona che è stata uccisa e per la società intera, onde evitare nuove manipolazioni. Questo è stato già fatto con il numero delle vittime della Seconda guerra mondiale e si continua a manipolare il numero di vittime degli assassinii per vendetta dopo quel conflitto.

La politica di Tito e dei vertici del Congresso comunista jugoslavo non era la documentazione dei fatti; la loro politica era per lo più volta al rafforzamento dell'unione federale. Ad un primo sguardo, può non sembrare un problema visto che sono più numerosi coloro che sostengono che le pagine più terribili del passato bisogna dimenticarle o nominarle il meno possibile. Invece, il fatto che non sia stato descritto quanto è esattamente avvenuto durante la Seconda guerra mondiale, ha contribuito a porre le basi per un aspro confronto, diventato acceso negli anni novanta e nuovamente degenerato in una guerra.

Un segnale del fatto che si sta cercando di andare in altra direzione è l'episodio importante avvenuto l'anno scorso, con la riapertura del museo di Jasenovac. Finalmente sono stati resi noti i nomi delle vittime, scritti su lastre di vetro all'interno del memoriale e visibili non-stop su nastri audio e video. E' la prima volta che in questi luoghi dove sono stati perpetrati terribili massacri, non solo in Croazia ma anche in Serbia e in Bosnia Erzegovina, vengono scritti i nomi delle vittime uccise e spero che un po' alla volta diventi la regola.

Anche politicamente ci sono segnali incoraggianti. Il presidente Mesić si è recato a Jasenovac per primo fra tutti i politici, e il suo ruolo per la memoria è davvero significativo, perché a più riprese ha messo in rilievo il significato della lotta antifascista e ha messo l'accento sul peso del genocidio commesso dagli ustaša e dai loro collaboratori nazisti e fascisti. Rispetto al museo di Jasenovac, ritengo sarebbe utile semmai aggiungere delle informazioni sugli autori dei crimini e sui procedimenti giudiziari intentati contro di loro, così come sarebbe importante anche solo citare qual è stato il ruolo della chiesa cattolica.

Lei dice che i monumenti sono importanti. Perché?

Credo siano molto importanti i monumenti alle vittime, che sorgono sul luogo del massacro o nei cimiteri. Possono essere di forma diversa, massi o steli di legno come hanno deciso di fare alcune famiglie di vittime laddove sono stati trovati i resti del marito o del figlio o della figlia. Come ritengo significativo il monumento alle vittime dell'ultima guerra in Croazia realizzato da Dzamonja a Mirogoj. Mi domando semmai quando vedremo scritti i nomi di tutte le vittime su un monumento unico e non so nemmeno se ciò sarà possibile perché esistono diversi gruppi di vittime. Ma anche perché i monumenti stessi possono essere oggetto di manipolazione.

Mi spiego. Guardiamo cosa è accaduto in Croazia dal '90 in poi, ai monumenti per le vittime antifasciste del secondo dopoguerra: circa 3000 monumenti alle vittime o ai caduti in battaglia sono stati rovinati o distrutti. Una minima parte è stata risistemata. Vale inoltre osservare il caso dei monumenti eretti in Croazia dopo gli anni novanta. E' davvero interessante, ci tengo a farlo ben presente, che finché era in vita Tudjman, di questi monumenti non ce n'era nemmeno uno, perché comunque era stato un generale partigiano. Dopo le elezioni del 2000, quando vinse la coalizione socialdemocratico-liberale, questi non hanno avuto la forza di opporsi e hanno cominciato a sorgere un po' ovunque monumenti dedicati agli ustascia. Con un'iniziativa cittadina abbiamo subito protestato ma ciò non ha portato ad alcun risultato nel breve tempo. Si è dovuto attendere il ritorno al governo dell'Unione Democratico Croata, guidata dal premier Sanader: con un'azione decisiva, attraverso un'interpretazione dei valori contenuti nella Costituzione croata, ha sistemato le cose rimuovendo quei monumenti.

E' un tema scottante ma che va affrontato, quello dei memoriali. Ciò che non deve accadere è che attraverso i monumenti si unifichino colpa e responsabilità, che si confondano cause e conseguenze. Non è facile, ma va fatto, tener conto della dignità delle vittime e allo stesso tempo evidenziare ciò che è avvenuto dal punto di vista storico.

In questo ambito sono molte le questioni ancora aperte, non solo in Croazia o tra Croazia e Bosnia Erzegovina, tra Croazia e Serbia ma anche tra Croazia e Italia, tra Croazia e Germania. Nemmeno in questo caso, se parliamo di Croazia e Italia, si è ancora fatto uno sforzo comune di ricostruzione dei fatti e delle responsabilità durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Sarebbe importante confermare ciò che è accaduto alle vittime tra il '41 e il '43 o addirittura guardare più lontano, nei territori che sono oggi dell'attuale Croazia e che allora erano sotto il controllo del regime fascista italiano. Penso sia il momento per la creazione di un'equipe comune di esperti croati e italiani che potrebbe confermare i fatti sulla base di testimonianze di sopravvissuti e di altra documentazione ritrovata nel tempo.

E' dunque convinta che si debba ricordare?

Per coloro che direttamente sono sopravvissuti a orrori terribili, a volte l'unico modo per sopravvivere è non affrontare l'argomento e ritengo che si debba rispettare il diritto di ognuno a scegliere qual è il modo migliore per sé, se parlarne oppure no. Per le società in quanto tali, non credo esista un modo possibile per dimenticare ma è necessario affrontare la memoria. L'esperienza europea ci mostra che non si possono cancellare i ricordi, ma che questi possono al contrario ritornare e fare da sfondo a nuovi conflitti.