Sarajevo, foto di Luciana Lettere

Il conflitto e l’assedio di Sarajevo è terminato da anni ma cupe vampe avvolgono ancora la Bosnia e la corruzione ne è il combustibile. Recensione del libro di Luca Leone. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

15/01/2018 -  Davide Roncaioli

È una sensazione strana, l'amaro in bocca che ti lasciano le parole finali sui Bastardi. Un appellativo assolutamente appropriato per definire piccoli uomini (se così possiamo chiamarli) che sfruttando lo stato di caos durante l'assedio si arricchirono alle spalle della povera gente, costretta persino a bruciare gli ultimi mobili di casa per scaldarsi.

I bastardi di Sarajevo
di: Leone Luca
Prefazione di Riccardo Noury
Introduzione di Silvio Ziliotto
Postfazione di Eldina Pleho
Editore: Infinito Edizioni
ISBN: 9788868610487

L'animo rimane turbato, il cuore scosso, come annebbiato, dalla stessa foschia che ricopre la Baščaršija in una gelida mattina di fine novembre. Passeggi con la mente per la Ferhadija e non puoi far a meno di fermarti a guardare una finestra, la stessa, forse, dalla quale una ragazza, distrutta, violentata, profanata dalla sua storia di vergine venduta, si tolse la vita. Provò a volare come gli angeli, non appena fu informata della dipartita della sorella malata. Trovò la morte, quella fisica. La bellezza e la vita, invece, erano già appassite alcuni anni prima tra le luride mani dei suoi aguzzini.

La storia dei Balcani è questa, dolore e accanimento. Troppo rispetto a quanto questa gente, fiera, ne possa digerire. L'intreccio del libro svela molte vicende, narra di predatori, mercenari, faccendieri che per qualche sporco marco tedesco fanno divertire annoiati turisti europei, persino italiani. I personaggi sono sempre quelli, ratti immortali, che durante la guerra popolarono trincee, palazzi occupati e montagne con gitanti travestiti da cecchini a pagamento sui civili di Sarajevo.

Lo scorrere delle parole fa riflettere, costringe a cercare nell'animo buio della tua anima. I fatti sembrano lontanissimi, quasi irreali ma in realtà trovano sviluppo appena oltre l'Adriatico. Le cupe vampe che ancora avvolgono la Bosnia sono vive, la corruzione è il combustibile. Politici che controllano la stampa, anzi la brutalizzano con metodi da milizia paramilitare. E il tutto viene coperto da una fitta coltre di silenzio, perché l'esercizio criminale del potere non va disturbato. Le opposizioni devono essere normalizzate, siano esse intellettuali o giornalistiche. In tutte le burocrazie di stato il collante è la menzogna.

La narrazione ci mostra anche la speranza, la troviamo nella faccia pulita, onesta di un vecchio professore universitario che ridicolizza il suo studente, ora onorevole candidato in pectore ad importanti ruoli politici, mettendolo con ironia tutta balcanica davanti alle sue pochezze. C'è chi si è venduto, chi ha perso e chi non ha mai abbandonato la retta via. Questa è la sottile differenza. Lo scenario che intuiamo da queste pagine è quello di una situazione del paese cristallizzata, come quell'uomo del film No Man's Land seduto su una mina. Se si muove è la fine. Ma è seduto su un posto meraviglioso.

Il nostro compito è quello di tenere accesa la luce, di mostrare che sotto al marcio qualcosa può rifiorire, la coscienza civile, la generosa ospitalità del popolo bosniaco è intatta. E questo libro ne è il manifesto. Rumiz descrive poeticamente Sarajevo come un signore in giacca e cravatta che esce perfettamente sbarbato da un rudere che è casa sua. Bene. Al rudere la facciata è stata rifatta, il signore nel frattempo è invecchiato e sul suo volto sbarbato sono comparse rughe cariche di vita, vissuta con dignità e orgoglio.