Criticata, odiata, sempre scomoda per i fautori della real-politik. Carla Del Ponte racconta gli anni passati a capo della procura del Tribunale dell'Aja nel suo libro autobiografico "La caccia", scritto con il giornalista Chuck Sudetic. Nostra recensione

16/04/2008 -  Tomas Miglierina Bruxelles

Carla Del Ponte non capisce niente di real-politik. Chi la conosce lo sapeva già, chi non la conosce leggendo "La caccia" ne troverà conferma. Tra l'altro - non sappiamo se per responsabilità sua o del co-autore, il giornalista del New York Times Chuck Sudetic - le parti di contestualizzazione delle vicende che hanno sconvolto la Jugoslavia sono estremamente approssimative.

Carla Del Ponte non capisce niente di real-politik e personalmente la cosa non ci dispiace, visto che fa il procuratore. E comunque la real-politik non sembra voler capire nulla del suo mestiere, quindi siamo pari: al di là delle dichiarazioni di principio, ministri, diplomatici e generali - i protagonisti "classici" delle relazioni internazionali - non hanno mai tollerato l'idea che un procuratore penale potesse rubare loro la scena, un procuratore che si arroga l'insolenza di pensare autonomamente, senza andare troppo a catechismo da lorsignori.

Il ministro degli Esteri francese Hubert Vedrine, nel 2001, non gliele manda certo a dire quando le spiega il suo sostegno a Vojislav Kostunica nonostante le posizioni molto simili a quelle di Karadzic: "La Francia ha la missione di riportare la Jugoslavia nella comunità delle nazioni europee. Io ho una visione del futuro. E lei ha i suoi piccoli compiti da realizzare, le sue miopi faccende limitate". Non disturbate il manovratore, soprattutto non con idee ridicole come quella che i macellai balcanici (o i macellai tout-court, in futuro) debbano rispondere delle loro azioni davanti ad una Corte penale internazionale. George Tennet, l'ex capo della CIA, è ancora più esplicito: quando Del Ponte propone una nuova strategia per l'arresto dei criminali di guerra, le risponde: "Madame, di quello che pensi tu non me ne frega un cazzo".

Ci sono ancora oggi, quindici anni dopo la disgregazione, personaggi che nella ex Jugoslavia sono celebrati ovunque: certi attori, certi cantanti, alcune vecchie stelle dello sport. Carla Del Ponte è entrata in questa categoria, al contrario: in otto anni all'Aja ha raccolto un odio rigorosamente bipartisan, mettendo d'accordo albanesi e serbi, croati e musulmani. L'hanno accusata di essersela presa solo con loro o di non essersela presa abbastanza col nemico. Le hanno rifiutato i visti, l'hanno cacciata da funerali, le hanno tirato i sassi sull'automobile, hanno messo in dubbio la sua virtù. I politici nazionalisti non l'hanno ricevuta, i moderati - quando, dopo infinite fatiche, finalmente conquistavano un fragilissimo potere - l'hanno accusata di volere il loro suicidio politico. I pochi amici che ha incontrato hanno spesso fatto una fine tragica, come Zoran Djindjic.

Ma Del Ponte ha fatto ancor meglio delle stelle ex jugoslave: è riuscita a farsi detestare da gran parte di quella comunità internazionale maestra nell'arte dell'appeasement, della memoria corta, della solidarietà che dura il tempo di un servizio televisivo sulle fosse comuni. I Bildt, i Vedrine, i D'Alema di turno le hanno rimproverato di muoversi con l'eleganza di un elefante in una cristalleria. Grosso modo le stesse critiche che riceveva in Svizzera quando andava a mettere il dito là dove fa male, ad esempio negli interessi finanziari della mafia russa.

Come nei Balcani anche tra gli ovattati corridoi dell'ONU o dell'Unione europea gli "amici" - scopriamo - sono stati pochi. Tra questi il generale Wesley Clark, che la magistrata avrebbe addirittura voluto prendere nella propria squadra. E' riuscita persino a farsi bacchettare sulle dita da Kofi Annan e ad inimicarsi un altro pezzo di quelle Nazioni Unite da cui il tribunale dipende: la missione UNMIK in Kosovo. E' davvero ironico che, dopo avere stressato le diplomazie di mezzo mondo, il governo svizzero l'abbia mandata a fare l'ambasciatrice in Argentina, per gli ultimi anni che le restano prima della pensione.

Le memorie di Carla Del Ponte non aggiungono molto a quanto si sapeva dei Balcani e dell'atmosfera in cui ha operato il Tribunale. Alcune vicende sono state fra l'altro anticipate da " ", il libro della portavoce di Del Ponte, Florence Hartmann, uscito in Francia nei mesi scorsi. Un conto però è il sentito dire, e un altro la dovizia di particolari con cui la procuratrice descrive i propri incontri. La narrazione si arresta dove comincia il vincolo del segreto istruttorio, un vincolo che non decade con la carica, ma a quel punto al lettore è già chiaro che se un'inchiesta non è stata fatta non significa automaticamente che le malefatte siano automaticamente escluse.

"La Caccia" sta facendo parlare di sé soprattutto per il caso degli oltre 300 serbi che sarebbero scomparsi dopo la fine delle ostilità in Kosovo e per i quali si è sospettato che siano finiti vittime di un traffico internazionale di organi. Il clamore suscitato da quelle pagine ha spinto persino il governo russo ad intervenire. In realtà la prima ad ammettere che il materiale raccolto è insufficiente dal punto di vista probatorio è la stessa Del Ponte, che però denuncia (e qui i termini sono perentori) la difficoltà di fare indagini sull'UCK in una regione dove l'autorità statale è inesistente, l'omertà è diffusa e la missione civile dell'ONU di fatto dipende dalla buona volontà e dalla cooperazione dei leader su cui è chiamata ad indagare.

"La Caccia" è un libro denso, il materiale non manca e - come è avvenuto con ogni altro resoconto sulla ex Jugoslavia - in molti attingeranno ciò che torna loro più utile per difendere una tesi già sposata in partenza: quella di un Tribunale anti-serbo, anti-croato, anti-albanese, di una macchinazione internazionale, di un complotto degli americani, eccetera. Anche chi scrive, per essere onesti, un'idea di partenza ce l'aveva e se l'è vista confermata. E' un' idea che si è sedimenta in otto anni di osservazione diretta: quella di un magistrato cocciuto, probabilmente non perfetto sul piano tecnico (non abbiamo le competenze per andare nei dettagli, ma la stessa Del Ponte ammette degli sbagli e altri ne sospettiamo noi) ma di certo poco accomodante su quello politico. Un magistrato che non capisce niente di real-politik. Per fortuna.