La crisi austro-serba ricostruita sulla base della documentazione italiana. È questo l'intento del libro di Giordano Merlicco "Luglio 1914: l’Italia e la crisi austro-serba", edito da Nuova Cultura. Riceviamo e pubblichiamo la recensione

26/07/2019 -  Danilo Kovac

Presso l’opinione pubblica balcanica hanno destato impressione le tesi volte a riscrivere cause e responsabilità della Grande Guerra, tanto più che al revisionismo storiografico è seguito un revisionismo spiccio della stampa. Vale la pena citare la London Review of Books (Vol. 35, No. 23/2013), che è giunta ad attribuire a Gavrilo Princip responsabilità nello sterminio degli ebrei operato dalla Germania nazista (the Holocaust that he did a great deal to make possible).

Il libro di Giordano Merlicco (Luglio 1914: l’Italia e la crisi austro-serba, Nuova Cultura, Roma, 2019, 336 pp.) non è dedicato all’analisi delle responsabilità della guerra. Si tratta di un volume meno ambizioso, che ricostruisce la crisi austro-serba sulla base della documentazione italiana. Sia il mondo politico che l’opinione pubblica, in Italia, dedicavano considerevole attenzione ai Balcani, regione che, con le guerre balcaniche (1912-13), aveva acquisito un ruolo centrale nello scenario politico europeo ed era, inoltre, il principale terreno di scontro tra le alleate-rivali Italia e Austria-Ungheria. Irredentismo, interessi adriatici, instabilità albanese, destino del Montenegro…queste alcune delle questioni che contribuivano a tenere gli occhi di Roma fissi sulla regione balcanica, ma anche sull’impero asburgico, che meditava di infliggere una punizione a Belgrado.

Comprendendo la gravità del dissidio italo-austriaco, il governo serbo considerava Roma un utile interlocutore. L’Italia era, inoltre, un modello per la Serbia, sin da quando il Piemonte aveva raccolto attorno a sé le parti sparse della nazione italiana, battendo un nemico ben più potente, quale era l’Austria. Era ciò che si proponeva di fare la Serbia, che si atteggiava esplicitamente a Piemonte balcanico. Queste similitudini avevano creato una particolare affinità tra i due paesi. Nell’Ottocento, Giuseppe Mazzini aveva teorizzato il comune interesse di italiani e jugoslavi contro il nemico austriaco e, ancora nel 1914, la situazione di Italia e Serbia era per molti versi simile. L’irredentismo serbo in Bosnia-Erzegovina non era molto diverso dalle ambizioni di Roma sulle province italiane dell’impero asburgico. Da Mazzini trassero ispirazione Princip e i suoi compagni della Giovane Bosnia. L’associazione serba Narodna Odbrana non era molto diversa dalla Trento e Trieste, o dalla Dante Alighieri; loro obiettivo era mantenere viva la coscienza nazionale dei compatrioti sottoposti al dominio austro-ungarico, ponendo le condizioni per la loro incorporazione nei rispettivi stati nazionali.

Durante la crisi di luglio, il ministro degli Esteri italiano, San Giuliano, ipotizzò di offrire sostegno a Vienna, ma egli era cosciente che per gli italiani l’Austria-Ungheria rimaneva «una nemica implacabile, ora aperta, ora subdola», mentre l’alleanza con essa era giudicata «ingenua, vigliacca, dannosa». Il giornalista Gaetano Salvemini sottolineò «l’evidente analogia (…) fra l’attuale Serbia e il Piemonte del 1859», ciò che a suo giudizio avrebbe dovuto convincere il governo ad abbandonare l’opportunismo di San Giuliano, per adottare le idee mazziniane sull’alleanza italo-slava contro la duplice monarchia. Le assonanze serbo-italiane erano chiare anche a Vienna. L’ambasciatore austro-ungarico a Roma riportò compiaciuto che gli italiani furono colpiti da un «leggero brivido» alla notizia dell’ultimatum alla Serbia. Esisteva «una certa analogia» tra l’irredentismo serbo e quello italiano: le fattispecie imputate a Belgrado sarebbero, in futuro, potute valere anche contro Roma. Del resto, se le gerarchie militari e il “partito della guerra” austriaco avevano individuato nella Serbia la principale minaccia alla sopravvivenza dell’impero, non avevano mai risparmiato sospetti contro l’Italia. In fin dei conti, argomentava un documento austriaco, le ambizioni di Roma su Trento e Trieste erano «la semplice continuazione del moto per il quale è stata fatta l’Italia».

Pur nei limiti dell’argomento trattato, il volume è un utile strumento per analizzare la crisi di luglio. Le fonti italiane sono infatti concordi nell’attribuire all’Austria-Ungheria una chiara pulsione guerriera, sorta molto prima dell’attentato di Sarajevo. A determinare tale pulsione era il desiderio di ricompattare l’impero, frenando i suoi avversari esterni (la Serbia) e il crescente irredentismo dei sudditi slavi. Alcune componenti della classe dirigente asburgica reclamavano da anni una marcia su Belgrado, considerandola l’unico rimedio all’erosione del prestigio dell’Austria-Ungheria nei Balcani. Quanto all’uccisione di Francesco Ferdinando, essa semmai offrì un pretesto. La duplice monarchia era «in cerca di un pretesto per prendersela contro la Serbia», indicò, il 4 luglio, il ministro San Giuliano, che poco dopo, il 17 luglio, ribadì: «L'Austria-Ungheria sostenuta dalla Germania, (…) imporrà alla Serbia condizioni inaccettabili per aver pretesto ad attaccarla e schiacciarla».

Fu il console italiano a Sarajevo a chiarire le motivazioni asburgiche: «l’Austria non ha che un mezzo che le dia possibilità di tregua se non di salvezza ed è una decisiva imponente affermazione di forza». Queste conclusioni erano largamente condivise; il nazionalista triestino Fauro, che certo non nutriva simpatie per il movimento nazionale slavo, scriveva: «dilaniata dalle discordie nazionali; disgregata dalla putrefazione completa dei suoi istituti politici (…), l’Austria per uscire dalla sua situazione ha bisogno di una guerra». Quella di Vienna era chiaramente una guerra di aggressione e le cause profonde risalivano all’insanabile opposizione tra il principio nazionale, rappresentato dalla Serbia, e le retrive strutture politiche e ideologiche dell’impero asburgico. È del resto una manovra politica classica, quella volta cercare in un’avventura bellica la soluzione ai propri problemi interni.