Si tiene a Rovereto il convegno annuale di Osservatorio. A partire dall'esperienza dei Balcani, studiosi, giornalisti, politici ed attivisti discutono della memoria del XX secolo. Il documento introduttivo
Osservatorio sui Balcani è nato nel 2000 per rispondere alla domanda di conoscenza e dibattito di persone, associazioni ed istituzioni che da anni operavano per la pace e la convivenza nei Balcani. A raccogliere lo stimolo della società civile italiana, che si era mobilitata di fronte alle guerre degli anni '90, e farne una realtà unica in Italia è stato il Trentino.
In questa provincia la riflessione sulla pace e la guerra ha una storia lunga e consolidata che si è espressa nella creazione di importanti istituzioni quali la Fondazione Opera Campana dei Caduti (che promuove l'Osservatorio sui Balcani), il Museo Storico della Guerra, il Museo Storico in Trento ed il Forum Trentino per la Pace e i Diritti Umani.
Grazie al supporto dell'Assessorato alla solidarietà internazionale della Provincia autonoma di Trento e del Comune di Rovereto, da 7 anni a Rovereto opera un laboratorio culturale sui Balcani, la Turchia ed il Caucaso e sulla cooperazione territoriale che l'Italia intrattiene con questi Paesi alle porte dell'Unione europea.
Chi allora sostenne la nascita di Osservatorio aveva capito che le guerre di dissoluzione della Jugoslavia non erano una questione solo balcanica ma investivano direttamente la storia europea: il XX secolo terminava con un genocidio, proprio come era iniziato.
Con il convegno annuale, intitolato "Cattive memorie", Osservatorio quest'anno torna al tema della guerra in Europa con un'indagine sui luoghi della memoria che prende le mosse dal documentario di Andrea Rossini "Il cerchio del ricordo", realizzato con il finanziamento dell'Unione europea che sostiene anche questo evento.
Il percorso che ci ha portati alla realizzazione del documentario e all'organizzazione del convegno ci ha consentito di riflettere sul fare memoria dopo il clamoroso fallimento del "mai più alla guerra" in Europa. Il nostro è stato un viaggio nel Novecento europeo partendo dall'esempio paradigmatico della Jugoslavia.
Tornare a visitare alcuni dei principali memoriali della Seconda Guerra Mondiale nei Balcani ci ha condotti alla scoperta della straordinaria esperienza di alcuni architetti e scultori che nella Jugoslavia degli anni '60 e '70 affrontarono in forme del tutto originali la rappresentazione del passato e della vittoria sul nazi-fascismo.
È noto che la Jugoslavia di Tito avesse assegnato grande importanza alle commemorazioni della Seconda Guerra Mondiale. Molte energie politiche e intellettuali furono investite nella costruzione di migliaia di monumenti ed aree memoriali in tutto il Paese che celebrassero la grande epopea partigiana ed il progetto di costruzione di una società nuova. Senza dubbio il regime comunista jugoslavo non si era imposto con i carri armati sovietici ma si era affermato grazie ad un'imponente guerra di liberazione nazionale.
D'altro canto, nei Balcani il secondo conflitto mondiale aveva avuto tanto i connotati di una guerra di liberazione quanto quelli di una guerra civile. Nello sforzo di lasciarsi alle spalle quella tragedia, il regime di Tito aveva improntato la ricostruzione del Paese attorno allo slogan della "fratellanza ed unità", suggerendo l'idea che i comunisti fossero i soli in grado di superare le lacerazioni prodotte da imperialisti stranieri e "traditori interni" appartenenti a tutti i gruppi etnici.
Ma non si trattava solo di politiche pubbliche adottate dal regime per legittimare il progetto politico. In Jugoslavia il bisogno di luoghi della memoria era vivo anche nella società. La guerra, infatti, era costata la vita ad oltre un milione di persone ed i sopravvissuti manifestavano regolarmente il bisogno di luoghi dove elaborare i propri lutti privati e collettivi.
Dove il regime aveva esitato, la società civile si era organizzata per avanzare le proprie richieste di costruzione di memoriali. Il caso più noto su cui ci siamo soffermati fu quello di Jasenovac. Come sottolinea la storica Heike Karge, il "Fiore di Cemento" di Bogdan Bodganović rappresentò la risposta del regime alla richiesta dei sopravvissuti e dei famigliari delle vittime di uno dei maggiori campi di sterminio in Europa di costruire un memoriale dopo anni di oblio.
La narrazione ufficiale della Seconda Guerra Mondiale era tesa a sottolineare l'equilibrio etnico tra vittime e carnefici ma in luoghi come Jasenovac questa spiegazione mal si conciliava con la memoria locale. Qui le vittime degli ustascia croati erano stati sì ebrei, rom ed oppositori politici, ma soprattutto serbi. La costruzione di un gigantesco fiore di cemento fornì al regime una grande opportunità di commemorare e allo stesso tempo di soprassedere a ciò che era avvenuto in quel luogo.
Se è vero che esistevano spinte dal basso come quella di Jasenovac, è evidente che non a tutti fosse data la possibilità di soddisfare il bisogno di elaborazione del lutto. Per gli sconfitti non c'era spazio di espressione, né era immaginabile che il regime riconoscesse pubblicamente anche le loro sofferenze. La storiografia ufficiale, su cui si formavano generazioni di studenti e visitatori dei musei della guerra, presentava solo coraggiosi partigiani eroi della patria e crudeli nemici esterni ed interni verso i quali non si poteva avere compassione.
Quando la crisi del sistema comunista divenne irreversibile, le memorie degli sconfitti tornarono sulla scena. La lacunosa narrazione ufficiale della Seconda Guerra Mondiale, una volta entrato in crisi il sistema che l'aveva promossa, fu oggetto di infuocati dibattiti pubblici. Purtroppo, la rivisitazione della storiografia jugoslava non aprì nuovi spazi di democrazia ma servì a giustificare nuova violenza.
Il contributo degli studiosi che parteciperanno alla prima sessione di questo convegno proporrà, dunque, una riflessione sul ruolo del regime comunista nell'impedire la maturazione politica delle generazioni jugoslave cresciute in tempo di pace. A queste ultime, infatti, non fu concesso di elaborare uno sguardo autonomo sul passato e, senza strumenti critici a disposizione, esse finirono per accettare identità pre-definite che, come sottolinea Rada Iveković, sono potenzialmente omicide. (1)
A partire dagli anni '80, le classi dirigenti repubblicane, determinate a spartirsi il Paese, utilizzarono la memoria della guerra per fomentare il risentimento dei torti subiti in passato e alimentare la paura del suo ripetersi. Anziché mettere in discussione criticamente le pagine bianche del regime comunista questa operazione servì a risvegliare i traumi del passato.
Usando abilmente la paura come leva, migliaia di persone vennero mobilitate per scatenare "la guerra in casa" (2) e messe una contro l'altra in nome dell'appartenenza etnica. Il controllo e la manipolazione dei media, come è noto, rese particolarmente vulnerabile la società civile che non ebbe forza sufficiente per opporsi alla deriva nazionalista.
La parabola della Jugoslavia continua a sollevare interrogativi importanti rispetto alla nostra esperienza attuale. Se allora la pulizia etnica significò l'estremo rifiuto dell'eterogeneità culturale, oggi l'Europa non si mostra all'altezza delle sfide della società multiculturale. Di nuovo in questi giorni l'opinione pubblica italiana è rimasta intrappolata in un'accesa discussione sui temi della cittadinanza e dell'immigrazione nel corso della quale l'allarmismo dei media ha scatenato un'ondata di xenofobia.
Fino ad oggi, in Italia le campagne mediatiche basate sulla paura dell'altro non hanno avuto conseguenze dirompenti grazie alla stabilità politico-economica del Paese e alla sua società civile, maturata in sessanta anni di partecipazione.
Tuttavia la sfera pubblica di un paese democratico non è invulnerabile. Negli ultimi anni abbiamo sperimentato come l'uso pubblico della storia ostacoli anche da noi la serena rivisitazione critica della Seconda Guerra Mondiale. La sfida è garantire un dibattito aperto che consenta la conciliazione, la comprensione delle ragioni dell'altro, l'ammissione di responsabilità e la persecuzione dei crimini.
L'indagine che abbiamo condotto con il documentario si è soffermata poi sulla trasformazione dei luoghi della memoria della Seconda Guerra Mondiale in Jugoslavia e sulla riscrittura della storia avvenuta durante e dopo le guerre degli anni '90. Sapevamo che alcuni di quei monumenti con il tempo erano diventati anche luoghi della memoria del comunismo che li aveva eretti.
Proprio per la loro centralità nel corso della storia della Jugoslavia, durante gli anni '90 quei monumenti furono presi di mira, danneggiati o abbandonati all'incuria quando le loro imponenti dimensioni non ne consentivano la demolizione. Come è noto, la furia distruttrice dei simboli del passato a Mostar è arrivata ad interessare persino i simboli della storia ottomana.
Dopo la dissoluzione della Jugoslavia si è posto di nuovo il problema di come commemorare le vittime e gli eroi delle nuove guerre. Se il regime comunista aveva imposto la sua versione della storia mettendo a tacere le altre, altrettanto fecero i governi nazionalisti negli anni '90.
Oggi invece nessuno riesce a garantirsi il monopolio della verità pubblica ed il bisogno di tenere viva la memoria si esprime in forme contrastanti tra loro. Accanto alla crescente tentazione di dimenticare le responsabilità per le guerre della dissoluzione della Jugoslavia, vi sono spinte importanti ad affrontare criticamente il passato e la costruzione di nuovi luoghi della memoria.
Nel nostro secondo panel discuteremo, quindi, con i rappresentanti di alcuni dei più interessanti centri di documentazione sulle guerre degli anni '90 della possibilità di mettere a disposizione informazioni con cui avviare una ricostruzione storica al riparo da manipolazioni ideologiche. L'esperienza del secondo dopoguerra in alcuni casi spinge ad attribuire grande importanza alla rigorosa raccolta di dati, in particolare dove si confrontano narrazioni inconciliabili della storia recente.
L'indagine condotta con il documentario ha messo in luce anche il lavoro di chi lotta per ottenere un luogo dove seppellire i propri morti ed elaborare il lutto subìto, richiamando anche la comunità internazionale alle sue responsabilità. Ancora una volta il bisogno di commemorare spesso si accompagna al desiderio che nessuno debba più subire la violenza di cui si è stati vittime. Ma il rischio di coltivare nuove illusioni resta alto.
Molta strada deve essere ancora percorsa per arrivare a diffondere una nuova cultura politica basata sul ripudio della guerra come strumento per risolvere le contese nazionali ed internazionali. Se i comunisti avevano glorificato la guerra di liberazione nazionale, i nazionalisti continuano ad attribuire alla guerra un significato emancipatorio, se pure di segno contrario. Perciò discuteremo anche del grado di elaborazione dei conflitti degli anni '90 da parte delle opinioni pubbliche della regione.
Nella tavola rotonda che concluderà la giornata intendiamo tornare sulla nostra idea che la strada da seguire sia quella del riportare l'Europa balcanica in seno al progetto politico di integrazione europea. Ovvero in seno a quel processo storico di superamento della guerra e di costruzione di un comune spazio politico, da cui era rimasta esclusa durante la Guerra Fredda.
Grazie al contributo dei partecipanti che ricoprono ruoli pubblici a livello locale, nazionale ed europeo, nell'ultima parte del nostro convegno vorremmo esaminare criticamente i nodi principali che ostacolano la realizzazione di questo obbiettivo.
Le fine della Jugoslavia ha sollevato grandi interrogativi su come fosse possibile lasciarsi alle spalle un sistema politico autoritario per sostituirlo con quello che appariva un progetto anacronistico di costruzione di stati-nazione. In realtà, l'esperienza dell'integrazione europea negli ultimi anni ci ha mostrato come anche i vecchi stati membri fatichino a cedere sovranità ed a superare l'ottica stato-nazionale e così facendo continuino a rallentare la nascita dell'Europa politica.
Rispetto all'allargamento a sud-est, negli ultimi tempi prevalgono le resistenze dovute al timore di flussi migratori incontrollati e all'instabilità politica che caratterizza i nuovi paesi membri dopo l'esperienza dei regimi comunisti.
Sebbene dominato da istanze economiche e aspetti tecnico-legali, il processo di integrazione europea per i Balcani resta un fondamentale orizzonte politico. Grazie ad esso, negli ultimi anni, alcuni dei paesi della regione hanno fatto passi avanti importanti rispetto al processo di democratizzazione.
Prendendo spunto dall'esperienza balcanica, vogliamo discutere di quale futuro possa avere un'Europa senza una memoria condivisa. È corretto affermare che la costruzione dell'Europa politica necessita di crescere un senso di appartenenza a processi storici, sociali e culturali che ne costituiscano le fondamenta di civiltà giuridica e sociale? E quali spazi, quali luoghi, quali piazze contribuiscono a costruire una identità nella quale si possano riconoscere oltre cinquecento milioni di europei?
Il rapporto tra il passato ed il presente propone sempre nuove sfide. Come ci ricorda il grande studioso Zvetan Todorov: «la ripetizione ossessiva del "mai più" all'indomani della prima guerra mondiale non ha affatto impedito che vi fosse la seconda. Il fatto che ci vengano minuziosamente raccontate le passate sofferenze degli uni, la resistenza degli altri, forse ci rende vigili verso Hitler e Pétain, personaggi della seconda guerra mondiale, ma ci aiuta anche a ignorare i pericoli attuali - poiché essi non minacciano gli stessi soggetti e non assumono le stesse forme. Il passato funge allora da schermo calato davanti al presente, anziché condurre a esso, e diventa una scusa per l'inazione.» (3)
Allora, oltre ad uscire dal cerchio ossessivo del ricordo, dobbiamo decostruire l'architettura di una memoria diventata retorica ed insieme interrogarci sulla sfida della costruzione di una memoria del futuro. Contribuire ad elaborare i conflitti europei per non averne paura: questo è l'intento di Osservatorio sui Balcani.
NOTE
(1): Rada Ivekovic (1995), La Balcanizzazione della ragione, Roma: Manifestolibri
(2): Dal titolo della monografia sulla guerra di dissoluzione della Jugoslvia di Luca Rastello (1998), La guerra in casa, Torino: Einaudi
(3): Zvetan Todorov (2007), 'Gli usi della memoria', Quaderno di Relazioni Internazionali, n. 4, Aprile, p.13