Che senso ha seguire il Caucaso? Con quest'ampio articolo Fabio Della Piazza propone una rassegna su una delle aree al mondo più calde dal punto di vista geostrategico. Ne traccia i legami con le vicende dei Balcani e pone alcune chiavi di lettura
Poco meno di cinque anni fa, Svante Cornell, uno dei massimi studiosi dell'area caucasica in Europa, aveva avanzato, a conclusione di un'analisi sui conflitti etno-politici che interessano il Caucaso, un paragone storico estremamente suggestivo e altrettanto sconcertante. Cornell sosteneva infatti che la regione caucasica alla fine dello scorso secolo vivesse una situazione pericolosamente simile a quella dei Balcani all'alba del primo conflitto mondiale, riproponendo una serie di allineamenti strategici di livello internazionale che poggiavano e riflettevano gli antagonismi locali fra gli stati che avevano da poco fatto la loro comparsa nella regione come attori semi-indipendenti.
Oggi c'è fortunatamente ragione di credere che la pertinenza di tale raffronto sia venuta gradualmente meno, grazie all'evoluzione politica in senso democratico liberale che ha interessato l'area caucasica negli ultimi 5 anni, in forme e gradi differenti. Ciò non toglie che oggi il Caucaso resti un'area di estrema tensione geopolitica, caratterizzato da un'instabilità a tratti endemica e dove lo scenario di conflitti localizzati che si allarghino all'intera regione, coinvolgendo le potenze regionali confinanti, non pare ancora del tutto scongiurato.
La persistenza di questo rischio e la crescente interdipendenza che lega l'Europa all'area caucasica e centro asiatica (per questioni non solo relative alle forniture energetiche del vecchio continente, ma più in generale alla sicurezza e alla stabilità politico-economica dell'area europea) rendono evidentemente necessario uno sforzo cognitivo di preparazione che dovrebbe interessare non solo le autorità politiche ma anche la società civile europee. Ciò al fine di garantire uno scambio d'informazioni, esperienze e capacità tecniche che possa evitare l'insorgere di crisi aperte e il ripetersi di un intervento della comunità internazionale solo ex post, in una mera ottica di alleviamento dell'emergenza umanitaria.
In questo senso, l'indifferenza o leggerezza con cui l'Europa occidentale e le sue massime istituzioni politiche hanno reagito al deteriorarsi delle crisi balcaniche alla fine degli anni ottanta e all'inizio degli anni novanta, così come i successivi interventi della comunità internazionale di peace enforcing, peacekeeping e ricostruzione post-bellica, spesso non supportati da una sufficiente conoscenza della realtà socio-politica delle regioni afflitte da conflitti armati in cui s'interveniva, non possono che suonare come campanello d'allarme che dovrebbero indurre a minimizzare quanto possibile il ripetersi di simili errori.
Alla luce di queste considerazioni, Osservatorio sui Balcani ha aperto una nuova "finestra" sul Caucaso, che possa fungere da mezzo di analisi e monitoraggio dei più recenti sviluppi nella regione caucasica e al tempo stesso fornire un servizio informativo di facile accesso alla comunità scientifica, istituzioni e persone interessate.
Detto questo, occorre notare come il crescente interesse che la regione caucasica suscita tanto a livello istituzionale che d'opinione pubblica non sia ovviamente incentrato solo su un fattore di instabilità geopolitica che tanto ricorda i Balcani di inizio novecento, o forse anche quelli di fine novecento. Né tanto meno, le similitudini si fermano a quest'area tematica.
Il Caucaso infatti risulta essere ai primi posti di numerose agende dei più importanti centri di potere e di decisione politica transatlantici ed euroasiatici e le ragioni non paiono mancare. Al fine di identificare le più importanti fra queste ragioni e con l'ambizione di definire già in questa fase iniziale una struttura di massima dell'indagine analitica e giornalistica che verrà condotta nei mesi a venire, pare opportuno definire alcuni dei temi più scottanti e attuali a cui verrà dedicata una maggiore intenzione.
Introduzione geografica
Il Caucaso attira immediatamente l'attenzione di un osservatore esterno per la sua complessità etnico-politica-religiosa, che a prima vista non può che apparire stupefacente, per non dire disarmante. Infatti, la regione caucasica, che include tanto il settore settentrionale che quello meridionale della catena montuosa che dà il nome alla regione, comprende un'area di quasi 300.000 chilometri quadrati e più di 30 millioni di abitanti, divisa fra 4 stati (Armenia, Azerbaijan, Georgia e Russia). Questi ultimi sono, a loro volta, suddivisi in 13 entità formalmente o di fatto autonome, siano esse repubbliche separatiste (il caso del Nagorno Karabakh per l'Azerbaijan, dell'Ossezia del Sud, dell'Abcazia e, fino al 2004, dell'Ajara per la Georgia, della Cecenia per la Federazione Russa) o repubbliche e regioni autonome all'interno di una struttura federale consolidata o in fieri (ovvero il Daghestan, l'Inguscezia, l'Ossezia del Nord, la Kabardino- Balkaria e la Karachaievo-Cerkessia per la Federazione Russa, l'Ajara per la Georgia e Nakhichivan per l'Azerbaijan).
Questo scenario contemporaneo del Caucaso è in realtà il risultato della combinazione fra una realtà etnico-religiosa effettivamente intricata e un'evoluzione politico amministrativa della regione che cominciò a delinearsi nelle forme attuali fra la fine del settecento e l'inizio dell'ottocento, nel contesto della scontro geopolitico fra imperi russo, ottomano e persiano per la supremazia nell'area caucasica ed euroasiatica.
Aree tematiche
Oggi il Caucaso presenta almeno quattro conflitti "congelati" e un'allarmante serie di potenziali conflitti che si sono spesso pericolosamente avvicinati a punti di non ritorno. La più conosciuta e certamente la più devastante fra queste crisi armate è la questione del Nagorno-Karabakh, che oppone questa ex regione autonoma armena in territorio azero (anche se ormai di fatto indipendente dal 1994 e fortemente legata alla stessa Armenia) alle autorità di Baku, che non hanno saputo né potuto evitare l'occupazione del 20% del territorio nazionale da truppe armene sostenute da contingenti ex sovietici passati sotto il comando russo. Nonostante il conflitto sia oggi di fatto bloccato sulle linee del cessate il fuoco del 1994, la tensione resta alta e altre scottanti questioni legate alla guerra dei primi anni novanta, prima fra tutte quella dei rifugiati (600.000 Azeri e 300.000 Armeni), necessitano da tempo un'attenzione più decisa della comunità internazionale.
Benché quello del Nagorno-Karabakh resti l'unico conflitto ad opporre di fatto due stati indipendenti della regione, la gravità delle crisi separatiste che hanno interessato la Georgia e la Russia negli ultimi 15 anni resta comunque un fattore di enorme instabilità per l'area caucasica. Da un lato i conflitti dell'Abcazia e dell'Ossezia del Sud hanno contrapposto queste due repubbliche indipendentiste (quasi apertamente sostenute dalle truppe russe di peacekeeping dispiegate nelle aree di conflitto) alle autorità centrali georgiane, in uno scontro che è fra il 1990 e il 1993 ha messo a serio repentaglio l'esistenza della Georgia nella forma di stato indipendente ed unitario.
Dall'altro, i due conflitti che hanno interessato la repubblica federata di Cecenia fra il 1994 e il 1996 e fra il 1999 e il 2002, hanno drasticamente destabilizzato l'intera regione nord caucasica, oltre a mettere in evidenza la volatilità delle politiche di Mosca nel gestire le svariate richieste di effettiva autonomia nella frangia meridionale della Federazione Russa.
Tuttavia, le traumatiche conseguenze di questi conflitti aperti non si fermano alla necessità di trovare una soluzione politica a queste crisi e ad altre questioni ad esse legate, quali la ricostruzione e gestione postbellica e il futuro status dei rifugiati (che nell'area caucasica ammontano a ben più di un milione). Infatti, fra gli effetti dirompenti dei quattro conflitti precedentemente citati vi è certamente la pericolosissima destabilizzazione arrecata alle aree circostanti, che già risultano particolarmente "infiammabili" a causa della complicata composizione etnico-religiosa per nulla affievolita dai confini amministrativi ereditati dall'Unione Sovietica.
E così, gli effetti della guerra cecena finiscono per avere un'influenza diretta sul Daghestan, dove le incursioni di alcune delle truppe paramilitari cecene nel 1999 hanno messo a repentaglio il fragile sistema governativo che cerca di mediare gli interessi delle decine di gruppi etnici abitanti questa republlica. Ma la guerra in Cecenia ha significativi effetti anche sulla vicina Inguscezia, divenuta la destinazione principale di decine di migliaia di rifugiati ceceni. A loro volta gli stessi Ingusceti, popolo caucasico di fede mussulmana sunnita, rivendicano parte del territorio della cristianissima e filo-russa Ossezia del Nord, sulla base delle variazioni di confine attuate da Stalin all'epoca delle deportazioni di massa di Ceceni, Ingusceti, Caraci e Balcari nel secondo dopo guerra, ma mai sancite da trattati bilaterali nel nuovo contesto della Federazione Russa. Ed infine nuove latenti tensioni sono visibili nelle repubbliche mussulmane della Cabardino-Balcaria e della Caraci-Cerchessia, dove la politica del divide et impera, attuata prima dalla Russia zarista e poi da quella sovietica, ha portato ad una situazione in cui le popolazioni turche dei Caraci e Balcari sono divise dal punto di vista amministrativo e rispettivamente appaiate invece agli indigeni Cabardini e Cerchessi. A ciò si aggiunge poi la centenaria politica di Mosca di appoggiare quest'ultime popolazioni di origine caucasica in chiave antiturca.
Una volta delineato questo scenario, risulta più chiaro perché definire il Caucaso una vera polveriera etnico politica non sia per nulla un'esagerazione. Ed è altrettanto chiaro perché la comunità internazionale abbia tutto l'interesse a cercare di ridurre il rischio di escalation di queste crisi che hanno un potenziale effetto destabilizzatore non solo per la regione caucasica, ma anche per le altre aree circostanti, quali Medio Oriente e Asia centrale.
Tuttavia, nonostante la talvolta imperscrutabile complessità di questa regione, è nondimeno possibile identificare alcuni tratti ed elementi comuni che sembrano essere accomunabili a tutte queste situazioni di effettiva o potenziale crisi.
Innanzitutto, il ruolo cardinale giocato dalla Federazione Russa nello sviluppo o mancata risoluzione di queste crisi. Che Mosca sia una parte direttamente coinvolta nel conflitto, come accade in Cecenia e per certi versi in Daghestan e nelle altre repubbliche nord caucasiche, oppure che essa si presenti come un fittizio mediatore imparziale in realtà interessato a sostenere i propri interessi regionali attraverso il congelamento del conflitto e il dispiegamento delle proprie truppe nell'area, le politiche del Cremlino finiscono comunque con l'influenzare fortemente le situazioni di stallo che caratterizzano il Caucaso.
In particolare, la Russia è presente militarmente nella regione oltre che nel Caucaso del nord, anche con truppe d'interposizione e peacekeeping in Abcazia, Ossezia del Nord e Nagorno-Karabakh, e con basi militari in Ajara, Akhalkalaki (regione a maggioranza armena della Georgia), Abcazia e Armenia (dove le truppe russe sorvegliano addirittura i confini con Iran e Turchia). Mosca ha inoltre una posizione privilegiata in tutti i tavoli negoziali che sono stati istituiti per la risoluzione dei conflitti, presiedendo come membro permanente i negoziati del Gruppo di Minsk per il Nagorno-Karabakh, essendo di fatto doppiamente rappresentata (attraverso l'Ossezia del Nord) nella Joint Control Commission responsabile per il rispetto degli accordi di Soci del 1992 per la pacificazione dell'Ossezia del Sud, ed infine in Abcazia dove le autorità militari russe controllano direttamente le truppe di interposizione della CSI e dove Mosca gode di un ruolo di particolare rilievo negli sforzi di negoziazione portati avanti dalle Nazioni Unite. Più in generale, il ruolo della politica russa nel Caucaso degli ultimi dieci anni potrebbe essere descritto come quello di una potenza regionale che sta cercando in tutti i modi di riguadagnare la posizione geopolitica persa durante i primi anni novanta a causa di una confusa riformulazione delle priorità della politica estera russa durante la prima presidenza Eltsin.
Oggi Mosca mantiene comunque una posizione di rilievo e di forza in tutti i conflitti del Caucaso del Sud, sostenendo spesso apertamente regioni secessioniste (è stato certamente il caso dell'Ossezia del Sud e dell'Abcazia) al fine di indebolire le autorità centrali e di sottoporle ad una fortissima pressione affinché diano priorità alla Russia come partner regionale privilegiato. Se in alcuni casi questa strategia ha probabilmente portato dei frutti, recentemente vi è stata una tendenza da parte delle parti interessate da conflitti a cercare una maggiore indipendenza da Mosca, talvolta preferendole negoziati diretti bilaterali o sotto l'egida di organizzazioni internazionali o di stati in grado di garantire un più alto livello di imparzialità. Ciò è da un lato la conseguenza della politica eccessivamente arrogante del Cremlino nei rapporti bilaterali con i nuovi stati indipendenti della regione che ha evidentemente infastidito tanto l'opinione pubblica che le élites politiche di questi paesi sottoposti al potere russo per quasi duecento anni (si pensi al recente raddoppiamento dei prezzi del gas esportato dalla Russia alla Georgia, in risposta alle proposte dell'attuale presidente georgiano Sakhashvili di sostituire le truppe di peacekeeping russe con contingenti internazionali).
A questo si deve aggiungere che negli ultimi anni un numero crescente di attori internazionali e regionali si è affacciato sull'area caucasica (e soprattutto caspica), mettendo a repentaglio la posizione di forza della Russia e offrendo agli stati della regione un'opportunità di "diversificare" le proprie relazioni esterne e politiche estere.
Se da un lato quest'evoluzione ha portato ad un inasprimento dell'atteggiamento russo, essa ha anche fornito nuove scenari, ancora in gran parte da esplorare, per la risoluzione delle varie crisi regionali che affliggono la regione. In particolare, il fatto che gli Stati Uniti e negli ultimi anni l'Unione Europea, si siano aggiunti alla tradizionale triade Russia-Iran-Turchia, ha arrecato certamente mutamenti di rilievo nell'odierno scacchiere geopolitico del Caucaso.
Occorre inoltre considerare che tanto Washington quanto, e in misura ancor maggiore, Bruxelles, hanno interessi strategico-energetici che dipendono dalla pacificazione e stabilizzazione della regione. È lecito attendersi quindi che le politiche regionali statunitense ed europea siano incentrate su questioni quali la risoluzione dei conflitti e il rafforzamento delle tre repubbliche caucasiche, indipendentemente dai fini ultimi che sottostanno alle azioni intraprese da Stati Uniti e Unione Europea. Più in generale, la presenza di due nuovi attori, capaci di incidere significativamente sull'evoluzione della geopolitica caucasica, può fornire inedite possibilità di mediazione da parte della comunità internazionale, con probabili garanzie di un maggiore grado d'imparzialità rispetto al passato o, perlomeno, di bilanciamento dell'egemonia negoziale russa.
L'impegno crescente dell'Unione Europea nell'area caucasica rappresenta certamente la più importante novità degli ultimi due anni per il Caucaso, se non altro per la posizione di rilievo che Bruxelles sembra in grado di occupare nella regione nel medio periodo. Infatti, con il lancio della nuova Politica Europea di Vicinato (European Neighbourhood Policy - ENP) nel 2003 e con l'inclusione nel 2004 delle tre repubbliche caucasiche nell'area d'interesse della ENP, Bruxelles sembra aver decisamente optato per una trasformazione del suo ruolo nel Caucaso. Da organizzazione internazionale che garantiva aiuti umanitari in situazioni d'emergenza, l'Unione Europea può ora ambire a divenire un attore regionale desideroso di sostenere più decisamente gli sforzi delle tre repubbliche caucasiche volti alla risoluzione dei conflitti, alla transizione verso economie di mercato e al rafforzamento delle istituzioni democratiche.
Attraverso una sorta di "carota ridotta" rispetto alla prospettiva d'adesione offerta 15 anni fa ai nuovi dieci stati membri e oggi ai paesi dei Balcani, l'Unione Europea propone attraverso l'ENP una partecipazione graduale e selettiva al mercato interno e alle altre importanti politiche comunitarie. Per riprendere un'espressione della Commissione Prodi, l'Unione offrirebbe quindi agli Stati partecipanti alla ENP "tutto tranne le istituzioni".
Benché l'evoluzione di quest'iniziativa dipenderà in gran parte dal successo del processo d'adesione nei Balcani e, più in generale, del rilancio del progetto europeo fra gli attuali stati membri, la ENP rappresenta un'eccellente opportunità per favorire lo sviluppo democratico della regione caucasica e sottrarla all'instabilità politica e militare prima che quest'ultima diventi endemica. In questo senso, le similarità con l'area balcanica sono numerose. Infatti, se da un lato la prospettiva di partecipazione alle politiche europee non può che agire da stimolo per il rilancio del processo di riforme degli apparati statali caucasici, dall'altro è evidente come l'UE abbia ottime carte da giocare per spingere le repubbliche caucasiche a risedersi ai rispettivi tavoli negoziali e a premiare eventuali soluzioni di compromesso delle crisi.
Al tempo stesso, l'esperienza che l'UE sta accumulando nella gestione del processo di stabilizzazione e adesione nei Balcani e, cosa ancor più importante, i relativi fallimenti delle politiche di Bruxelles in quest'area, dovranno essere capitalizzati nella definizione della ENP nel Caucaso. In particolare, una delle priorità del Processo di Stabilizzazione e Adesione (Stabilization and Association Process - SAP) adottato per i Balcani era e rimane il rafforzamento della cooperazione regionale fra le ex-repubbliche jugoslave e l'Albania. Tuttavia, i più recenti avvenimenti mostrano come ognuno di questi paesi abbia preferito cercare canali individuali nelle proprie relazioni con Bruxelles, mettendo in secondo piano i rapporti con i propri vicini e soprattutto trascurando la discussione bilaterale o multilaterale delle più scottanti questioni post-belliche della regione. E, se è vero che l'Unione Europea non ha probabilmente saputo vincolare sufficientemente le ex-repubbliche jugoslave in questo senso, oggi le istituzioni europee hanno la possibilità di non ripetere gli stessi errori nel Caucaso, regione in cui la risoluzione duratura dei conflitti sembra avere come prerequisito una stabilità regionale nei rapporti fra le tre repubbliche del sud e gli altri attori regionali.
Inoltre, in quest'ottica regionale, Bruxelles può e deve contare anche su un altro tipo di aiuto/condizionamento esterno, proveniente da Ankara. Il governo turco ha stabilito ottimi rapporti con l'Azerbaijan (grazie anche all'affinità etnica e linguistica) e, in misura minore, con la Georgia, mentre le relazioni diplomatiche con l'Armenia sono formalmente non esistenti. Ciò nondimeno, la Turchia può certamente essere considerata come una delle potenze regionali più interessate alla stabilità economica e politica del Caucaso e, di conseguenza, ad una risoluzione pacifica dei conflitti che lo affliggono. Proprio la spinosa questione delle relazioni con Yerevan, è diventata una dei principali oggetti di contesa nelle relazioni fra Ankara e Bruxelles. In questo senso, la recente apertura dei negoziati d'adesione fra l'Unione e la Turchia e la conseguente influenza di cui Bruxelles potrebbe godere nella definizione della politica turca nel Caucaso, rendono lo stato turco un'eccellente alleato (per non dire cavallo di Troia) nello sforzo di stabilizzazione dell'area caucasica lanciato da Bruxelles.
Infine, sarebbe difficile spiegare gran parte degli interessi, dei conflitti e delle nuove iniziative precedentemente descritte se non ci fosse chiara l'estrema importanza del Caucaso quale fonte e via di passaggio di risorse energetiche e commerciali. Infatti, il nuovo ruolo giocato dagli Stati Uniti nella regione, così come l'accresciuto interesse europeo per quest'area trovano una giustificazione importantissima, se non una pietra miliare, nelle riserve di petrolio e gas dell'area caspica e del Asia Centrale. Se in un primo tempo sembrava che le risorse petrolifere dell'Azerbaijan e del Caspio in genere fossero tali da giustificare una politica più assertiva da parte dell'Occidente assettato di energia e desideroso di diversificare le proprie fonti di rifornimento, oggi diventa sempre più chiaro che quella che si gioca nel Caspio e nel Caucaso è una partita che coinvolge una regione ben più grande, fino ad includere tutte le ex-repubbliche sovietiche centroasiatiche, la regione del Golfo Persico e probabilmente anche la Cina e l'India. Il Caucaso, infatti, sta per divenire la nuova "via della seta" per il trasferimento di petrolio e gas dall'Asia centrale all'Europa, con un possibile flusso inverso di altri altrettanto strategici prodotti. Cosa ancor più interessante, quasi ognuno dei conflitti che interessano la zona trova una giustificazione logica nella geografia dei vari oleodotti e gasdotti che sembra ossessionare svariate capitali. Per non menzionare che alcuni esempi, il nuovissimo oledotto Baku-Tblisi-Ceyan altro non è che un ottimo percorso per bypassare Iran, Russia e la filo-russa Armenia nel trasferimento delle risorse energetiche del Caspio e dell'Asia centrale. Allo stesso modo, l'ostinatezza con cui Mosca si è opposta all'indipendenza cecena può essere anche giustificata dal passaggio attraverso questa repubblica dell'oleodotto Baku-Novorrosisk, che forniva al Cremino, fino a pochi anni fa, una sorta di monopolio nell'esportazione del petrolio del Caspio verso l'Europa occidentale.
Più in generale, lo sviluppo economico, e la conseguente stabilizzazione, di almeno due degli stati indipendenti del Caucaso, Azerbaijan e Georgia, è legato a doppio filo all'estrazione e al trasporto degli idrocarburi del Mar Caspio e ciò non può che accrescere la rilevanza della questione energetica per l'intera regione. Infine, la stessa rete di distribuzione di queste risorse in loco si è spesso dimostrata un eccezionale elemento di ricatto o di controllo politico da parte delle agenzie e compagnie russe (principalmente Gazprom e UES) che dominano la scena nel Caucaso e il cui ruolo nella politica estera russa appare evidente.
A conferma dell'estrema complessità di questa regione cerniera fra Asia, Europa e Russia, la maggior parte delle grandi questioni che oggi interessano il Caucaso presentano un alto grado di interdipendenza, caratteristica che, se da un lato offre numerosi spunti di ricerca ed approfondimento, dall'altro rende estremamente complessa l'elaborazione di un metodo di ricerca e monitoraggio da utilizzarsi nel medio periodo.