Riportiamo l'intervento integrale di Rosita Viola, direttrice di ICS, al convegno di OB "Vivere senza futuro? L'Europa tra amministrazione internazionale ed autogoverno: i casi di Bosnia Erzegovina e Kossovo".
La cooperazione governativa italiana nei Balcani - come del resto altrove - è in gravissima crisi. Quest'ultima è testimoniata da una serie di sintomi: il taglio dei finanziamenti, il mancato rispetto degli impegni presi in sede internazionale, il fallimento della legge n. 49 che stabilisce tra l'altro che le associazioni non governative contribuiscono alla politica estera del Governo e questo è un punto di disaccordo tra le varie organizzazioni e il Governo, la paralisi della burocrazia ministeriale, la commistione sempre più evidente degli aiuti umanitari con gli interventi militari, come è già stato affermato in merito all'intervento militare in Kosovo nel 1999 ed in generale la mai venuta meno ambiguità tra gli interventi di cooperazione e le politiche commerciali, nonché l'incoerenza delle altre politiche finanziarie neoliberiste che contraddicono la finalità di promozione umana e di giustizia della cooperazione.
Di fronte a questo quadro sconsolante e alla mancanza di risposte concrete da parte delle istituzioni si alza forte la protesta delle organizzazioni e delle associazioni della solidarietà dal basso. Non sembrano esserci più le politiche e gli investimenti nella cosiddetta "Cooperazione allo Sviluppo", termine obsoleto a cui si preferisce quello di "Cooperazione non governativa".
Tenendo ben presente la distinzione che anche oggi è stata qui ribadita e cioè che il Kosovo può essere definito un "Protettorato internazionale" così come stabilito dalla Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza, mentre la Bosnia Erzegovina è forse più uno stato a sovranità limitata, quello della cooperazione nei protettorati è un meccanismo che è stato sperimentato nei Balcani, sviluppato in Afghanistan e perfezionato in Iraq.
Cooperare in un contesto di protettorato internazionale significa operare in un sistema "arbitrario" - si è parlato, ad esempio, di un Alto Rappresentante con poteri speciali - perché non consente né ai cooperatori esteri, né alle loro controparti in loco di avere delle "regole del gioco" chiaramente ben definite. Le decisioni vengono prese da pochi e nella maggior parte dei casi contravvenendo anche alle convenzioni internazionali. Muoversi in tale contesto risulta oltremodo difficile se si aggiunge che i cooperatori intervenuti nei Balcani e altrove vengono visti dalla popolazione locale come parte della Comunità Internazionale, della quale, quindi, condividono aspetti positivi e soprattutto negativi.
Un altro rischio connesso all'attività in questo contesto è rappresentato dalla strumentalizzazione, finalizzata all'appoggio delle politiche del protettorato.
Soprattutto in un momento come questo in cui la guerra viene interpretata sempre più come uno strumento di risoluzione delle controversie internazionali, la pratica della solidarietà attiva, della partecipazione, della diplomazia che un tempo si definiva "popolare", ma che si potrebbe chiamare diplomazia "delle comunità", così come della cooperazione decentrata o meglio "comunitaria" possono rappresentare una valida alternativa alla guerra come strumento che alimenta anche la logica dei protettorati internazionali.
Oggi, discutendo attorno sui fatti di marzo in Kosovo, ho sentito termini quali "fallimento della Comunità Internazionale", "fallimento delle politiche socio-economiche", "fallimento degli strumenti utilizzati", è quindi opportuno cominciare a riflettere sulla volontà o sul dovere di continuare l'opera o se invece la si deve riprogettare nelle modalità.