Riportiamo l'intervento integrale di Nicole Janigro, ricercatrice e saggista, intervenuta lo scorso dicembre al convegno di OB "Vivere senza futuro? L'Europa tra amministrazione internazionale ed autogoverno: i casi di Bosnia Erzegovina e Kossovo.
Intendo qui proporre qualche linea di riflessione soggettiva che è maturata ascoltando i vari interventi a questa conferenza, durante la quale ho avuto occasione di incontrare dopo molto tempo diverse persone provando la piacevole sensazione di non sapere esattamente da quale parte dell'Adriatico le avessi conosciute.
Sono stata piacevolmente sorpresa dal fatto che su ogni tema affrontato in questo incontro si siano potuti ascoltare diversi punti di vista: si tratta sempre di una questione di punti di vista che però è molto importante, soprattutto quando si parla di conflitti balcanici. Vi riferisco una frase sentita da un architetto irakena Zahia Adid, continuamente interrogata sul tema della guerra, è solita rispondere che l'opinione sulla guerra cambia se la si esamina dal punto di vista "del missile o da quello della formica".
Come si deduce dal titolo di questa conferenza, dopo tanti anni dalla conclusione degli scontri balcanici si fa ancora fatica a parlare del futuro. Questo è comprensibile in un'area appena uscita da un conflitto cruento come fu quello yugoslavo. Diversi indicatori per area rispecchiano questo timore, come ad esempio il tasso di natalità che in alcune aree della Bosnia Erzegovina, della Croazia e della Serbia risulta molto basso, continua a scendere e preoccupa le istituzioni politiche ed anche la chiesa.
L'altra questione che desidero porre qui oggi riguarda quella del tempo. Ieri diverse persone hanno affermato la necessità di guardare al presente soprattutto per quanto riguarda il Kosovo. Questo è senz'altro vero per quanto riguarda la ricostruzione, pensiamo alle distruzioni materiali in Kosovo e in Bosnia Erzegovina dove centinaia di migliaia di case sono state distrutte anche prima e dopo la guerra dagli episodi di violenza, ma è anche necessario che inizi quanto prima la discussione sul futuro, per potere iniziare a realizzare nel presente un certo tipo di futuro, soprattutto per quelle situazioni che attualmente sono bloccate.
Discutere del futuro significa anche iniziare a fare i conti con il passato e da qui nascono le difficoltà. Personalmente non mi sento di dire nulla di particolare in proposito perché, a proposito di punti di vista, fa molta differenza discutere su questa questione a San Servolo o a Kosovska Mitrovica o a Prijedor, ma il processo di confronto col passato è necessario anche se impiegherà tempi lunghi e richiederà forse generazioni come la storia ci ha dimostrato avvenire in molti casi. Comprensibilmente oggi le giovani generazioni sono dominate dalla frenesia di chiudere con il passato.
In Bosnia Erzegovina, nonostante vi siano due entità che dividono i fiumi, le fabbriche, che la popolazione sia divisa in una maniera bizzarra, in un contesto economico difficilmente sostenibile la situazione appare più stabile rispetto al Kosovo, se non altro perché è possibile discutere sulle modifiche di uno status che esiste oramai da dieci anni. Più aperta e problematica la situazione del Kosovo, privo di uno status e dalla situazione interna più critica della quale risulta difficile tracciare i profili futuri.
Un altro filo conduttore che mi sento di rilevare è il rapporto fra "locale" e "globale". Durante la conferenza, mi ha stupito la mancanza di riferimenti alla situazione internazionale, ho riscontrato la medesima tendenza anche sulla stampa serba, che si occupa moltissimo di notizie provenienti dal Kosovo o dalla Chiesa Ortodossa, tanto da ricordarmi la situazione della Croazia nel 1991-1992, ma tratta pochissimo le notizie estere e gli esempi in merito potrebbero abbondare. Di questo fatto soffrono le realtà culturali, i Paesi che confinano hanno rapporti frequentemente tesi per questioni di visti ecc. Si tratta quindi di sostanziale chiusura al "globale".
Anche se oggi i fatti della Yugoslavia sembrano preistoria, soprattutto per quanto riguarda l'uso dei media nel racconto delle atrocità e sebbene il conflitto fosse marcatamente regionale, essi costituiscono il primo modello di sperimentazione delle modalità di intervento militare ed umanitario, a cui in precedenza non si era mai assistito e che invece oggi costituisce prassi comune in molti casi.
Per quanto riguarda il "locale" nelle aree dell'ex Yugoslavia vi è stata una lunga tradizione di autogestione giuridica ed economica, tanto forte da provocare dopo la morte di Tito una "rifeudalizzazione" che è diventata evidente allo scoppio del conflitto, che fu una guerra per zone, durante la quale rivestirono ruoli importanti i vari leader locali, come spiega bene Luca Rastello nel suo libro "La guerra in casa". La domanda che pongo agli operatori che adesso si trovano in quelle zone è: "com'è possibile utilizzare questa caratteristica rispetto ai macro-fattori?"
Ancora oggi risulta difficile uscire da questo tipo di logica: durante il nostro incontro si è parlato di "enclaves" riguardo i serbi del Kosovo, ma è necessario chiedersi se si può parlare di una presenza generalizzata di "enclaves" nella ex Yugoslavia; anche discutendo della questione dei media e di quella dei protettorati è nuovamente emerso il concetto di divisione dei cittadini su base nazionale, anche se è necessario tenere presente la peculiarità del Kosovo nel quadro ex yugoslavo. I giornali, le radio che nasceranno, ad esempio, opereranno sulla base di questo principio, i giornalisti anche professionisti saranno continuamente ostaggio della propria appartenenza etnica. La Comunità Internazionale, dal Piano Vance-Owen in poi, è rea di avere aderito a questa logica.
Varie iniziative tentano di rompere questo modo di trattare le questioni balcaniche, ad esempio il desiderio di fare conoscere le esperienze di cooperazione, come ad esempio quella a Prijedor, anche in altre regioni della ex Yugoslavia, facendo conoscere le tragiche esperienze arrecate dalla guerra che hanno colpito tutte le etnie e Prijedor costituisce uno dei casi più drammatici, anche se personalmente rifiuto la formazione di "gerarchie della sofferenza". E' importante fare conoscere la necessità di spezzare questa logica anche dall'altra parte dell'Adriatico, affermando che proprio per il ragionamento di tipo etnico non è stato possibile formare subito un'alleanza tra gli Stati contrari alla guerra.