Riportiamo l'intervento integrale di Michele Nardelli, collaboratore di Osservatorio sui Balcani, intervenuto lo scorso dicembre al convegno di OB "Vivere senza futuro? L'Europa tra amministrazione internazionale ed autogoverno: i casi di Bosnia Erzegovina e Kossovo.
Per l'Osservatorio sui Balcani questo incontro costituisce un ritorno nel luogo di nascita, a Venezia nel 1999 all'indomani dei bombardamenti su Belgrado nacque infatti l'idea che gli diede origine in un incontro che trattava il nuovo capitolo della guerra dei dieci anni, interrogandosi sulle modalità offerte alla società civile per comprendere ciò che stava accadendo ed evidenziando la necessità di informazione in merito, ma ravvisando anche la mancanza di un progetto politico per i Balcani che vada oltre le situazioni di emergenza e che sia in grado di trattare il problema del futuro.
Lo sguardo politico sui Balcani rappresenta il senso stesso della nascita dell'Osservatorio, che comprende alcune aree di lavoro che riassumono i caratteri della discussione tenutasi in questi due giorni. La prima fu quella della cooperazione internazionale, per interrogarsi sulla sostenibilità e sull'insostenibilità di certa cooperazione internazionale. Venne poi la tematica dell'elaborazione del conflitto, tema quasi negletto nei discordi in merito alla cooperazione, finalizzato alla ricerca dei punti di incontro delle diverse narrazioni di ciò che è accaduto, senza questo aspetto è difficile solamente immaginare la possibilità della ricostruzione sociale e civile di questi Paesi.
Anche lo sviluppo locale è una area di lavoro nella quale si impegna l'Osservatorio, sviluppo inteso come modalità per vivere la globalizzazione, ma anche per ripensare l'economia dell'intera regione nel contesto mondiale più ampio.
Fondamentale poi risulta la trattazione dell'Europa rispetto all'area balcanica. Nel 2002 a Padova lanciammo un Appello per un'Europa come nuova mèta per superare i nazionalismi e superare l'ingannevole idea che le guerre nei Balcani siano state guerre etniche. Esse furono, al contrario, eventi che avevano le radici nella modernità. L'Appello fu seguito dall'importante incontro con Romano Prodi a Sarajevo durante il ricordo dei bombardamenti sulla città e dalla iniziativa che ha collegato simbolicamente Vienna e Belgrado seguendo il corso del Danubio.
Il senso di questa tavola rotonda è quello di costituire un filo conduttore capace di collegare tutte queste tematiche e attraverso di esso capire se esiste la possibilità di scenari per il futuro.
La prima idea per il titolo di questa conferenza fu: "Liberare e federare l'Europa", inteso anche come omaggio a Silvio Trentin, uno degli studiosi che hanno fornito un contributo importante al pensiero federalista europeo, in un momento storico in cui ragionare in questo modo e non aderire alla divisione del pensiero tra Liberalismo e Socialismo significava condannarsi alla marginalizzazione e all'eccentricità.
Questa idea di federalismo europeo è la linea di fondo delle discussioni che qui si sono tenute riguardo al futuro, perché l'orizzonte europeo è la naturale finalità della regione balcanica, associata alla discussione sullo sviluppo e sull'autogoverno all'interno della regione stessa. Europa, sviluppo locale, autogoverno sono parole ambigue, perché possono certamente significare bilanci partecipati, modalità diverse di concezione della politica, della pubblica amministrazione, della cosa pubblica, ma possono anche rappresentare il loro opposto: in nome della Comunità e del sangue si sono fatte le guerre. E'quindi necessaria la declinazione di queste parole, per renderne più preciso il significato e dunque un po'più definito il futuro dei Balcani.
Ieri Biserka Ivanović poneva la questione dei tempi necessari alla trasformazione dello svantaggio in vantaggio All'interno di queste parole che sono indefinite esiste la chiave di lettura necessaria: rappresentano la tragedia ed insieme il riscatto e la ricostruzione.
I Balcani sono interessanti perché lì avvengono i fenomeni più anticipatori e repentini del nostro tempo, illusione ed incanto sono svaniti velocemente: l'illusione di una guerra chiamata di "liberazione" che si trasforma nella tragedia dell'uranio impoverito, l'incanto di potere trovare attraverso la guerra l'occasione per entrare a fare parte dell'Occidente. In brevissimo tempo questi Paesi hanno conosciuto la guerra, l'uranio impoverito, l'insostenibilità della cooperazione internazionale, i protettorati, nomenklature che succedono a se stesse, il ritorno del nazionalismo.
Questo è una evidenza del fatto che i Balcani sono immersi nella modernità. La modernità significa "neofeudalesimo", come ha accennato Nicole Janigro nel suo intervento, e la descrizione di una realtà arretrata, di guerre arcaiche costituisce quindi un grande inganno. E' infatti possibile interpretare i Balcani e il "neofeudalesimo" come fenomeno della post-modernità.
Il "neofeudalesimo" significa estrema deregolazione, con indebolimento delle leggi e della sovranità, con l'usurpazione della dimensione politica come strumento per affrontare il proprio futuro. Una figura che in tal senso ha precorso i tempi fu quella di Friket Abdić, il capo dell'Agro Komerc primo scandalo che era il sintomo della dissoluzione della Yugoslavia, che dimostra come fin da allora gli uomini che contavano "venivano dalla terra", proprio come i signori feudali.
E' necessario tenere conto di questo contesto, altrimenti le risposte che cerchiamo di dare non corrispondono a reali esigenze: se il futuro dei Balcani è quello di raggiungere lo sviluppo dell'Occidente è necessario adattare i programmi di sostegno economico. Ciò che concretamente avviene in quelle aree è la crisi di sottoproduzione, la svendita del territorio, tema trattato in questo convegno a proposito del bene comune acqua, i traffici illegali che lì avvengono legati tutti ala modernità che trasforma, ad esempio, i vecchi siti minerari in discariche per rifiuti tossici o che favorisce i traffici di droga, di armi o di esseri umani.
I nuovi paradigmi che permettono di affrontare questa modernità devono rimanere nel contesto di "neofeudalesimo" balcanico.
La cooperazione internazionale è fallita non soltanto nei Balcani, perché ha rappresentato la concezione del "trasferimento" sia di modelli, che di risorse dai Paesi ricchi a quelli poveri. Evidentemente si può parlare, senza generalizzare, di una tendenza al "neocolonialismo". Al contrario i Paesi dell'area balcanica vanno considerati come ricchi, di materie prime, di storia, di cultura, di capitale umano ed hanno bisogno soprattutto di riappropriarsi di queste risorse, attraverso un lavoro di idee, di relazioni e di scambio di esperienze. Le comunità devono tornare consapevoli delle proprie capacità e risorse. In questo senso va ripensata la cooperazione e la cooperazione comunitaria in particolare.
"L'amore per il territorio" è la sostenibilità, intesa come capacità di attivare economie e relazioni sociali che permettano di riprodurre le risorse, ieri si diceva dell' "acqua che unisce", anche soggetti che, secondo i vecchi schemi dovrebbero contrastare fra di loro, si ritrovano insieme. Ho in mente il monarchico di Kralijevo e l'ambientalista della medesima città capaci di trovare le modalità di ragionare insieme ed affrontare così le questioni della valorizzazione del proprio patrimonio.
Questo presuppone capacità di autogoverno non in uno schema di piccole patrie dipendenti dagli aiuti internazionali, come in questi anni sono stati i Balcani, ma nella costruzione di relazioni tra i soggetti all'interno della comunità con interessi anche fra loro diversi.
Qualche anno fa il ragionamento riguardante il processo di integrazione europea comprendeva con piena cittadinanza il tema dell'Europa delle regioni. Oggi si ravvisa più che altro l'adesione all'idea dell'Europa degli stati.
Si tratta di una regressione nel processo di costruzione dell'Europa. La Costituzione Europea, pur con le sue contraddizioni, è un segnale importante che non può essere affidato agli stati che pensano di associarsi in una sorta di confederazione o di federazione. L'Europa è tutt'altro, è regole comuni nello stato di diritto, è capacità di governo locale, con sussidiarietà e principio di responsabilità. Questa è la scommessa dell'Europa e significa superare definitivamente il Novecento ed il concetto di Stato-Nazione, così come il concetto di autodeterminazione perché la globalizzazione cambia i contesti ed è quindi necessario sostituirlo con quello di autogoverno, che non presuppone la determinazione dello Stato come forma di governo. Se l'autodeterminazione fosse stata invocata durante i processi di dissoluzione durante il Novecento, centinaia sarebbero stati i nuovi conflitti.
Per quanto riguarda la Bosnia Erzegovina il problema è quello di fare entrare i Balcani Occidentali nell'Unione Europea in tempi necessari, senza affidare il primato alla "tecnica dei parametri" ma nuovamente alla politica.
Il dibattito sulla situazione del Kosovo mi è parso sinceramente troppo tranquillo ed ottimistico, al contrario acute devono essere le preoccupazioni per la situazione economica, sociale e "psicologica" dopo essersi cullato nei sogni di autodeterminazione e di indipendenza, che rappresenterebbe la vittoria di qualcuno e la sconfitta di qualcun altro e non la soluzione politica di una controversia.
Ricercare nuove idee, questa potrebbe essere la soluzione, magari riprendendo l'idea di Rugova di una Entità con i confini aperti e priva di un esercito. Il Kosovo come prima regione europea, uno status che la politica potrebbe costruire anche precedendo la dimensione giuridica, l'ancoraggio europeo potrebbe rappresentare uno scenario nuovo con leggi europee, passaporto europeo, forte governo locale nel rispetto delle minoranze e della tradizione politico-culturale dell'Europa, coniugando la dimensione "globale" con quella "locale" all'interno dell'orizzonte europeo.