Se dici Nagorno Karabakh nessuno sa dove si trovi. Loro, del resto, amano chiamare il loro paese Artsakh. Un reportage di Giulietto Chiesa
Capitale di uno stato che giuridicamente non esiste, ma che è abitata da 146 mila armeni in carne ed ossa che della giurisprudenza internazionale fanno a meno. Da quel tremendo 12 dicembre 1991 in cui proclamarono l'indipendenza dall'Azerbajgian dell'ex membro del Politburò, buonanima, Gheidar Aliev. Se dici Nagorno Karabakh nessuno sa dove si trovi. Loro, del resto, amano chiamare il loro paese Artsakh. Una Svizzera straordinariamente bella in mezzo alle montagne del Caucaso che, in quel punto terminale, spiovente verso il Mar Caspio, s'ingentilisce e si copre di verde e di un clima mite, dove i terremoti non si sono mai sentiti e visti.
Per arrivarci - da Erevan, capitale dell'Armenia - ci vogliono 360 chilometri di strada tutta tornanti e in stato precario. Altre vie di accesso non ci sono, niente aeroporti. Tutte le altre strade sono chiuse dal momento della sanguinosa guerra che scoppiò subito dopo quel referendum, che gli armeni di Artsakh vinsero a man bassa, anche perché gli azeri non parteciparono. Una guerra combattuta per quattro anni, con sanguinose perdite da ambo le parti, che si dice abbiano superato i trentamila morti.
Uno dei tanti teatri di guerra che si accesero nell'agonia dell'Unione Sovietica. Adesso di azeri non c'è più l'ombra in tutto il Nagorno Karabakh, così come non un solo armeno vive in Azerbajgian. Pulizia etnica reciproca, meticolosa e crudele, cominciata con i pogrom anti armeni di Baku e Sumgait, quando ancora la perestrojka di Gorbaciov lasciava sperare in una riforma democratica dell'Unione Sovietica.
Finita l'URSS, per gli armeni di Artsakh, cristiani, non aveva più senso restare dentro i confini di un paese musulmano che li voleva cacciare, o tenere in scacco. La linea di Baku era di ripetere con il Nagorno Karabakh la completa espulsione degli armeni, com'era già avvenuto con successo, da Stalin in avanti, per l'enclave del Nakhicevan, schiacciata tra l'Armenia e i confini iraniano e turco. Stalin l'aveva regalata alla giovane repubblica dell'Azerbajgian per ottenerne la solidarietà con la Russia bolshevica. E gli azeri avevano fatto piazza pulita, sebbene senza massacri, di tutti gli armeni, spingendoli fuori con ogni mezzo, amministrativo, di partito, economico.
I villaggi armeni del Nakhicevan, accerchiati da villaggi azeri, senza controllo delle acque, vennero ripuliti in vent'anni. A Stepanakert è dintorni la tattica fu la stessa. Fino alla fine dell'URSS.
Torti e ragioni sono difficili da distribuire. Ma pensare oggi che si possa ritornare indietro, quali che siano i percorsi che vengono proposti, appare impresa senza senso. I fantasmi, vivissimi dopo quindici anni, delle migliaia di morti, si aggirano tra quelle montagne. Le case dei villaggi azeri sono ormai occupate da armeni. Quelle che è stato possibile ricostruire. Le altre sono ancora come allora, con le loro finestre vuote, come mille occhi neri bruciati dagl'incendi. .
La visita di Sushi, la fortezza medievale che costituiva il centro spirituale di Artsakh, è spettacolo terribile di cosa è una guerra etnica. Di quella guerra non sapemmo quasi nulla.
Condomini, ospedali, edifici pubblici sono ancora uno sparso agglomerato di rovine annerite dal fuoco e dalle bombe, crivellate dai proiettili e dalle schegge. Chi mi accompagna racconta che furono gli azeri, fuggendo, a bruciare e distruggere tutto perché il nemico vincitore non potesse gioirne. Forse fu così, ma è certo che le vendette ci furono e tremende. E gli armeni forse non uccisero i civili che fuggivano, ma aprirono i corridoi perché se ne andassero tutti, fino all'ultimo, e non tornassero mai più. Anche la splendida Chiesa del Salvatore ne fece le spese. Adesso l'hanno ricostruita, pietra su pietra, insieme all'altra perla della religione e della tradizione della Chiesa armena, quella intitolata a Giovanni Battista. Mi portano a visitare anche l'unica Moschea di Sushi. In stato penoso. Una targa indica la data di costruzione: 1883. E' in via di restauro, con i due stupendi minareti sbocconcellati dalle granate. Paga il governo di Teheran perché è una moschea persiana, cioè sciita, cioè non azera - mi fanno notare - perché gli azeri sono sunniti.
E Sushi è il monumento della vittoria sugli azeri: riassunto in tre feste che, tutte, vi convergono: quella della liberazione della città, avvenuta il 9 maggio 1992, quella della vittoria (sovietica) sul fascismo, e quella della creazione dell'esercito del Nagorno Karabakh.. Sushi, divenuta azera, dominava dall'alto Stepanakert armena, adagiata in fondo a una splendida valle verde. Per due anni i cannoni di Baku, e i cecchini annidati nei villaggi azeri costruiti a cintura attorno alla città, costrinsero gli abitanti della capitale a vivere nei sottoscala.
Una grande offensiva, alla quale parteciparono - si dice - circa 30 mila uomini, costrinse alla fuga l'esercito regolare azerbajgiano. E da quel giorno l'avanzata armena fu incessante, fino al 1994, quando fu Baku a chiedere il cessate il fuoco.
Che rimane in vigore ancora dopo tredici anni. Ovvio che gli armeni del Nagorno-Karabakh non erano soli. Dietro di loro c'era l'Armenia intera, anche se ufficialmente non fu mai ammesso.
Fatto sta che adesso il Nagorno Karabakh non è più quello del 1991, ma molto più grande. Lo stretto corridoio azero di Laci, che lo separava dall'Armenia, è divenuto centinaia di chilometri di montagne confinanti con la repubblica sorella. Qualcosa del vecchio territorio l'hanno perduto, molto hanno conquistato.
Chiedo di andare a vedere la linea del fronte, a Agdam, circa 30 chilometri a est. Mi rispondono cortesemente che non è possibile, "per la mia sicurezza". Non si spara, per ora.
A Stepanakert sono arrivato per assistere alla quarta elezione presidenziale di un paese fantasma. Percentuali di voto "sovietiche", ma procedura ineccepibile. Cinque candidati. Ha vinto Bako Sahakian con l'85% dei voti. E' stato il capo del locale KGB in tutti questi anni.
Sulla piazza centrale, di fronte al palazzo presidenziale, in stile sovietico, si erge l'hotel Armenia, a cinque stelle, costruito con capitale armeno e russo. Dirimpetto è in costruzione un altro hotel di lusso, americano-armeno. Il Governo USA regala otto milioni di dollari l'anno, facendo arrabbiare l'amica Baku. Mosca non regala niente, ma è amica e mediatrice. E molto amica di Erevan. Il palazzo nuovo del Parlamento di Artsakh guarda entrambi sulla stessa piazza. La grande diaspora armena nel mondo finanzia la crescita. Nuovi negozi rutilanti di merci sono allineati sulla Azatamartikneri, la via dei combattenti per la lotta di liberazione. Loro stanno, armati, a difendere la loro indipendenza. Per quanto tempo? Nessuno lo può dire. Ma a Stepanakert non vale il principio che i confini degli stati sono intoccabili. Vale solo quello dell'autodeterminazione dei popoli.