Gli anni '90 nei Balcani hanno lasciato dietro a sé rifugiati e profughi. Gli Stati della regione poco o nulla collaborano per garantire loro un futuro e queste vittime deli conflitti si trovano davanti una realtà politico-istituzionale frammentaria, complessa e tragica. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Di Giovanni Punzo
Alla base dell'attuale situazione dei profughi e dei rifugiati sparsi un po' dappertutto nella penisola balcanica, si trovano almeno due ordini di ragioni: un complesso di motivi contingenti, legati principalmente alle recenti e drammatiche vicende delle guerre jugoslave che hanno segnato la fine del secolo scorso e altri di ordine per così dire strutturale legati alle società balcaniche e alle strutture statali che queste hanno espresso nel secolo scorso.
Come è stato acutamente osservato da uno storico tutta la storia dei Balcani potrebbe essere letta e interpretata infatti come un continuo flusso incrociato di popolazioni migranti in condizioni a volte di estrema difficoltà sotto la spinta di una persecuzione o più semplicemente di un rifiuto più o meno esplicito.
All'origine dell'attuale fenomeno del rifiuto del rientro opposto nei confronti dei profughi, dei tentativi di assimilazione forzata, delle politiche di pulizia etnica amministrativa o più in generale di esclusione dei 'diversi', esistono vari motivi storici, primo fra tutti quello che uno stato fondato sulla monoetnicità in realtà non è mai esistito, se non nelle origini leggendarie diventate invece temi dominanti di molte rifondazioni statali.
Un elemento indicatore di questa complessa e articolata situazione sono attualmente le politiche condotte in materia di cittadinanza dai nuovi stati balcanici, soprattutto se messe a confronto con l'evoluzione che questo concetto - alla base di ogni ordinamento democratico - ha avuto invece nell'Europa occidentale dal dopo guerra ad oggi e recentemente sotto la spinta originata dalle trasformazioni seguite al crollo del muro.