Intervista ad Adriana Giacchetti, tra i fondatori della Maxmaber Orkestar. Le ragioni di una musica meticcia, a cavallo fra le due sponde dell’Adriatico. La passione di un gruppo di suonatori, che si fa anche pensiero e impegno. Sullo sfondo di una Trieste in bilico tra radici, cambiamenti e vecchi confini
Dove nasce l’idea della Maxmaber Orkestar?
Il nucleo storico del gruppo si è incontrato lavorando assieme nel mondo della cooperazione sociale. C’era il piacere di frequentarci oltre alla collaborazione professionale. Ci siamo uniti attorno al progetto di uno spettacolo teatrale, di cui abbiamo scritto testi e musiche, e da lì abbiamo deciso di proseguire aggregando altri membri. I nostri ritmi musicali sono klezmer e balcanico in senso ampio, molto legati alla città da cui proveniamo, Trieste. Qui le sonorità dispari fanno parte della memoria storica culturale, mentre in giro per l’Italia fino a qualche anno fa erano quasi sconosciute.
Qual è il vostro rapporto con Trieste?
E’ un rapporto strano. Trieste è una città mista, con una componente slovena autoctona ma anche con altre componenti slave pre-esistenti e cresciute durante le guerre in ex-Jugoslavia. Perciò ha in sé i suoni della tradizione balcanica. La città offre potenzialmente un sacco di stimoli, perché le radici miste danno contraddizione e dove c’è contraddizione c’è ricchezza. Quando sei ragazzino pensi di dovertene andare, ora che tutti noi abbiamo superato i quarant’anni ci rendiamo conto che Trieste è anche stimolante. Allo stesso tempo la città fatica a confrontarsi col suo passato, ha delle chiusure molto forti ed un razzismo consolidato verso ciò che sta a “est”. Al di là delle aperture di facciata, se gratti sotto la scorza trovi resistenze e chiusure.
Avete notato dei cambiamenti dopo l’ingresso della Slovenia nell’Unione Europea?
Sicuramente i collegamenti con la Slovenia sono più semplici, non c’è più il confine. Per quelli della mia generazione il confine era un limite potente. Se andavi a passeggiare sull’altipiano del Carso e sconfinavi per sbaglio, finivi nella casermetta jugoslava e non era piacevole. Oggi invece la stessa viabilità è cambiata, sembra un dettaglio ma un tempo eri costretto ad usare i pochi valichi di frontiera aperti, adesso puoi fare molte altre strade più comode e rapide. C’è stato un momento quasi di sbandamento, si erano create delle abitudini viarie che vanno ristrutturate. Allo stesso modo c’erano abitudini nel pensiero, e la città deve abituarsi a cambiarle. Non erano solo gli stereotipi voluti dalla strumentalizzazione politica, per tenere in piedi i muri contrapposti, ma anche quelli dell’abitudine quotidiana, della superficialità. Molti triestini per andare in Slovenia dicono ancora “vado in Jugo”.
E in ambito culturale qual è il panorama?
C’è una componente giovanile triestina che faceva le sue trasferte a Lubiana anche quando non era la capitale a noi più vicina. E’ sempre stata un luogo culturalmente vivo, con molti concerti, mostre, eventi. Il dramma è che i collegamenti pubblici con Lubiana sono pessimi, ci sono solo due treni al giorno di cui uno notturno. Quando è stata inaugurata l’attuale stazione ferroviaria di Trieste, a inizi novecento, ce n’erano sei. Questo significa qualcosa, i confini nelle teste sono più duri a resistere.
Voi avete suonato anche in Bosnia Erzegovina e Croazia. Come vi accoglie il pubblico locale?
In genere molto bene. Ho un ricordo che porto con me, una delle emozioni più belle della mia vita musicale. Eravamo ancora nella formazione dei Max Maber Quintet, c’era un’altra donna assieme a me e cantavamo “Ederlezi” a due voci che si intrecciavano, al Kino Prvi Maj di Sarajevo. Era uno degli ultimi pezzi del concerto, e abbiamo sentito alcuni tra il pubblico che iniziavano a cantare con noi. Alla fine sono venuti ad abbracciarci, ed un uomo in particolare, il proiezionista del vecchio cinema, col viso bagnato di lacrime ci ha ringraziato e ci ha detto della sua emozione, di come si era riconosciuto nella canzone. Per noi l'incontro con il pubblico bosniaco, sarajevese in particolare, è sempre un incontro forte, sebbene nessuno di noi a parte Alexandar sia originario di lì. Noi siamo triestini di famiglie italiane, quello che facciamo è un omaggio, è quasi un onore per noi poter attingere ad una tradizione culturale così forte. E questo ci viene riconosciuto, non abbiamo mai avuto la risposta del “guarda questi italiani che vengono a cantare le nostre canzoni”. Ci è sempre stata riconosciuta la sincerità. Infatti pur cantando in lingue non nostre [serbo-croato, rom, yiddis, nda], sappiamo il significato di cosa stiamo cantando. Non è uno scimmiottare, ma un tentare di entrare dentro la cultura dell’altro.
Assieme all’attrice Roberta Biagiarelli avete creato “Il tempo della festa”, uno spettacolo sul tema della memoria individuale e storica in Bosnia Erzegovina. Come l’avete vissuto?
Intanto col massimo rispetto, perché entravamo in casa d’altri e cioè nei ricordi di festa di alcune famiglie bosniache prima della guerra. Lo spettacolo è stato un passo più esplicito nel tentare di affrontare il tema della memoria, perché alla musica si aggiungeva la parola. Per noi è importante dare un contenuto politico e sociale a ciò che facciamo. Personalmente poi, arrivare in Bosnia Erzegovina e confrontarmi con persone che hanno dovuto lasciare tutto a causa della guerra, mi ha fatto capire da adulta una parte della mia famiglia. I miei nonni sono nati in Russia e sono scappati nel 1930, dopo la rivoluzione d’ottobre, cambiando totalmente vita e spostandosi dove non erano mai vissuti. Sono cose che mi porto dentro nella mia storia personale, ma le davo per scontate, non le avevo approfondite. Incontrare alcune persone in Bosnia per me è stato come rivedere con altri occhi i nonni e mio padre, che è figlio di quella vicenda.
E al pubblico italiano, oltre alla bella musica, che messaggio cercate di portare?
L’Italia è un paese mangiato dal consumismo, anche musicale. Perciò a parte concerti particolari in circuiti già sensibili, dove la gente è più attenta, la maggior parte delle volte la fruizione della nostra musica è solo estetica. Siamo noi che facciamo notare volutamente di avere in scaletta una canzone rom, ad esempio. L’anno scorso nel periodo in cui si discuteva di quell’idea ignobile delle impronte digitali anche per i bambini, prima di cantarla dicevo apertamente che per me era un onore eseguirla. Ma spesso c’è molta superficialità in chi ci ascolta. Per tanti basta fare un po’ di umza umza e sono felici, il resto non gli interessa come non gli interessa del parlamento o del vicino di casa magari kosovaro. A volte c’è curiosità, ad esempio negli altri musicisti che ci interrogano sui ritmi per loro insoliti. Ma l’indifferenza dei più mi rende pessimista.
Per concludere, a quando il prossimo disco e con quali novità?
Stiamo lavorando da un po’ al nuovo disco, dovrebbe uscire in autunno o al massimo inizio 2011. Proseguiremo ad esplorare le nostre sonorità, aprendoci anche alla tradizione culturale sefardita che proprio a Sarajevo ha incontrato quella ashkenazita. E poi ci è venuta voglia di riprendere l’uso del dialetto triestino, grazie all’incontro con un poeta locale che ha scritto due pezzi per noi. Il dialetto è un po’ la lingua franca a Trieste, quando lavoravo nella scuola ho fatto interi consigli di classe in dialetto. In questo periodo di appiattimento generale, anche questa è una forma di resistenza culturale.