Un breve commento della redazione dell'Osservatorio sui Balcani al discusso e inquietante rapimento in Iraq delle due volontarie di "Un ponte per...", Simona Torretta e Simona Pari e dei due operatori iracheni Ra'ad Alì Abdul-Aziz e Manhaz Bassam
È trascorso più di un decennio dalla prima guerra televisiva, quella del golfo, quella che ha coinciso con la nascita di "Un ponte per...". Un decennio che chiude il cosiddetto secolo breve e che non può certo dirsi dei migliori. E il nuovo millennio sembra proseguire, quando non peggiorare, il clima di instabilità e di sofferenze che si perpetrano nel mondo intero.
I Balcani, la ex Jugoslavia degli anni '90, ci hanno insegnato quanto possa essere importante il lavoro dei cooperanti sul campo, delle varie organizzazioni che intessono rapporti con la popolazione locale. Quante amicizie, quanti contatti, quanti progetti si possano fare insieme. Al contempo però ci hanno insegnato che chi fa questo lavoro troppo spesso deve affrontare rischi enormi. Ce lo hanno insegnato Guido, Fabio e Sergio, i ragazzi di Brescia uccisi nella Bosnia del '93, ce lo ha insegnato Moreno, il pacifista morto sul ponte di Sarajevo.
Non si tratta di equiparare delle situazioni, geograficamente e per certi versi politicamente differenti. L'Iraq non è la Jugoslavia, certo questo è vero. Ma è altrettanto vero che se qualcosa avremmo potuto imparare dai Balcani, quel qualcosa nel pantano iracheno sembra proprio affondare.
I Balcani ci hanno insegnato che un'analisi superficiale del conflitto, condotta esclusivamente sulle differenze etniche, non ha alcun senso. Ci hanno insegnato che il conflitto va abitato ed elaborato, che è facile attribuire colpe e responsabilità all'"altro" senza mettersi in causa. I Balcani ci hanno insegnato che la logica manichea prende con facilità il sopravvento sulla razionalità riflessiva, sulla capacità di mantenere la distanza. Durante la guerra del Kosovo era facile dire o sei con la NATO o sei con Milosevic, terzo escluso. Ma è proprio quella via di mezzo, quel terzo escluso che vogliamo recuperare. Nella logica del bianco e nero, dei buoni contro i cattivi si sono persi anche i cosiddetti intellettuali, le teste pensanti della nostra società. Si aprono barriere insormontabili, ed ora si urla al pericolo islamico, senza capire un gran che di cosa sia l'Islam.
Ricordiamo con piacere l'intervento di Predrag Matvejevic ai microfoni di RAI 3, in concomitanza dell'apertura del ponte di Mostar... un altro ponte... un ponte per...
L'Europa di allora non riconobbe - dice Matvejevic - l'Islam moderato della Bosnia Erzegovina, quell'Islam laico che da sempre esisteva nella Jugoslavia di allora. Non lo riconobbe e non gli diede spazio, non lo portò ad espressione, lasciandolo incancrenire nei rivoli degli estremismi.
Questo è quanto non abbiamo imparato dai Balcani. Non abbiamo ancora imparato ad uscire dal dualismo aberrante del manicheismo. Oggi l'equazione è: islamico uguale terrorista.
Questo è ciò che Simona e Simona non hanno accettato. Anzi il cercare di avvicinarsi il più possibile alla cultura e ai costumi locali, un andare verso l'altro senza aspettare che l'altro venga verso di te, una sorta di mescolamento, senza che si possa diventare iracheni solo perché si porta un foulard in testa e ci si veste da maestrina irachena. Ma questo conta molto, conta molto il potersi avvicinare e conquistare la fiducia della gente locale.
Questa fiducia e questa onestà sono gli strumenti che, vogliamo credere, mobiliteranno la società civile irachena e che ridaranno la libertà a Simona e Simona e agli altri ostaggi, Ra'ad Alì Abdul-Aziz e Manhaz Bassam.
La foto è tratta dal sito Un ponte per...