Predrag Matvejevic

Locale e globale, nazionale e mondiale, concetti spesso antitetici, che suscitano ampi dibattiti e minuziose analisi. Con questo tema affascinante e attuale si confronta Predrag Matvejevic in un suo recente saggio. Nostra traduzione

11/01/2006 -  Anonymous User

Di Predrag Matvejevic, Danas Vikend, 10-11 dicembre 2005 (tit. orig. Mit nacije i sablasti nacionalizma)
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Ivana Telebak

Predrag Matvejevic

Cultura nazionale e mondializzazione non sono concetti dello stesso genere. Più spesso sono in contrasto anziché essere in armonia. Gli vengono dati significati diversi. A seconda delle circostanze, gli viene cambiato il senso. Solitamente la mondializzazione viene identificata con la globalizzazione. Il primo termine si usa di più sul territorio francofono, il secondo sul territorio anglofono. Né per l'uno né per l'altro troviamo una definizione unica. La mondializzazione viene posta in relazione con "il nuovo sistema mondiale", come è stato annunciato, dopo la guerra fredda, negli Stati Uniti. La globalizzazione viene collegata con l'immagine del villaggio planetario o "villaggio globale" (il "global village" di McLuhan). Entrambe cercano di giustificarsi con il bisogno d'integrazione nel mondo moderno. Ad entrambe sono state date più valutazioni negative che positive, in diversi luoghi, nei paesi sviluppati e nei paesi arretrati, nella sinistra e nella destra. Abbiamo sentito e visto le proteste sia a Seattle in America, sia a Porto Alegre in Brasile, che a Praga, a Nizza, a Napoli, a Genova ecc.

Riassumo e cito alcuni giudizi, che si incontrano e che vengono banalizzati in diversi studi e articoli: "Non bisogna più conquistare il territorio con l'aiuto delle forze militari, è sufficiente impossessarsi del mercato". "I gruppi industriali e i finanzieri privati fanno conquiste su tutto il pianeta". "Chi regna sul mercato regna nel paese". "I conquistatori non hanno mai avuto così tanto successo". Possiedono le nuove tecnologie e determinano il loro uso; usano e sfruttano l'informatica; inquinano l'ambiente e "lavano" i soldi. Provocano tensioni quando ne hanno bisogno, cedono quando non ne hanno più bisogno. Insediano e distruggono governi e regimi. Non badano ai principi della democrazia che proclamano. Non rispettano i valori culturali e della civiltà dei quali vanno fieri. "Smettiamo di accettare la mondializzazione come destino. Non permettiamo che il mercato decida al posto dei rappresentanti della società che abbiamo scelto. Non lasciamo che il mondo venga trasformato in un mercato (...). Invece delle devastazioni che la mondializzazione provoca, i cittadini si aspettano la nascita di nuovi diritti: il diritto alla pace, il diritto alla protezione della natura, il diritto alla città, il diritto all'informazione, il diritto all'infanzia, il diritto allo sviluppo del popolo." Questa è una parte dell'editoriale pubblicato alcuni anni fa dal mensile Le Monde diplomatique. A chi piacciono le citazioni potrebbe elencarne molte altre simili. (Edward Goldsmith e Jerry Mander hanno fatto una raccolta delle varie riprovazioni della globalizzazione in un grande libro intitolato "The case against the globalization"- che, pensate, proprio in America è stato dichiarato "libro politico dell'anno"!)

L'avvertimento di Habermas

Il filosofo tedesco Jurgen Habermas, non propenso alle "ideologie" delle quali stiamo parlando, riconosce che, nonostante tutto, "la mondializzazione costringe lo stato nazionale ad aprirsi alla diversità di forme della vita culturale, che le sono estranee e sconosciute" (nello studio "Die postnationale Konstellation und die Zukunf der Demokratie"). E' necessario, nonostante tutto, premunirsi da quel tipo di attacco alla globalizzazione o dalla condanna dei "mondialisti" dove si rivelano il provincialismo e il nazionalismo. Dalle nostre parti le loro conseguenze sono state catastrofiche. Non sono state ancora rimosse. I nostri amici che lavorano negli organismi internazionali e cercano di rendere noti i crimini e i furti, in Croazia fino a ieri erano accusati di tradimento; a Belgrado ancora oggi, dopo la caduta del tiranno, vengono attaccati i "mondialisti"- perché è così che vengono chiamati i difensori della verità.

Forme stabili di collaborazione a livello internazionale sono diventate inevitabili: le tecnologie moderne vengono applicate in tutte le parti del mondo; l'informatica è diventata una disciplina generale; sono state accettate diverse terminologie comuni; la protezione dell'ambiente non può essere condotta solo negli ambiti nazionali o regionali; con "internet" si viaggia da una parte all'altra del pianeta. Queste forme di mondializzazione o globalizzazione non possono essere identificate con quelle elencate prima. Colui che rinuncia ad esse ad ogni costo, non domandandosi della loro natura ed uso, camminerà sul posto e sarà in ritardo. In una recente discussione che abbiamo fatto a Roma, Umberto Eco ha proposto di differenziare "la globalizzazione come fatto dalla globalizzazione come valore... Tutti parlano di globalizzazione ma facendolo non si chiedono cosa essa significhi realmente". Ho ricordato che forse si tratta dell'indeterminatezza alla quale tende il postmodernismo. Le nuove terminologie respingono in modo sgarbato quelle vecchie - si perdono per esempio parole come cosmopolitismo, internazionalismo, ecumenismo - parole che hanno un significato globale o mondiale.

La misura dei valori potrebbe aiutare ad evitare certi pericoli o almeno a diminuire i rischi. Tutte le parti del mondo - quelle dove i diritti umani e lo stato di diritto hanno raggiunto i livelli più alti e quelle che a fatica cercano di togliersi di dosso le catene dell'arretratezza o della povertà - non possono, ovviamente, globalizzarsi in modo simile: non sono, come viene detto di solito, "globalizzabili" nella stessa misura, secondo lo stesso metodo. I processi d'integrazione nell'Unione europea non sono in tutto complementari o compatibili con le opinioni sulla globalizzazione o la mondializzazione come quelle che provengono dalle potenti compagnie multinazionali d'oltre oceano. Il collegamento dell'Europa con l'"altra Europa", i rapporti tra il continente europeo e il Mediterraneo, le transizioni dei paesi che sono usciti dagli imperi mondiali o che si sono separati dall'ex Jugoslavia, non possono facilmente seguire logiche o strategie che non sono reciprocamente accordate e che non sono convergenti. Non è (era) opportuno condizionare l'ingresso nell'Unione europea con il precedente ingresso nella NATO. Questo, insieme a tutto il resto, è un peso per l'economia impoverita dei paesi dell'est europeo. E' difficile trasformare l'organizzazione militare del Patto atlantico, che perdendo il suo nemico storico è rimasta priva di una vera ragione d'esistere, in una specie di purgatorio. Le tradizioni europee conoscono forme migliori e più alti legami internazionali.

Le particolarità e i valori

Le esperienze mostrano che le particolarità in questo campo difficilmente concordano coi valori. In una lettera, all'inizio del secolo che partorirà la Nazione europea (1801), Holderlin scrisse un avvertimento: "Niente è più difficile da imparare del libero uso del particolare (der Besondere)". Le particolarità qualche volta in modo completamente impercettibile, si trasformano in particolarismo. Le autarchie e le relatività si mostrano come categorie di valori. Con l'utilitarietà e l'efficacia si nascondono l'egoismo e il desiderio di potere. Opponendosi agli strumenti corrompenti della mondializzazione/globalizzazione, la cultura critica non viene fuori dalle pressioni che vengono esercitate su di essa. Le regole del gioco mondiale sono più forti di quanto non lo sia essa stessa. L'appoggio che riceve non le è sufficiente.

La cultura nazionale non ha lo stesso significato in tutti i periodi della storia. Non possono essere negati i meriti che si è guadagnata in passato e che può ancora acquisire, a condizione di liberarsi della propria zavorra. Nel mondo odierno, i suoi progetti si differenziano secondo la quantità delle nozioni tradizionali di cultura e di nazione che mantengono dentro di sé. Prima della Rivoluzione francese, dove è ha preso inizio il moderno punto di vista della nazionalità, esistevano, certamente, comunità con caratteristiche più o meno espressive: popolari, etniche, tradizionali. Dal rinascimento all'illuminismo, la cultura europea ha preso e tramandato modelli e tendenze universali e cosmopoliti. Le nazioni con i propri stati avevano più occasioni di appoggiare la propria cultura e di fornirle una maggiore autonomia di quelle che erano incluse negli stati stranieri o che erano soggette al loro sistema. Da questa posizione dipendevano le libertà che si offrivano e realizzavano. Byron si è allontanato dalla nazione ed è diventato un poeta europeo. Hugo era a favore della "nazionalità europea". Stendhal ha proclamato il sentimento nazionale come "contro natura" (contre nature). Puskin lo vedeva come un "vizio". Per un seguace dell'"arte pura", quale era Gustave Flaubert, l'opera d'arte "non ha patria". Anche Marx sognava una classe operaia senza patria. Le esperienze non hanno dato ragione né all'uno né all'altro. L'avanguardia politica e artistica potevano avvicinarsi l'una all'altra in modo più felice di quello che gli ha destinato la storia.

La cultura per la libertà

Nelle culture delle nazioni (popoli) senza uno stato proprio, la questione dell'appartenenza e dei doveri era posta su una base diversa. Là dove il territorio politico è limitato, diviso o occupato, la cultura nazionale è esposta ad una maggiore disciplina e dipendenza: doveva essere, fra l'altro, "il mezzo" nella lotta per la libertà, l'appoggio della nazione, l'espressione delle sue tendenze. "Cultura per la libertà" (Kultur zur Freiheit), il motto di Fichte della fine del XVIII secolo, nella Germania che non si era ancora unita in un stato proprio, è stato usato in varie parti d'Europa che erano in una situazione simile. Anche Josip Jura Strosmajer, il nostro più importante riformatore culturale del diciannovesimo secolo, usava una parola d'ordine simile: "Con l'istruzione verso la libertà".

Durante il IX e XX secolo nelle culture nazionali troviamo punti di vista e comportamenti, modi di scrivere e di parlare che si rivolgono alla nazione: si richiamano ad essa e si collegano ad essa, sottolineano l'origine e l'appartenenza, esprimono un determinato sentimento e lealtà. La cultura stessa, diventando nazionale, prende i contenuti che trova sul suo territorio e nel proprio passato, del folklore, del popolo, dell'umanismo. Cerca di ridurli alle forme che le sono più adeguate. Qualche volta gli cambia il senso, li strappa dalla base, li addotta - o se ne "appropria"- anche con parti di ciò che non è solo suo. Crede di essere responsabile della creazione di un'immagine di sé e del suo passato come ciò che desidera, come ciò che le si addice. In queste imprese scambia la storia con il mito. In tutta l'Europa le richieste di creazione di culture nazionali omogenee, la difesa dell'idea statale o dell'ideologia, distruggevano la cultura locale e marginale, i dialetti, la letteratura dialettale. In entrambe le Americhe sono quasi sradicate le antiche tradizioni indigene, che non corrispondevano agli scopi dei colonizzatori, alle costruzione dei nuovi stati. Mi riferisco alle più o meno famose caratteristiche delle culture nazionali non per determinarne un'altra volta il loro "radicamento". Ci interessano, da una parte, la resistenza all'ingresso in altri e diversi ambiti o corsi e, dall'altra parte, la paura che i processi della mondializzazione o globalizzazione danneggino l'identità o rovinino la tradizione. Il prezzo alcune volte è ugualmente alto tanto per il rifiuto che per l'accettazione delle sfide. Soluzioni pronte, buone o accettabili per tutti e in tutte le occasioni, non ci sono e non possono esistere.

Le misure limitate

I movimenti nazionali e i partiti che li rappresentano sono inclini, come è noto, a concezioni utilitarie della cultura. In cambio del sostegno e dell'aiuto per lo più chiedono ubbidienza e fedeltà. Parte dell'arte - non sempre solo quella centrale - cade sotto l'influenza di queste richieste oppure ha un'influenza su esse. Il patrimonio e la tradizione hanno trasportato determinate credenze e comportamenti dal diciannovesimo secolo al ventesimo. In pochi hanno esaminato e controllato questi procedimenti. Lo scrittore nazionale proclamava nelle tribune quando doveva e quando non doveva, in quasi tutte le parti d'Europa. A Tin Ujevic, uno dei più grandi della letteratura croata, dobbiamo un avvertimento spirituale, ancora attuale: "Riceviamo un tipo d'uomo che crede di essere letterato perché è patriota".

La cultura nazionale di norma vale se è veramente cultura. Per la stessa nazione alla quale appartiene e alla quale è dedicata, ha anche dei significati particolari, che qualche volta è difficile determinare fuori dalla stessa nazionalità. Anche qua si tratta della citata differenza fra la particolarità e il valore: la tendenza a ridurre tutta la cultura della nazione (quella che la nazione ha prodotto da sola e che ha adottato) alla cultura nazionale; il determinismo che deduce l'identità della cultura esclusivamente dall'identità nazionale. Le culture limitate creano misure ugualmente limitate che approvano da sé. I nazionalismi dimenticano l'avvertenza che gli hanno tramandato i più alti spiriti della nazione. Antun Gustav Matos scrisse un centinaio di anni fa: "Le culture nazionali per loro origine e fonte sono il frutto dell'influenza straniera (...). La forza della cultura popolare non sta nella capacità del rifiuto, della eliminazione, ma nel potere di ricevere, di assorbire tanti elementi culturali stranieri (...). Solo allora la nostra arte sarà nazionale, quando sarà europea."

Le alternative fra il "radicamento" nell'essere della nazione come nazionalità (l'enracinement di Barres) e il sentimento della "non-patria" (Heimatlosigkeit, che secondo Heidegger è parte del "destino mondiale") suscitano contrasti, non solo in Europa. Il desiderio per la patria e il ristoro che offre "la terra natia" non garantiscono sempre un profitto intellettuale o creativo. Affrontare l'altro e il diverso comporta dei rischi che la stessa cultura a volte non desidera, delle sfide che disturbano il suo ordine e la sua pace. "Nel momento in cui scopriamo che esistono le culture e non solo la cultura"- ricorda Paul Ricoeur - "quando dunque riconosciamo la fine di un tipo di monopolio culturale, illusorio o reale, la nostra scoperta minaccia di distruggerci" (Histoire et Verité). Impreparati alle sfide e ai rischi di questo genere, molti decidono più volentieri - in particolare coloro i quali non possono rinunciare al sostegno e alla sicurezza offerti da ciò che li circonda e dal potere - di essere solo se stessi su ciò che gli appartiene, benché così non fanno che rimanere sull'orlo di ciò che resta o all'ombra del diverso.

La cultura planetaria, della quale spesso si è discusso prima che fossero di moda la mondializzazione o la globalizzazione, minaccia con la uniformità delle particolarità culturali (di quelle che sono riuscite ad affermarsi come valori). Affrontando diversi tipi di assimilazioni, la dominazione dei forti sui deboli, di quelli più sviluppati su quelli meno sviluppati, sottolineavamo il diritto alla differenza e al riconoscimento del pluralismo. Nella discussione sulla collaborazione delle culture e sulle sintesi dei livelli mondiali, l'antropologo Claude Levi-Strauss ha formulato una prognosi che ancora oggi sembra accettabile: "La civiltà mondiale non potrebbe essere altro che una coalizione, a livello mondiale, delle culture che mantengono la loro originalità".

La cultura nazionale rimane la base di ogni cultura particolare nella misura in cui afferma ed esprime le identità del popolo a cui appartiene e le collega con le culture mondiali. I suoi compiti non sono più gli stessi del periodo in cui hanno iniziato a formarsi le comunità nazionali. Essa deve, entrando in "coalizioni" internazionali, liberare se stessa dal mito della nazione e dai fantasmi del nazionalismo. Più riesce a farlo, più afferma la sua qualità e giustifica il suo richiamo.

Nel mondo odierno le culture nazionali hanno a che fare con diverse alternative, a volte contraddittorie: fra l'impegno per la nazionalità e la coscienza che un tale impegno possa sottomettere la cultura alla stessa nazione o allo stato nazionale, all'ideologia statale o all'ideologia in generale.

Il deficit di laicità

Nella discussione sulla cultura e lo scontro non si può tralasciare l'opera che con le sue tentazioni ha portato a pensarci nello "scontro" cui conducono le differenze religiose e culturali fra le civiltà: il lavoro del professore americano Samuel Huntington, intitolato "The clash of civilization and the Remaking of World Order". E' difficile essere d'accordo con alcune delle sue conclusioni. È vero che "l'imperialismo è l'inevitabile continuazione (corollary) dell'universalismo"? E' possibile cambiare questo giudizio: la mancata realizzazione dei progetti universali dell'illuminismo ha condizionato le deformazioni imperialistiche delle quali siamo testimoni. Ha portato proprio alla situazione di cui ci avverte Huntington. Ha privato certe culture della mondanità o della laicità. E' nota questa mancanza nella cultura religiosa, che favorisce il clericalismo o il fondamentalismo (intendo, naturalmente, che si possa essere contemporaneamente credente e laico). Il deficit di laicità nella concezione religiosa della nazione oppure nell'accettazione e nella pratica di ideologie come la religione si è mostrato rovinoso. Anche nello stalinismo abbiamo assistito ad un repertorio di nozioni come se fossero prese da qualche vecchio index ecclesiastico: "settari", "rinnegati", "eretici", ecc.

Il pericolo che le parti più piccole o più grandi della cultura nazionale si trasformino nell'ideologia della nazione è noto da parecchio tempo. Si è mostrato nella creazione dei regimi fascisti, non solo in Europa. Ad esso bisogna badare quando si tratta dello "scontro di civiltà"- ciò può aiutare a correggere certe supposizioni: non si scontrano le culture come tali ma le ideologie che sono nate da esse e che le deformano. E non è la stessa cosa.

Nel paese plurinazionale e pluriculturale in cui abbiamo vissuto e dove ci siamo formati, che si è dissolto in modo tragico e che non potrà più essere unito in un paese comune, abbiamo acquisito delle esperienze che in questa circostanza non possiamo tacere. Abbiamo visto, oltre tutto il resto, come certe imprese della cultura nazionale vengono soffocate nelle ideologie della nazione. Abbiamo colto in flagrante un non piccolo numero di impiegati della cultura: invece di cercare vere soluzioni civilizzatrici, hanno sostenuto, per lo più con il silenzio, la caccia del nazionalismo oppure hanno assistito alle ruberie. Non sono mancati né i ditirambi per quei leader che hanno piccole o grandi responsabilità per le sofferenze della guerra e per la miseria del dopo guerra. Di ciò ho scritto negli ultimi dieci anni. Ho capito in questo modo il mio debito verso la cultura croata e verso la cultura in generale. Mi sono allontanato temporaneamente per essere più indipendente.

La permeabilità delle frontiere

Annoto infine alcune esperienze o conoscenze che potrebbero aiutare tanto gli altri quanto noi stessi:

- è difficile conquistare il presente se prima non si conquista il passato;
- spesso abbiamo dovuto difendere la nostra eredità, e abbiamo visto che alcune volte dobbiamo difenderci da una certa eredità;
- abbiamo salvato la memoria, ma ci sono occasioni in cui bisogna salvare se stessi da molto di ciò che è contenuto nella memoria;
- la coscienza nazionale non è l'unica forma di coscienza, è dannoso per la stessa nazione se lo diventa;
- è pericoloso quando l'energia nazionale unisce e rende uguali tutte le altre energie, individuali e collettive;
- si formano delle libertà, e non sempre sappiamo cosa potremmo farne oppure siamo tentati di abusarne;
- si impongono delle divisioni, ed è rimasto poco di ciò che si potrebbe ancora dividere.

Lo stato comune non è l'unico presupposto per la collaborazione con gli altri popoli, in particolare con quelli ai quali era legato il nostro destino, la nostra lingua, la nostra storia. La permeabilità delle frontiere e lo scambio dei beni, materiali e spirituali, l'incontro della gente e delle culture, il flusso delle idee e il trasporto delle esperienze, il confronto dei creatori e il conoscere le loro opere sono diventati i criteri della moderna civilizzazione. Essi in nessun modo sminuiscono le identità e danneggiano l'indipendenza della nazione. Chi non sa riconoscerli e non desidera ammetterli è condannato a vivere di nuovo il passato, la sua parte peggiore, "Lo scontro di civiltà", purtroppo, non è un'utopia.