Sospeso per una pausa estiva il processo a Slobodan Milosevic. Un'analisi sulla difesa dell'ex Presidente in questi ultimi mesi, con particolare riferimento al dossier Kosovo e al video degli "Scorpioni". L'appunto sul bloc notes di un ufficiale: "Presidente: niente cadavere, niente crimine". Il processo riprende il 17 agosto
Di Ana Uzelac*, per IWPR, Tribunal Update no. 416, 22 luglio 2005 (tit. orig.: "Milosevic defence struggles on")
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Letizia Gambini
Un anno dopo la data che era stata stabilita per il suo inizio, la difesa dell'ex Presidente della Jugoslavia Slobodan Milosevic è stata aggiornata questa settimana all'Aja per una sosta estiva di tre settimane, lasciando gli osservatori incerti nello stabilire se l'imputato sia riuscito a confutare almeno una parte delle numerose accuse rivoltegli.
L'ex Presidente jugoslavo è accusato di crimini di guerra, crimini contro l'umanità e genocidio per il suo ruolo nelle guerre balcaniche degli anni Novanta. E' accusato di aver programmato e diretto il tentativo di ritagliare nella ex-Jugoslavia dei territori Serbi etnicamente puri - un'operazione che ha causato oltre 100.000 morti e milioni di profughi in tutta la regione.
I capi di imputazione sono contenuti in tre atti di accusa separati, che coprono rispettivamente le guerre in Croazia, Bosnia e Kosovo.
La difesa sta ora entrando nel suo secondo anno. I primi due mesi sono stati impegnati dalla battaglia di Milosevic e dell'avvocato che gli è stato assegnato, Steven Kay, contro la decisione dei giudici di sottrarre all'imputato la gestione quotidiana del proprio caso. A seguito di ricorso, l'imputato Milosevic ha ottenuto la gestione del proprio caso dal novembre dell'anno scorso.
Ma mentre Milosevic si apprestava ad esaurire la propria difesa prima dell'interruzione, questa settimana, l'accusa ha chiesto al giudice il permesso di riaprire il loro caso per poter introdurre delle nuove prove contro di lui.
Le nuove prove in loro possesso, dicono, potrebbero rafforzare le accuse per il Kosovo e la Bosnia, confermando il presunto coinvolgimento dell'esercito Jugoslavo nel bombardamento del villaggio albanese di Racak nel gennaio 1999, così come l'esistenza di una connessione diretta tra Milosevic e il massacro di Srebrenica del luglio 1995.
La procura chiede l'introduzione di un nuovo testimone per il procedimento sul Kosovo e l'inclusione nel caso sulla Bosnia di un video che mostra un'unità paramilitare presumibilmente agli ordini di Belgrado uccidere sei Musulmani Bosniaci. Insieme a quest'ultimo video, stanno chiedendo anche che vengano ascoltati diversi testimoni, per aiutare l'autenticazione del nastro e dimostrare la connessione esistente tra le esecuzioni e l'imputato.
La nuova offensiva da parte dei procuratori dell'Aja arriva dopo nove mesi dall'inizio della battaglia di Milosevic contro le accuse contenute nel caso riguardante la guerra in Kosovo del 1999. Milosevic deve ancora iniziare ad affrontare i due rimanenti atti d'accusa, quelli per le guerre in Bosnia e Croazia.
Milosevic è accusato di aver orchestrato un operazione che prevedeva l'espulsione di 800.000 albanesi del Kosovo dalla provincia. L'azione, accompagnata da una campagna di omicidi, stupri e saccheggio, ha coinciso con gli attacchi aerei della NATO sulla Serbia nella primavera 1999.
L'atto di accusa elenca 17 casi documentati di omicidi di massa e 22 casi di espulsioni di massa.
Molti osservatori sostengono che i nove mesi che sono passati da quando Milosevic ha riassunto il controllo della propria difesa nel novembre dell'anno scorso, non hanno recato grandi successi nel portare nuove informazioni che potessero confutare le accuse formulate dalla procura.
"In questi nove mesi abbiamo potuto ascoltare molte cose: l'importanza del Kosovo per i Serbi, i giochi politici che si sono svolti attorno ad esso, l'esistenza e le dimensioni della rivolta albanese laggiù", ha affermato Heikelina Verrijn Stuart, avvocato olandese e osservatore di lunga data del processo a Milosevic. "Ma non ho sentito niente di veramente nuovo che riguardasse le concrete accuse presentate dalla Procura."
Molti tra i circa trenta testimoni della difesa che sono sfilati nell'aula del Tribunale dell'Aja erano ex politici di alto livello della Serbia o internazionali. Altri erano persone coinvolte, di medio rango, che facevano parte dei circoli più vicini a Milosevic, consiglieri politici o della sicurezza e dirigenti nel corso della crisi del Kosovo.
Nella sua difesa, Milosevic sembra combinare di due diverse tattiche, dice Edgar Chen, rappresentante all'Aja della Coalizione per la Giustizia Internazionale: "Sta cercando di assestare dei colpi contro alcune accuse, ma allo stesso tempo cerca di costruire una versione alternativa per spiegare gli eventi menzionati nelle accuse".
Il punto centrale di questa versione alternativa è che non ci sarebbe mai stata una cospirazione politica e criminale per espellere gli Albanesi dal Kosovo, come sostiene l'accusa, e che il governo jugoslavo ha agito soltanto per difendere il Paese dall'aggressione delle forze NATO e dai tentativi dei ribelli albanesi di prendere il controllo della provincia.
L'esodo di massa degli Albanesi del Kosovo sarebbe stato causato dalle bombe della Nato, piuttosto che da un'azione concertata delle forze di sicurezza serbe per espellerli; i crimini contro i civili non erano parte di una strategia di intimidazione, ma malaugurati incidenti, e i crimini scoperti dall'esercito o dalla polizia furono perseguiti.
I testimoni chiave che Milosevic sperava l'avrebbero potuto aiutare a consolidare questa versione comprendevano l'accademico Mihajlo Markovic, già ideatore della base ideologica del Partito Socialista della Serbia; il suo ex Ministro degli Esteri Vladislav Jovanovic; l'ex Primo Ministro russo Yeugeny Primakov, l'ex Ministro della Difesa russo Leonid Ivashov, il vice Ministro degli Interni serbo Obrad Stevanovic; l'ex comandante di una delle maggiori unità dell'esercito in Kosovo, generale Bozidar Delic.
I diversi testimoni della prima fase hanno presentato a lungo lo sfondo delle accuse, e la situazione internazionale nella quale la Jugoslavia si è dissolta, attribuendo decisamente le responsabilità per le guerre a chiunque, tranne che all'imputato.
E' stato solo alla fine di gennaio di quest'anno che Milosevic ha cominciato a difendersi da alcune delle concrete imputazioni contenute nell'atto di accusa relativo al Kosovo. Per la maggior parte del tempo, ha cercato di confutare le tesi dell'accusa sul caso Racak, il primo caso di omicidio di massa elencato nel documento.
A metà gennaio 1999, le forze di sicurezza serbe attaccarono il villaggio. Dopo l'attacco, vennero ritrovati lì più di 40 cadaveri, alcuni dei quali sembravano essere stati uccisi a bruciapelo.
Questo episodio aveva forzato la ricerca da parte della comunità internazionale di un'immediata soluzione politica al problema del Kosovo e quando quel tentativo fallì, nel febbraio di quell'anno, la NATO decise l'azione armata contro Belgrado.
Racak è considerato sia da Milosevic che dall'accusa come un caso esemplare. Per l'accusa dimostra che anche prima degli attacchi aerei della NATO Milosevic era pronto a commettere crimini in Kosovo, in una modalità che sarebbe diventata prassi nei mesi successivi. Per Milosevic, invece, Racak fu una messa in scena, e l'ulteriore prova di una cospirazione internazionale per destituirlo e distruggere il suo Paese.
Finora, Milosevic ha speso più di due mesi per cercare di confutare in Tribunale le accuse relative a Racak, sostenendo che le persone uccise in quel villaggio erano ribelli albanesi morti in battaglia, non civili uccisi a freddo.
L'imputato ha cercato di dimostrarlo chiamando tra gli altri il magistrato inquirente Danica Marinkovic, e il capo patologo di Stato in Kosovo Slavisa Dobricanin, entrambi coinvolti attivamente nell'inchiesta ufficiale condotta dalla Serbia sul massacro - per testimoniare sui risultati della loro indagine.
Poi, Milosevic ha chiamato a testimoniare sulle indagini condotte subito dopo Racak il locale ispettore di polizia Dragan Jasovic. L'ispettore ha mostrato come almeno 30 delle 45 vittime elencate nell'atto d'accusa erano state segnalate alla polizia serba come ribelli da "fonti amichevoli", "informatori" o gente del villaggio.
Ma la credibilità di un testimone dopo l'altro è sembrata dissolversi nei contro interrogatori, con i procuratori che cercavano di dimostrare l'inattendibilità dei metodi investigativi usati dalla polizia serba e la natura incompleta del loro lavoro investigativo.
I metodi utilizzati dai patologi serbi per stabilire la presenza di polvere da sparo sulle mani dei cadaveri - e poi definirli combattenti piuttosto che civili - erano stati scartati da decenni in quanto inattendibili dai loro colleghi europei; Marinkovic non aveva interrogato testimoni o sopravvissuti al massacro; l'insistenza di Milosevic sul fatto che le persone uccise erano combattenti albanesi non controbilanciava le prove forensi presentate in precedenza, che mostravano come molti siano stati uccisi a distanza talmente ravvicinata da suggerire che fossero disarmati al momento della morte.
La credibilità di Jasovic è stata smantellata in un contro interrogatorio di due settimane, durante il quale i procuratori hanno presentato testimonianze e prove scritte secondo cui Jasovic avrebbe estorto testimonianze con la violenza, comprese torture con scosse elettriche.
Negli ultimi due mesi, la difesa di Milosevic si è allontanata dai fatti di Racak, chiamando una serie di testimoni, tutti personaggi di medio rango, che, a giudizio di Bogdan Ivanisevic, ricercatore nei Balcani per Human Rights Watch, erano "estremamente rilevanti per il caso".
Gli ufficiali di polizia Radomir Paponjak, Stevanovic e Delic, hanno passato settimane sul banco dei testimoni, cercando di dimostrare che le forze jugoslave avevano organizzato un sistema per assicurarsi che i crimini commessi fossero perseguiti. Allo stesso tempo, hanno cercato di contrastare le accuse su numerosi fatti concreti contenuti nell'atto di incriminazione.
"Sarebbe praticamente impossibile trovare testimoni più rilevanti per questo caso", ha dichiarato Ivanisevic.
Ma anche la credibilità di tutti questi testimoni è stata seriamente incrinata dai contro interrogatori - e alcuni di questi hanno finito persino per rafforzare l'accusa.
Durante il contro interrogatorio di Stevanovic, per esempio, il teste ha portato alla luce senza volerlo prove che rafforzavano la versione della Procura su di un presunto massacro di prigionieri albanesi nel carcere di Dubrava, nel maggio 1999.
Stevanovic ha dichiarato alla Corte che una Unità speciale sotto il suo comando arrivò ala prigione di Dubrava nel maggio 1999, proprio nel periodo in cui i testimoni della Procura avevano affermato che i prigionieri - tutti Albanesi - erano stati uccisi da poliziotti che provenivano da fuori.
Il teste ha anche ammesso con riluttanza l'autenticità del proprio diario di guerra nel quale, durante uno degli incontri con Milosevic, aveva scritto una nota agghiacciante: "Presidente: niente cadavere, niente crimine". Dapprima il teste ha cercato di negare, ma poi ha confermato che il "Presidente" in questione era proprio Milosevic, e che in effetti era stato lui a fare quel breve commento. Stevanovic, tuttavia, ha insistito sul fatto che Milosevic si riferiva ai combattenti albanesi che "occultavano i corpi delle vittime serbe per nascondere i propri crimini".
Tuttavia, cadaveri di civili albanesi assassinati furono trovati molti mesi dopo la caduta di Milosevic, in un terreno recintato che apparteneva all'unità sotto il comando di Stevanovic.
Rispetto a questo, il testimone non ha presentato in Tribunale altra spiegazione che una vaga teoria cospirativa secondo cui i cadaveri erano stati posti lì da ignoti che volevano incastrare i Serbi per farli apparire in cattiva luce.
Infine, durante la testimonianza di Stevanovic, l'accusa ha introdotto quella che potrebbe risultare essere una delle prove più importanti per collegare Milosevic al massacro di circa 8.000 Musulmani Bosniaci a Srebrenica nel 1995 - un filmato che mostra dei membri di un gruppo paramilitare presumibilmente comandato da Belgrado, conosciuto come "Gli Scorpioni", mentre uccidono a sangue freddo sei prigionieri di Srebrenica.
Delic, un altro importante testimone, è stato chiamato per mostrare l'entità della ribellione albanese che l'esercito ha affrontato tra la fine del 1998 e l'inizio del 1999 - e dimostrare che i civili albanesi stavano in realtà sfuggendo agli attacchi della NATO piuttosto che ad uno sforzo concertato delle forze di sicurezza di Belgrado per espellerli dalla regione. Milosevic con questa testimonianza sperava anche di poter dimostrare che molti dei crimini allora commessi da soldati dell'esercito Jugoslavo furono regolarmente perseguiti.
Ma anche Delic ha finito per avere scarsa credibilità. I procuratori hanno ricordato ai giudici le numerose persone che avevano testimoniato per l'accusa, e che avevano parlato di Delic come di colui che aveva ordinato molti dei crimini commessi contro civili in Kosovo. Delic ha negato tutte queste accuse sostenendo che i testimoni nutrirebbero degli odi personali verso di lui e che comunque erano inaffidabili perchè non Serbi.
Anche lui ha finito per rafforzare non intenzionalmente la versione dell'accusa. Ha portato in tribunale dei documenti che dimostravano che dopo l'inizio dei raid NATO, l'esercito riceveva ordini da una struttura chiamata "Comando Congiunto".
L'accusa sostiene infatti che, dopo l'inizio dei raid della NATO, Milosevic mise il comando dell'esercito Jugoslavo e della polizia Serba nelle mani dei suoi stretti collaboratori politici, trasferiti in Kosovo per organizzare le operazioni di pulizia etnica. Insieme alla polizia locale e ai comandi militari, questi avrebbero formato per l'appunto il "Comando Congiunto". Milosevic ha invece sostenuto che questa struttura non sarebbe mai esistita o che, se pure esisteva, non aveva alcuna autorità sull'esercito o la polizia.
Delic ha confermato la presenza degli stretti collaboratori di Milosevic in Kosovo durante i bombardamenti della NATO, insistendo sul fatto che il Comando Congiunto era solo il nome di un corpo informale di coordinamento che non poteva emanare ordini - nonostante molti degli ordini che il generale ha portato con sé all'Aja sembrano essere stati firmati da questa struttura.
Ivanisevic, di Human Rights Watch, avverte che la questione della credibilità continuerà a tormentare il resto del processo. Considerando il fatto che l'accusa potrebbe avere successo nel presentare pressoché ogni singolo testimone di Milosevic come parte della stessa struttura da lui usata per commettere quei crimini, "la questione da porsi è se ci siano presone vicine a Milosevic la cui integrità politica e etica possa essere fuori discussione".
Verrijn Stuart ha affermato: "I giudici potrebbero trovarsi molto in difficoltà nel respingere in quanto inaffidabili così tanti testimoni chiamati da Milosevic. Ma potrebbero finire col farlo comunque".
L'avvocato olandese sostiene anche che questa situazione potrebbe rendere ancora più arduo l'effetto di responsabilizzazione che il processo potrebbe avere in Serbia. "Alla fine i Serbi potrebbero pensare che Milosevic e i suoi testimoni abbiano detto la verità in aula, ma che i giudici si siano semplicemente rifiutati di credergli, scegliendo invece di sostenere la versione dell'accusa".
Un altro rischio è che Milosevic possa prendersi molto tempo per ricostruire la sua versione della realtà in aula. Secondo l'ultima registrazione ufficiale relativa al tempo impiegato per questo caso, pubblicata il 28 luglio, Milosevic avrebbe già utilizzato più di metà dei 90 giorni di udienze accordatigli per la difesa dai giudici, e questo solo per il Kosovo - e non ha ancora finito.
Nonostante i sempre più frequenti avvertimenti dei giudici sul fatto che potrebbe non avere abbastanza tempo per organizzare la sua difesa sulla Bosnia e sulla Croazia, e che loro non si sentiranno obbligati a concedergli più tempo se questo accadesse, Milosevic ha già annunciato che è intenzionato a chiedere un prolungamento della sua difesa.
Il ritorno in aula di Milosevic è previsto per il 17 agosto.
*Ana Uzelac è project manager di IWPR all'Aja