Un racconto di Nada Strugar, vincitore della sezione "Europa" nella quarta edizione del premio letterario "Brescia: culture a confronto" 2007. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Di Nada Strugar
Jole giaceva per terra in una pozza di sangue. La mano destra, rimasta lesa in un momento oscuro del suo passato, scoperta ed esangue, indicava nella penombra della stanza la pietosa sagoma del robusto corpo incastrato tra un comodino e il vecchio armadio. La radio era accesa, trasmetteva una canzone locale. La presenza innocente di quel cieco testimone esaltava il raccapricciante paradosso della lugubre atmosfera.
Da quando era tornata tra le sue montagne, quella compagnia discreta e musicale, informava la madre di Jole che sua figlia era sveglia.
L'anziana donna si rasserenava un po'e invitava le vicine di casa per il rito del caffé e per scambiarsi quattro chiacchiere. La donna cercava sempre di trovare giustificazioni per sua figlia sebbene le comari, pronte a scambiarsi occhiate fulminee, parevano non darle molto credito.
A volte, però, quando il dolore e le preoccupazioni per la figlia sembravano soffocarla, raggomitolava dentro di se tutte le sue angosce e i lunghi tormenti e si recava in campagna. Credeva, in questo modo, di dare più respiro a Jole in quella minuscola abitazione. Temeva per la figlia e per il suo domani, nonostante Jole avesse quarant'anni!
- Di quel nuovo letto non ne avevo bisogno - protestava timidamente la madre, tanto mi basta e avanza il vecchio. Tienili per te i soldi! - Jole non la assecondava, seguiva il suo cuore. Alla stessa stregua, il giorno del mercato non si dimenticava di mettere qualche banconota nel borsellino della madre. Si commuoveva guardandola ritornare con la borsa piena e l'antica dignità ritrovata.
Jole aveva rinnovato con cura poche cose di quella modesta abitazione. Cercava in qualche modo di ridare luce e quiete al posto che l'aveva allontanata, giudicata, ferita. Le sarà mai possibile ritrovare gli affetti mancati? Avrà la forza di lottare ancora, abbattere i muri ostili del passato? Le notti insonni e dannate inghiottivano il suo futuro e quando apriva gli occhi rossi e gonfi a causa dell'insonnia, accendeva la radio e si attaccava al telefono. Cercava Đokica.
Poi, taciturna e scontrosa, apriva lentamente la porta, lanciava un veloce sguardo alla madre e spariva dietro un telo grigio che fungeva da dispensa. Per qualche instante rimaneva lì, poi, con circospezione, raggiungeva il minuscolo bagno.
Poco dopo protestava per un mucchio di panni che sua madre aveva lasciato in ammollo: - La lavatrice l'ho comprata con quelle maledette ore di lavoro nero ed ora bisogna pur farla lavorare! - sbottava Jole.
- Sarebbe meglio risparmiare un po'... - diceva sommessamente la madre, le cui preoccupazioni si arroventavano e ingigantivano al pensiero di quel cruciale momento della sua esistenza di cui l'onore e l'onere sarebbero entrambi caduti sulle spalle della figlia.
Jole, dispiaciuta, cercava di rimediare. Non la voleva offendere. Ultimamente, quel lungo addestramento al controllo, allo sforzo di non reagire, di tacere, la tradiva spesso, scoprendola in tutta la sua inerme debolezza.
Temeva quel leggero tremolio che la percorreva, il sudore che improvvisamente le correva lento giù per la schiena, l'impulso breve e freddo che l'avrebbe spinta nella penombra del telo grigio a placare quel bisogno smodato e incontrollabile.
Con le palpebre serrate in una smorfia di disperazione e di sollievo si costringeva a trattenere le lacrime. Un'amara e diabolica forza la drizzava, le faceva credere di poter ancora inseguire quel sogno di potercela comunque fare, di poter prendere la vita per i capelli, conquistando così un po'di pace e serenità.
- Sai bene come hai chiuso la porta prima di andartene! - Ora toccano a te gli impegni familiari! - i suoi fratelli non perdevano l'occasione di ricordarglielo.
Non aveva dimenticato Jole quel periodo in cui voleva scegliere il suo futuro. Voleva rompere il cerchio, scavalcando i fratelli, ma questo non le era concesso. Una linea di fuga si offrì, inaspettatamente, con lo sposalizio della sorella maggiore che seguì il marito, in una città lontana e sconosciuta. Jole abbracciò il suo futuro, mentre la sua famiglia rimase saldamente ancorata al passato.
In quella città, diversa e nuova, Jole trovò lavoro in una fabbrica e iniziò i corsi di dattilografia. Allegra e fiduciosa, fantasticava sul domani e curava i suoi sogni, fino a quel giorno maledetto in cui agghiaccianti e corali no rifiutarono il cuoricino che batteva nel suo petto... Le porte si chiusero, oscurarono improvvisamente i ricordi delle belle serate passate con Đoko sotto l'acacia del parco cittadino, i biondi capelli di lui che brillavano insieme ai suoi sorrisi.
La torre di progetti ammucchiati tra il giorno e la notte saliti vertiginosamente verso una vetta di gioia inebriante, si ridusse di colpo in frantumi.
Qualche mese più tardi, Đoko la salutava sulla porta di uno squallido appartamento, raccomandandole il figlioletto che Jole stringeva tra le braccia. Lei si asciugava le lacrime, lui le prometteva che sarebbe tornato presto. Non lo vide mai più.
Lo schiaffo di un figlio illegittimo in quell'ambiente provocarono subito un'eco potente e rimbombante. I suoi familiari presero rigide distanze dalla figlia per mantenere l'onore del casato, quelli di Đoko, critici e ostili, non la accettarono. Lottò con tenacia da sola, ma, purtroppo, invano. Perse il lavoro e quasi subito dopo fu sfrattata.
Alla fine, l'ultimo colpo: il bambino fu affidato ai genitori di Đoko.
Jole non trovò più se stessa. Umiliata, offesa e rifiutata, varcò la frontiera. Da clandestina sfidò l'incertezza e in un mare di paure si buttò alla cieca. Per dodici anni si imbottì delle pillole amare degli immigrati. Quotidianamente, a mani piene, senza alcuna precauzione. Non aveva tempo di badare agli effetti collaterali. Aveva imparato a lavorare in nero, a tacere. Aveva imparato in fretta anche l'italiano, sapeva ormai cucinare la pasta, camuffare bene le bugie e sparire quando c'erano i controlli... Ma aveva imparato anche che le buste gonfie di banconote spingevano le pratiche per ottenere i documenti.
Le speranze bruciavano i giorni, l'amore le teneva la testa salda sulle spalle, frenava la disperazione e il desiderio fortissimo di riavere accanto suo figlio, soffocava il dolore racchiuso in quelle sei lettere: Đokica!
L'immagine di un piccolo e magro viso di una foto consumata dentro il suo portafoglio, non le dava pace, la perseguitava. Anni di battaglie per poterlo riabbracciare. E poi ancora: documenti, ambasciate, dichiarazioni, pacchi, telefonate, attraversavano la frontiera con la sola speranza di alleviare quell'angoscia che la stava divorando.
- Non ti ho lasciato, non ti ho dimenticato! - si tormentava nei suoi pensieri. Per lui doveva resistere a tutto.
Jole aveva imparato che le disgrazie nella vita viaggiano su corsie preferenziali e in quelle circostanze impose a se stessa il silenzio, mettendo a tacere il dolore. Fu così anche quel giorno, quando sul lavoro perse tre dita della mano. Accettò la perdita delle dita ma non quella dei documenti.
Il destino le servì anche l'ultima portata: il fuoco della guerra bruciò le lettere SFRJ del rosso passaporto jugoslavo insieme al suo sfortunato paese che, decapitato e squartato a pezzi, grondava odi e violenze sul suo letto di morte.
- Chi sono e cosa farò se sono straniera sia qui che altrove? Dove potrò tornare? E Đokica? Di che nazionalità sarà e quale stato diventerà la sua nuova patria? - Il presagio di vivere separati per sempre era tremendo e la strada di ritorno invalicabile. Jole temeva di impazzire. Fu proprio allora che si sentì persa. Di quel lungo buio che inghiottì i quarantotto mesi della sua vita non parlò mai.
Ora, mentre con le grosse valigie seguiva la freccia che indicava l'imbarco, provò paura per la prima volta - Stai scherzando Jole - diceva a se stessa - è un puro paradosso! Paura proprio adesso che hai tutti i documenti in regola! - Le batteva forte il cuore. Sentiva le gambe tremare. Aveva paura di tutto. Sopratutto dalle persone in uniforme. La paura di varcare quella frontiera, il dramma del ritorno, l'angoscia di non essere compresa, gli altri, il passato...
Le girava la testa. Non la riusciva a consolare neppure la piccola ma sicura pensione di invalidità finalmente ottenuta.
Quel ritorno che aspettava tanto! Ma in realtà chi l'aspettava davvero? Dove si trovava il suo posto? Scappava da quei pensieri e ripeteva: - Vado da mia madre, troverò la sua porta aperta. Poi, Đokica, fra poco sarà maggiorenne, potrebbe venire, certo, ma... Chi sa davvero quanto tempo passerà prima di ottenere un visto. Ancora tutti quei maledetti visti, documenti, passaporti tra noi, prima di poterlo abbracciare! Mi abbraccerà? - Poi si fece di nuovo coraggio e si aggrappò al pensiero degli stivali comprati apposta per fare lunghe passeggiate sulla neve. Si precipitò al bar del porto e ordinò un caffé corretto per tranquillizzarsi un po'. Mentre lo sorseggiava lentamente alzò lo sguardo sullo specchio che rifletteva la sua immagine - E' arrivata la pecora nera! Ha perso per strada il suo pelo corvino e riccio! - le pareva già di sentire i futuri commenti.
Gli spruzzi di una lacca forte tenevano in ordine i capelli diradati color biondo cenere. - Mi riconosceranno? - Il vestito lungo e semplice non riusciva a camuffare la sua figura appesantita. Mentre ringraziava il cameriere accennando un sorriso, alzò meccanicamente la mano verso la bocca sdentata. - Ora me li sistemerò, costa meno qui, e poi, farò anche la dieta - cercava di convincersi mentre si accendeva una sigaretta.
Le strade sterrate del suo paese erano affollate di gente sconosciuta e indifferente. Davanti ai condomini sgretolati e sporchi, sostavano file di macchine vecchie e rotte. I depositi comuni per la legna coprivano i marciapiedi, quelli veri erano occupati dai profughi. La neve cadeva di rado e Jole non riusciva più a percepire la sua magia bianca.
Gli sguardi sospettosi e curiosi dei parenti e dei familiari erano più assidui dei pochi amici che arrivavano di rado. Usciva poco. Passava ore al telefono nel tentativo di prendere la linea per parlare con il figlio. La fiducia perdeva il respiro. Parlava la radio, lei no. Ne intuì qualcosa Sonia, un'amica d'infanzia, scorgendo le lacrime furtive della madre. Jole negò di essere alcolizzata, e si difese: - No, non è così! Qualche volta butto giù un bicchierino, è vero, ma solo per darmi un po' di tono, quando il passato mi rincorre... - Poi, con imbarazzo, la abbracciava di sfuggita, promettendole che l'estate prossima avrebbero fatto quel viaggio insieme, tante volte rimandato.
Jole lo fece da sola. In silenzio. Per sempre e questa volta senza documenti.