In centro a Srebrenica

Alcuni giorni trascorsi a Srebrenica, Bosnia Erzegovina. Un diario di viaggio. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

25/11/2009 -  Anonymous User

Di Jacopo Giannangeli

Arrivai a Srebrenica una mattina alla fine di agosto 2008, dopo una ventina di giorni passati in lungo e in largo per la Bosnia-Erzegovina. Srebrenica era nei miei piani una delle ultime tappe in quel paese, prima di valicare il confine settentrionale verso Osijek e Vukovar in Croazia, e proseguire poi verso Belgrado, la meta finale. Aspettavo e coltivavo questo viaggio nei Balcani occidentali già da molto tempo; più o meno da quando, l'estate precedente, ero tornato dalla mia "prima volta" in quei paesi. Sapevo che vi sarei tornato, appena ne avessi avuto modo.

Dicevo, arrivai a Srebrenica una mattina di fine agosto. Attendevo con ansia questa tappa e devo ammettere che ero molto incuriosito (naturalmente a causa delle tristi vicende storiche), anche se non sapevo assolutamente che cosa aspettarmi.

La prima impressione non fu delle migliori: dava l'idea di essere uno di quei paesini vuoti e un po' squallidi che si possono facilmente incontrare per la Bosnia, uno di quei posti dove si può ancora respirare l'odore della guerra che esala dalle rovine e dai mille cantieri in piedi da chissà quanto tempo e mai terminati. Comunque, dopo aver scrutato uno per uno tutti e cinque gli anziani seduti nel parco (che ricambiavano entusiasti, ben contenti di avere una novità da contemplare), capii che non avrei saputo dove sbattere la testa e decisi di scendere alla stazione degli autobus, un paio di chilometri a valle del paese, per vedere se potevo trovare lì un posto dove alloggiare. Confidavo, come al solito, nella mia discreta conoscenza della lingua, che, unita all'effetto sorpresa, mi aveva già permesso di cavarmela in molte situazioni. Anche questa volta, infatti, cominciai ad attaccare bottone e riuscii a coinvolgere nel dibattito l'intero personale della piccola stazione: dalle bigliettaie agli autisti, dalla proprietaria del negozio di alimentari fino ai suoi avventori (alcuni dei quali erano già ubriachi a quell'ora del mattino...).

Piano piano riuscii a prendere confidenza: all'inizio mi consigliavano un albergo (il più economico, oltre che l'unico in paese), poi un posto imprecisato dove avrei potuto pernottare a buon prezzo, se non addirittura gratis, finché Marija, la proprietaria del piccolo negozio, non si offrì di ospitarmi a casa sua. Sollevato e rincuorato dal calore della gente di Bosnia, potei finalmente avviarmi verso il cimitero monumentale, la vera "attrazione turistica" di Srebrenica (capii più tardi che molti turisti visitano il cimitero, ma nessuno o quasi di loro arriva a spingersi fino al paese). Da questo momento comincia il mio viaggio dentro Srebrenica e la sua gente, dentro i loro sorrisi e le loro rughe, dentro i loro sentimenti e i loro rancori.

Camminai fino al cimitero; quando vi entrai era più o meno mezzogiorno e faceva un caldo asfissiante. Il paesaggio intorno è brullo: una larga pianura riarsa dal sole, pochi alberi e pochi campi, soltanto erbaccia bruciata dal caldo. Il cimitero è grande, veramente grande e pieno di lapidi bianche o di legno verde, una a fianco all'altra. Alcune ai loro piedi hanno seppelliti i corpi, altre no. Più in là, nella zona del memoriale, c'è una cosa che assomiglia a un tendone in muratura (in realtà è un piccolo tempio costruito come un porticato, cioè aperto sui lati e riparato solo dal tetto), un grande semicerchio dove sono incisi i nomi delle oltre 8000 vittime del massacro e alcune grandi steli di pietra sparse un po' qua e un po' là, con su incise alcune frasi. Una mi colpì particolarmente per il suo carattere sinistro; recitava: "8372... Numero complessivo delle vittime, che non è ancora concluso".

Uscii stordito e deciso a prendere un taxi. Andai ad aspettarlo accanto alla casupola dei guardiani del cimitero e cominciai a chiacchierare anche con loro e con un altro tizio, un loro amico. Non volevano credere che fossi italiano, così gli feci vedere la mia carta d'identità; la esaminarono attentamente, uno per uno e poi mi rivolsero la domanda fatale: «Per chi tifi?» Delusi dalla mia risposta, mi chiesero che ci facevo lì a Srebrenica, dove non c'è niente da fare né da vedere; io risposi che passavo di lì e mi ero fermato per un giorno e che in fondo non era poi così male. Il loro amico mi disse: «Se ti piace così tanto, perché non ti fermi qui, mi dai i tuoi documenti, così io vado lì da te, in Italia...» Ridevano. "Hai ragione, pensavo, anche io scapperei da questo posto che puzza di morte. Perfino il sole sembra che uccida, qui..." Non dissi niente, poi arrivò il taxi, salutai e me ne tornai in stazione.

Andai a salutare Marija al negozio; mi chiese se ero stato giù al cimitero. «Sì» risposi. «E che ne pensi?» Non sapevo cosa dire. Lei strinse le spalle e borbottò: «Politica...». «Sì - risposi, stringendo anch'io le spalle - politica...»

Subito dopo mi spiegò che per andare a casa sua avrei dovuto aspettare che "il suo Milan" (così lo chiamava) tornasse dal lavoro, più o meno verso le sei. Avevo ancora molto tempo e potevo permettermi una visita turistica per la città. Risalii fino in paese e mi misi a passeggiare. La mia prima impressione fu riconfermata: Srebrenica è piccola e per buona parte ancora in rovina o ancora in cantiere (le due cose sono spesso difficili da distinguere...). Se togliamo il nuovo, piccolo centro commerciale proprio all'entrata del paese, quasi non ci sono negozi; c'è una chiesetta ortodossa, costruita su una piccola altura che domina il paese, carina e ristrutturata; poco più in là una moschea in costruzione (o lasciata a metà lavoro). Entrai in un bar e chiesi un caffè; il proprietario mi rispose che poteva farmi solo una bosanska kafa, perché a quell'ora c'è il razionamento e non arriva acqua per la macchina dell'espresso. Bevvi il mio caffè chiedendomi come saranno i rapporti tra serbi e musulmani in quella piccola cittadina agonizzante. Il proprietario era evidentemente un musulmano (in genere i serbi chiamano il caffè turco domaća kafa e non bosanska, poi me lo servì sul classico servizio di rame, con la đezvica e il vassoio su cui era incisa la Baščaršija, il vecchio quartiere turco di Sarajevo, con la mezzaluna), appena a fianco c'erano un paio di bar di serbi... Sembrava tutto normale, tutto pacifico, ma spesso, soprattutto in Bosnia, la tranquillità e il silenzio sono i veli che nascondono la diffidenza, il rancore, la nostalgia, l'odio.

Ero stanco: stanco del sole, del caldo, di quell'aria pesante, di quella cortina che aleggiava sulla città. Decisi di tornare in stazione e di aspettare lì, all'ombra e con una birra ghiacciata in mano. Sul muretto del negozio erano già piazzati due o tre clienti di Marija; iniziammo una lunga conversazione, una di quelle che capita spesso di intraprendere in Bosnia, un po' annebbiate dall'alcool, in cui si parla non di qualcosa, ma intorno a qualcosa, nel senso che gli argomenti principali (quelli che aleggiano per tutto il tempo nella discussione) non sono mai affrontati direttamente, bensì vengono circuiti, aggirati, in un certo senso delimitati. Mi parlarono di Srebrenica, di com'era prima della guerra e di com'è adesso: era una bella cittadina, viva e importante, la più importante del distretto; ora non è rimasto più niente. Mi dissero tutti insieme quanto era bello quando erano tutti fratelli, non come adesso che sono costretti ad odiarsi solo perché si fanno il segno della croce in modo diverso oppure perché alcuni non se lo fanno affatto. «Era tutto diverso, una volta - diceva uno di loro - c'erano venti nazioni ("nacija", inteso come popolo, etnia) diverse in Jugoslavia e tutti erano liberi!» «Ma che dici? - lo contraddiceva un altro - Non erano venti le nazioni, erano di meno. Forse dieci o dodici...» «Va bene - ribatte il primo, spazientito - c'erano un po' di nazioni, dieci o venti che siano, ma tutti erano liberi!»

Chiesi loro, quando Marija non era presente, se quel Milan di cui tanto parlava fosse suo marito. Mi risposero senza guardarmi che no, Milan è il figlio, che lei non ha marito e cambiarono subito argomento. Dopo la quinta o la sesta birra finalmente arrivò Milan: era un ragazzone alto e forte, non aveva neanche 18 anni, con il viso rotondo senza peli e due occhi vispi e sorridenti. Andammo insieme a casa sua, mi raccontò che era stato più volte in Italia, tramite degli scambi organizzati dalla scuola, parlava perfino un po' di italiano. A casa riuscii anche a farmi una doccia (era finito il razionamento), poi Milan mi fece vedere delle foto che aveva nel computer. In alcune era a Barcellona (sempre tramite gli stessi scambi), in altre a Venezia, in altre ancora era con degli amici in campagna a sparare con il fucile. In una c'era tutto il gruppo di ragazzi che ostentava fiero il loro kalashnikov e alzava le tre dita aperte verso il cielo. Mi disse Milan, con i suoi occhi sorridenti, che va molto di moda farsi fotografare con il fucile, tutti i ragazzi lì lo fanno.

Chiacchierammo ancora per un'oretta, mentre aspettavamo un suo amico; Milan voleva andare a studiare a Belgrado, dopo le scuole superiori. Aveva un cugino lì che poteva dargli una mano, ma mi confessò che era un po' spaventato dall'idea di allontanarsi dagli amici e di lasciare sola sua madre. «E poi, diceva, riuscirò a vivere in città io che sono cresciuto per i boschi?»

Intanto venne a prenderci il suo amico, in auto. Avevano deciso di portarmi a Bratunac, un paese ad una decina di chilometri da là. «A Srebrenica non c'è niente da fare, è tutto vuoto» mi spiegavano per strada. Per prima cosa, quando arrivammo, mi trascinarono a mangiare il pasul in una trattoria piccola e deserta; poi ci tuffammo nella vita notturna del luogo. In paese regnava un'atmosfera da sagra paesana, con le vie (anzi, la via; perché tutto si articolava sulla via centrale) piene di ragazzini che andavano avanti e indietro, sedendosi ogni tanto a bere qualcosa in uno dei bar. Tutto era nuovo: gli edifici, le vie, le panchine, le aiuole; era tutto tirato a lucido, o almeno dava quest'impressione a me che mi sentivo reduce dall'anticamera dell'inferno. «Una volta, prima della guerra, qui non c'era niente - mi spiegava l'amico di Milan - era solo un paesino come gli altri. Tutti venivano a Srebrenica, che era più grande: c'erano locali, c'era gente. Ora a Srebrenica non c'è più niente, ma almeno qui hanno ricostruito tutto. Piano piano tutto andrà a posto...» E in effetti tutto era a posto lì, in quel paesino addobbato come per una sagra; tutto era normale. Andammo avanti parlando di donne e di calcio, normalmente, come si fa dovunque nel mondo; e mi sembrava di respirare di nuovo dopo tanto tempo. Poi tornammo a Srebrenica e finimmo la serata in un paio di bar (gli unici aperti) tra birre, ćevapi e ragazzi che spaccavano bicchieri urlando a squarciagola le canzoni dei Bijelo Dugme (anche questa una forma di nostalgia).

Io e Milan ci salutammo quella sera stessa - lui si sarebbe dovuto alzare presto l'indomani; mi cedette la sua stanza per quella notte e, come se non fosse già abbastanza, mi regalò una bottiglia di šljivovica. Io gli lasciai il mio indirizzo e-mail e il numero di telefono, raccomandandogli di farsi sentire.
La mattina dopo presi l'autobus per Tuzla alle undici; salutai e ringraziai Marija e tutto il personale della stazione (compresi, naturalmente, i "clienti fissi") invitandoli a venirmi a trovare, se avessero avuto modo.

Me ne andai felice e turbato: Srebrenica è un posto strano, non solo per il cimitero. È un luogo dove sembra che gli opposti si confondano, si rincorrano instaurando quasi un rapporto dialettico: l'umanità e la disumanità, la vita e la morte, la speranza e la disperazione sono ognuno il prodotto dell'altro, in un continuo rivolgimento di fronte in cui ogni limite, ogni frontiera cade. Tutto questo si può ritrovare in ogni sguardo, in ogni volto, in ogni parola; e tutto fa parte della memoria, lacerata, a pezzetti, a ognuno la sua. Ho capito, quando me ne stavo andando, che ero venuto fin lì per cercare quello che poi ho trovato: la morte. A Srebrenica è facile trovarla: è in ogni angolo, ha lasciato la sua impronta massiccia sulla città e sulla valle che gli è sotto. Compresi anche che, sebbene avessi trovato quello che cercavo, non ero soddisfatto: non è facile da accettare, non si può accettare, quella morte.

Durante il viaggio pensavo a Milan e a suo padre. Chissà che fine ha fatto, mi chiedevo. Forse è stato ucciso durante la guerra, o forse Milan stesso è figlio della guerra, della sua violenza (come tanti altri, del resto, da quelle parti) o forse niente di tutto questo. E chissà come Marija ha vissuto quegli anni con un bambino da proteggere. Marija porta i segni della guerra in volto, nel suo sorriso pieno, ma un po' stanco e negli occhi ancora impauriti, come quelli di un animale che è stato braccato a lungo. Quasi ogni volto, a Srebrenica, porta questi segni; quasi ogni volto nasconde un fondo oscuro: qualcosa di ingombrante, su cui non si può tacere, ma di cui non si può neanche parlare. È l'ombra pesante che un passato terribile proietta su un presente incerto e su un futuro inesistente.

Ma Milan no; Milan è un'altra immagine: il suo sorriso è largo e sincero e i suoi occhi sono scintillanti di speranza. Milan è un po' l'immagine della nuova Bosnia: un'immagine ancora contraddittoria, ancora radicata, da una parte, nei fantasmi del passato - quando un po' per scherzo e un po' per sbruffonaggine imbraccia il fucile e inneggia a qualche grande condottiero di qualche secolo fa - ma anche ingenua e fiduciosa, proiettata nel futuro, in un futuro sconosciuto e precario, nel quale però ripone tutti i suoi progetti e i suoi sogni. Milan e tutti i ragazzi come lui rappresentano la speranza che tutto quello che è stato rimanga nella memoria come un brutto sogno, che non si può e non si vuole dimenticare, ma che appaia lontano e sfocato come quei grandi condottieri che, secoli e secoli fa, guidavano i loro popoli contro gli invasori.

La strada da percorrere è lunga e ce ne vorrà di tempo per questo. Ma un giorno tutto andrà a posto, tutto tornerà normale, tutto ricomincerà daccapo ― perfino a Srebrenica.