Il memoriale di Potocari, la base dei caschi blu, le colline. E un incontro. Racconto di un viaggio a Srebrenica, riceviamo e volentieri pubblichiamo
Di Luca Bidoli
La fabbrica comparve sulla sinistra, enorme, una massa grigia di vuoti e spazi, contrappesi, di lamiere e tubi. Un gigantesco ventre di ruggine, ferro, acciaio. Un dinosauro accartocciato su se stesso, con qualcosa di primitivo, di estraneo e duro, dentro. E niente intorno. Il vuoto, forse le colline lontane, il sole dietro le nubi, a rischiarare il luccichio dell'asfalto. Il cimitero, accanto, disturbava: quelle costruzioni moderne, scintillanti nelle pietre, le scritte in inglese, i prati con gli steli verdi a ricordare i morti, gli assenti. Un'occhiata veloce, di rito, un passeggiare tra viali accurati e lamine incortecciate nella terra. Le foto, in bianco e nero, nella sala asettica del ricordo. Un obitorio per una vivisezione, per raggrumare un dolore che non sapeva farsi ancora sdegno, e ira. A che scopo? Perché tanta cura, tanto ordine rigoroso, perché tante geometrie, quando invece lì accanto, si apriva il vero posto, la fabbrica della memoria, l'urna sacrale che neppure la pioggia - diventata fitta, intanto, rapida nella sua monotona scansione del tempo - riusciva ad attutire, a rendere meno opprimente? La pioggia: durante la pioggia cosa fanno da queste parti gli uomini e le donne, di cosa parlano tra loro i vecchi, come giocano i bambini? Dove, su quali limiti si posano gli occhi, che cosa immaginano oltre il verde dei prati, degli alberi, al di là degli agguati, delle raffiche, dei suoni che questo vento leggero di inizio maggio ancora portava con sé? Era, quel suono, una lingua non straniera, nella quale e dalla quale traevano forza e sostanza le nostre emozioni, il nostro sospetto di essere già, dalla prima percezione di quella massa di rocce e ferro, in un altrove. Che erano nel nostro tempo, queste, le nostre sole Termopili possibili: nell'eccidio, nelle stragi, pensavamo, si declinano i giorni della pioggia in questa parte del globo, in questo specchio divelto del pianeta.
Un cane: era un cane, un imprecisato cucciolo, ad accoglierci, nel prato antistante l'ingresso. E poi, poco dopo, un uomo. L'unico che dovevamo incontrare, conoscere, in quel luogo. Né troppo giovane, né vecchio, magro, di altezza normale: non ne ricordo il nome. Aveva la barba lunga, e nei suoi occhi sembrava quasi di leggere la timidezza antica di chi si sente sempre fuori posto, davanti ad un estraneo, davanti a degli stranieri. Anch'io ho sensi simili, del sospetto di essere in casa d'altri, ospiti poco graditi e temporanei. Non lo amo il mio tempo, non lo amo. Nelle tasche poche cose, qualche spicciolo, e le spine, quelle sì, appresso a noi, gradite e complici compagne.
L'ho riconosciuto, dagli occhi, il custode della fabbrica di Srebrenica - anche se lui non lo poteva sapere - ci eravamo già incontrati mille altre volte, senza neppure sfiorarci, con i sacchetti dei vermi e petali appassiti, negli occhi, ficcati nelle nostre palpebre. Ci siamo intesi subito, anche se io non capivo una parola. C'era Silvia. Lei era il mio, il nostro tramite, il punto di confine. E di confini ne avremmo attraversati molti in quelle ore. Dietro ad ogni porta, oltre ogni muro: un nuovo vuoto, un altro aggredirsi e il chiedere come e perché, e le risposte che si smorzavano tutte nelle domande. Non c'è, forse, sofferenza peggiore: quando sai, e non riesci neppure a disperarti, perché hai già compreso troppo. Diviene un limite, una barriera: anche il capire non ti è d'aiuto, davanti al puro e semplice orrore, davanti ad ogni, qualsiasi atto o forma di violenza. Non hai più parole: ti sono ostili, non ti servono. Anzi, ti allontanano. Forse recuperi altri linguaggi: gli sguardi, il tuo, il nostro passo nel fango e nelle pozze d'acqua marcita, e tra i calcinacci, nelle scorie, il peso del tuo corpo, le braccia che barcollano ai tuoi fianchi, l'ombra delle colline che si allontana dal tuo orizzonte. E pensi al vuoto, che è già colmo, pieno di coloro che non ci sono. Sono morti. Distesi nei prati al di là della strada, nel camposanto miliardario. Ma è qui - affermi a te stesso, con forza - è qui, che loro ancora respirano e io mi nutro della loro stessa aria e cammino, libero. Libero, forse.
La fabbrica: lì i serbi avevano radunato la gente, lì avevano portato donne e bambini, e gli uomini. Poi, lo smistamento - via le donne e i bambini, quelli più piccoli, i vecchi ricurvi - e il massacro, l'eliminazione. Dai dieci ai settant'anni, gli uomini. L'anagrafe è spietata, crea una condanna. L'età diventa, al pari della tua fede, il marchio di una sentenza, di una fine. Perché? Perché tanto odio? Perché, ora, questo silenzio, questa pioggia che lava i nostri volti ma non arriva a toccare quello che ci cresce dentro, quello che muore ad ogni passo sulle nostre labbra? Perché?
Così, io, Silvia, il custode e il suo cane, attraversavamo i padiglioni, le stanze, attenti agli usci divelti, alle buche negli asfalti, alle assi riverse per terra, alla ruggine che raschiava la gola e faceva amara la bocca. Quanti passi ci separavano dall'uscita? Contavo i metri, i passi mi precedevano: se la vista era quella di un cieco, era solo per percepire i suoni, i rumori, gli echi.
Lui aveva perso la sua famiglia, lì. Era l'unico superstite. Io l'avevo compreso subito: dagli occhi, questi immondi, spietati occhi che tutto dicono, che tutto tradiscono. La stretta di mano, non così forte, non così debole. Il cane, quel cane che ci seguiva, in un tragitto conosciuto e ripetuto, con uno scodinzolare da cucciolo, da lattante, l'essere più nuovo del mondo, da quelle parti. Sapeva molte più cose di me, quel cane.
Volevamo vedere i graffiti: quelli lasciati dagli olandesi, dai soldati che avrebbero dovuto essere protezione, salvaguardia, salvezza. Quelli lasciati dai carnefici, e da altri, indistinti, innominabili, inghiottiti dalla pioggia. Già, i graffiti. Primitivi segnali di presenza, tracce, testimonianze. Lancinanti spezzoni divelti dall'universo, comete estranee alla vita, frasi volgari, membri maschili e svastiche, elicotterini e carri armati disegnati da bambini ebeti, sfatti dalla noia e dall'uso del terrore: dalla sua abitudine, dall'assuefazione che cresce nel vuoto. Io li vedevo, quei ragazzi, quegli uomini. Li immaginavo, esausti, ubriachi, sfiniti. Ne sentivo l'odore di vomito racchiuso dentro le pareti, comunicante con le latrine, i tubi della fabbrica, i rigagnoli di urina e catrame. E questo odore di piscio, vomito, catrame e ruggine vecchia si diffondeva nella mia testa e non mi lasciava respirare. Barcollavo, e davo l'impressione di essere ubriaco. Anche il sorriso da ubriaco avevo: ma era solo una smorfia, di dolore.
La pioggia batteva forte, sulle lamiere, sui soffitti anneriti dal fumo e dagli incendi, nelle grandi sale vuote che un tempo avevano visto il lavoro di uomini e di macchine, poi il resto di una città sottratta alla sua gente, i corpi che erano solo e unicamente corpi. E odori, odori che raschiavano ancora la superficie delle pareti. In un capannone, l'avviso: qui erano riuniti tutti. Tutti insieme, prima. Per l'ultima volta.
Siamo usciti: noi lo potevamo fare. Ci era concesso e con le nostre stesse gambe, guidati e coccolati come bambini cresciuti nelle bambagie della storia. Nati dalla parte giusta del mondo, quella dove la follia ha altri aspetti e cancrene, ma non diviene, non è incubo collettivo, radice del male. E sentivo una reale, totale solitudine, una sensazione salutare di disincanto da tutto e tutti, dalle parole vuote, dalle inutili professioni di fede, di amore, di redenzioni ultraterrene, di salvezze stanche ed affrante, affamate. Provavo solo una grande, insopprimibile sete, e desiderio di abbracciare un essere umano, un cane, di vedere una lucertola dileguarsi negli interstizi, salvarsi tra le fessure e le crepe, di accoccolarmi dentro e sputare contro la luce.
Rischiarava, fuori. Da un arbusto spuntavano fiori, violacei. Odoravano di buono. Il custode ne staccò uno e lo porse a Silvia.
"E' per il viaggio di ritorno, ci profumerà tutta la macchina."
Al cancello d'ingresso il commiato. Pochi cenni del capo, una stretta di mano, gli occhi che si curvavano nel peso impossibile del ricordo.
"Hai domande da fargli?"
"No."
"Neanche una? Forse si aspetta almeno una domanda..."
"Il cane, come si chiama il suo cane?"
Il suo cane si chiamava Giallo, come il colore del suo pelo, fulvo, denso e striato di luce intensa. E' la sola parola che io conosca, che io ricordi, in quella lingua. Suona leggera, lieve: porta bene per un essere vivente.
Non tornerò così presto, in quella fabbrica. Se ne scrivo, e parlo con qualcuno del cane giallo, è solo per non essere creduto, per prendere le distanze, anche da me. Accadono cose strane, a volte.
Srebrenica, 2 maggio 2006