Il diario di Irene Spagnul da Tbilisi, seconda puntata
Irene Spagnul è studentessa universitaria all'ultimo anno di Cooperazione Internazionale allo Sviluppo presso l'Université Libre de Bruxelles (Belgio). Sta effettuando uno stage all'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni di Tbilisi. Questa è la seconda puntata del suo diario di viaggio, riceviamo e volentieri pubblichiamo
L'edificio che ospita le Nazioni Unite a Tbilisi è, naturalmente, dipinto di blu. Un poliziotto sorveglia l'entrata e per entrare si passa sotto un metal detector ma l'ambiente è molto informale. Tanti i giovani che stamattina arrivano per seguire la preparazione ad una missione di valutazione dei bisogni dei villaggi colpiti dalla guerra, nella zona compresa tra Gori e Tskhinvali.
Siamo una ventina e ognuno rappresenta una diversa agenzia internazionale. Ci viene distribuito il questionario che dovremmo sottoporre agli abitanti del villaggio oggetto della missione e le istruzioni per la compilazione. Durante le due ore seguenti vengono discusse le modalità di somministrazione delle domande, la loro interpretazione, l'approccio da tenere con la popolazione locale. I quesiti riguardano la situazione fisica degli edifici, la situazione sanitaria e alimentare, l'accesso all'acqua e ai servizi sanitari.
Io seguo con immenso interesse e quasi con timore reverenziale l'intera riunione. Non mi sono ancora chiari alcuni punti, ma la maggior parte dei presenti è evidentemente più esperta di me così mi limito ad ascoltare e a prendere diligentemente appunti.
Sulla strada verso casa mi fermo in uno dei tanti negozietti di alimentari che costellano la città. Sono piccolissime stanze in cui ogni tipologia di cibo è accatastata occupando ogni centimetro libero. Scavalco un paio di scatoloni e prendo, tra le altre cose, un pacco di biscotti. Sussulto improvvisamente perché la signora al bancone urla indignata che i biscotti che ho appena preso sono russi e che, anche se sono poco costosi, non va bene comprarli. Allora mi faccio consigliare dei biscotti georgiani: spessa pasta sfoglia, uva passa e pezzetti di noci. Nonostante non adori l'uva passa, li compro per il quieto vivere: la signora è soddisfatta e io mi sento meno in colpa.
Nel pomeriggio mi vedo con la mia amica Tea. Parliamo di noi e passeggiamo per la città. "E' meglio non prendere la metro, mi dice, perché è sporca ed è fatta per chi non ha abbastanza soldi per avere un'auto". Ecco trovata la spiegazione all'incredibile traffico e alla stratosferica quantità di auto che circolano a Tbilisi!
Percorriamo un piccolo tratto di Kostava Street per poi imboccare Rustaveli Avenue che ci porta in Freedom Square. Rustaveli è un bellissimo viale alberato, costeggiato da imponenti edifici, tra cui il Parlamento e il cinema Rustaveli (che però è chiuso a tempo indefinito a causa della crisi politica. Tea commenta che le sembra stupido: perché la gente non dovrebbe voler andare al cinema?). Dopo Freedom Square inizia la città vecchia. Ci inoltriamo nelle strette viuzze e prima di proseguire verso i bagni turchi, ci fermiamo a mangiare in un ristorantino. Ordina lei per entrambe: khinkali e khachapuri. I khinkali sono dei grandi ravioli ripieni di carne a forma di fagottino. Mi spiega come fare a mangiarli e mi lascia alle prese con il piatto: vanno presi con le mani e addentati una volta sola, va bevuto il sugo di cottura che si è depositato all'interno e poi vanno mangiati, lasciando però nel piatto l'estremità del fagottino, più dura rispetto al resto e quasi mai ben cotta.
Durante il pranzo mi parla della sua famiglia. Suo fratello minore è cieco dalla nascita ma è molto bravo a scuola e probabilmente il prossimo anno si iscriverà all'università. Lei è si laureata in lingue cinque anni fa all'Università di Tbilisi ma lavora solo da quattro mesi. Ha 27 anni e quasi tutte le sue coetanee sono già mogli e madri. Mi dice che nelle campagne ci si sposa a 14 anni ma che in città le cose stanno cambiando e che l'età media del matrimonio sta salendo. "I ragazzi di Tbilisi vogliono essere europei", mi dice "ma non sanno neanche loro che cosa vuol dire".
Lo storico dilemma del Caucaso, penso, in bilico tra Europa e Asia.
Si offende perché propongo di dividere il conto. Alle volte l'ospitalità georgiana raggiunge livelli quasi esagerati. Allora la lascio fare ma un'ora dopo, quando ci fermiamo nel quartiere alla moda di Chardin Street a bere un caffè freddo, offro io.
Questo quartiere è incassato nella decadente città vecchia ma è talmente ben ristrutturato che sembra di essere in un altro posto. I bar e i ristorantini si susseguono ad un ritmo serratissimo, il suolo ricoperto di porfido è cosparso di sedie e tavolini dal design moderno e sculture, piante e opere d'arte di ogni tipo bordano i vialetti. Troviamo facilmente un posto su un divanetto pieno di cuscini colorati e Tea mi dice che la sera è praticamente impossibile trovare un tavolo libero a meno che non si abbia una prenotazione.
Continuiamo il nostro pomeriggio rifacendo il percorso all'indietro. Scherziamo lungo la strada sul fatto che ad ogni angolo c'è una banca. "Non capisco perché le banche continuino ad aprire tutti questi uffici", mi dice "visto che la gente non ha soldi". Io sono d'accordo ma mi dico che in fondo un motivo ci sarà. Investimenti stranieri? Penso. D'altronde, oltre alle banche, quello che sta fiorendo è l'industria edile e la costruzione di alberghi di lusso. Prima di inoltrarci per Chavtshavadze Street, passiamo davanti al Parco 9 Aprile con la sua grande chiesa ortodossa. Un gruppo di donne sta uscendo, togliendosi il velo dal capo. Tea mi spiega che il velo e la gonna lunga fino ai piedi sono obbligatori per entrare nelle chiese, i pantaloni non sono accettati. Raggiungiamo Chavtshavadze Street con qualche problema per gli attraversamenti perché qui non esistono strisce pedonali e i semafori sono pochi. "Però", scherza Tea "ci sono telecamere ad ogni angolo!" Su questa strada ci sono negozi dai nomi familiari, con vetri e pavimenti splendenti e guardie all'entrata: firme internazionali. Dopo una rapida e infruttuosa incursione in uno di questi, ci avviamo verso casa.
Le sono molto riconoscente per lo splendido pomeriggio e la vorrei abbracciare, ma mi limito a darle un bacio sulla guancia, uno solo, come si usa qui.