Terza puntata del diario dalla Georgia di Irene Spagnul
Irene Spagnul è studentessa universitaria all'ultimo anno di Cooperazione Internazionale allo Sviluppo presso l'Université Libre de Bruxelles (Belgio). Sta effettuando uno stage all'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni di Tbilisi. Questa è la terza puntata del suo diario di viaggio, riceviamo e volentieri pubblichiamo
Io e il mio collega Giorgi partiamo alla volta di Gori per partecipare ad una riunione di uno dei gruppi per il coordinamento degli aiuti umanitari.
C'è una sola strada che collega Tbilisi e Gori: un'unica corsia per senso di marcia e migliaia di veicoli, soprattutto camion, che la percorrono. E' molto pericolosa anche perché la guida dei georgiani è decisamente senza regole. Mi allaccio la cintura e cerco di non guardare avanti. Così guardo il panorama che mi scorre a fianco. Dopo Mtskheta, tranquilla cittadina dove si incontrano il fiume Aragri e il fiume Kura, i dintorni sono leggermente collinari ma brulli, pochi campi coltivati e pochi alberi. Qualche gregge di pecore, qualche mandria di vacche e molti cespugli.
Durante il tragitto il nostro autista si lamenta della condizione delle strade e in generale delle infrastrutture in Georgia. Mi spiega che gli appalti per i grandi lavori pubblici vengono regolarmente vinti da società turche che propongono prezzi molto bassi e qualità del lavoro scadente, perché sono più propensi a chiudere gli occhi di fronte alla corruzione georgiana, aggiunge. La gara d'appalto per la costruzione dell'aeroporto di Tbilisi è stata vinta appunto da una società di Ankara, contro una tedesca. Il tetto ha ceduto due volte a causa del vento e ci sono infiltrazioni d'acqua ad ogni pioggia intensa, sottolinea disgustato. Giorgi esplode in una sonora risata quando gli dico che ho letto in un articolo di quanto sia diminuita la corruzione nel paese dall'avvento di Saakashvili, nel gennaio 2004.
Le prime case di Gori sono dei grandi condomini fatiscenti attorno a cui sono stati installati cantieri per la riparazione dei danni causati dalle bombe. Vedo anche dei negozi vuoti le cui vetrate, andate in frantumi a causa delle scosse provocate dalle bombe, sono appena state sostituite.
Ci addentriamo nel cuore della città: la gente cammina per strada, i pochi e poveri negozi sono aperti, gli autobus funzionano. La vita riprende, insomma. Ma i volti della gente non possono ingannare: sono ancora tutti sconvolti e fanno fatica a riprendersi.
Raggiungiamo la tendopoli allestita in uno spiazzo dalla Croce Rossa Italiana. C'è un'enorme mensa, tende familiari e bagni comuni, gruppi di donne e di ragazzi che vagabondano per il campo, bambini che giocano. E' stata allestita una tenda che funge da luogo di preghiera ma è vuota. Chissà, forse qualcuno ha perso la fede dopo questo conflitto.
Parlo con una donna di mezza età che si avvicina incuriosita dalla mia macchina fotografica. Viene da un villaggio distante pochi chilometri da Tskhinvali. Vorrebbe tornare a casa ma ha paura perché le milizie ossete continuano a fare razzie, rubare e svaligiare case e negozi. Finché non siamo protetti, continua la signora, non possiamo rientrare, per quanto questo ci faccia male.
Vediamo una folla di donne che sembra affannarsi su qualcuno: è la distribuzione dei vestiti di seconda mano. Sento odore di cibo proveniente dalla mensa. Vedo un uomo che si lava con una pompa all'aperto. E poi rifletto sulla condizione degli sfollati nei centri collettivi di Tbilisi e penso che, nella disgrazia, qui nella tendopoli di Gori la situazione è nettamente migliore: ci sono servizi igienici adeguati, sono serviti due pasti caldi al giorno e l'acqua è discretamente pulita.
In serata esco a cena con degli amici. Il mio amico Vitali mi racconta che ha combattuto nella guerra civile del 1992 in Abkhazia ma che, nonostante sia di origini russe, faceva parte dell'esercito georgiano. Finita la guerra, torna a casa fortunatamente illeso, ma non volendo rientrare a mani vuote e non avendo neanche un soldo, porta con sé qualche granata. Arrivato a Tbilisi, prende un taxi ma non potendo pagare chiede all'autista di accettare una granata. L'uomo spaventatissimo alza le mani urlando di non fargli del male e di prendergli pure l'auto.
Ma io volevo solo pagarlo con quello che avevo... E all'epoca una granata valeva parecchi soldi, aggiunge candidamente Vitali. Io sbarro gli occhi incredula con il mio khinkali a mezz'aria. Mi ci devo abituare, penso dopo cinque secondi di vuoto mentale, sono in un paese dove le ferite della guerra sono ancora tragicamente aperte.