Un viaggio in Bosnia Erzegovina, sulle tracce di chi ha deciso di eleggerla come luogo dove lavorare e vivere, pur provenendo da altri luoghi. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Trasferirsi a Londra è il sogno di tanti giovani europei e non. George Nickson, trentacinquenne dai biondi capelli lunghi che a Londra è nato e cresciuto, ha deciso invece di compiere il percorso inverso. Giunto alla soglia dei trent’anni, il suo più grande desiderio era di andarsene dall’Inghilterra: “Se hai voglia di lavorare sodo, a Londra le opportunità di carriera sono tante,” racconta, mentre sorseggia una limonata fresca per sconfiggere l’afa di un pomeriggio d’agosto. “Io però ero stufo della società occidentale e dei suoi ritmi forsennati e così ho deciso di cambiare.” Dopo anni trascorsi nella logistica di una multinazionale dell’industria cinematografica, al termine dello scorso decennio George ha lasciato il lavoro, trasferendosi in Bosnia. “Mi affascinava molto ed ero curioso di vederla. Inizialmente, durante la settimana lavoravo con i giovani, ai quali insegnavo le basi del project management. Mi dividevo tra Sarajevo e qui, ma nel 2011 ho determinato di stabilirmi in questo paese.” Il “qui” di George si riferisce a Srebrenica.
Per coloro che hanno vissuto la guerra in Bosnia da spettatori, attraverso televisioni e giornali, il nome Srebrenica è legato alla parola “massacro”. E’ qui che nel luglio del 1995 il generale Ratko Mladić e le sue truppe uccisero circa ottomila uomini musulmani sotto lo sguardo impotente – indifferente, secondo alcuni - dei caschi blu dell’ONU. Sebbene le brutalità durante la guerra siano state consumate da entrambi gli schieramenti, l’eccidio di Srebrenica è quello che più profondamente ha colpito l’opinione pubblica mondiale, passando alla storia come il più violento sul suolo europeo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
“Il massacro ha avuto una risonanza enorme, suscitando nell’Occidente un senso di colpa
lacerante. D’altra parte, la nostra indifferenza nei confronti di una guerra così vicina a noi non poteva generare altri tipi di sentimenti. La necessità di lavarsi in qualche modo la coscienza era forte. Per questo, per anni, è stato sufficiente dire: “Sono di Srebrenica” per avere immediatamente in cambio una pacca di incoraggiamento … e tanto, tanto denaro.”
Giudicando dallo stato disastrato nel quale ancora si trovano gli edifici distrutti dalla guerra, ci si potrebbe chiedere per quale scopo siano stati usati tutti quei soldi. “La maggior parte del denaro era stata spesa prima che io arrivassi a Srebrenica, per cui non posso sapere dove sia andato a finire. Tuttavia, da quello che ho visto e sentito, a parte il profondo livello di corruzione che ha fatto dissipare gran parte dei finanziamenti, nel settore delle Organizzazioni Non Governative c’è un certo grado di ingenuità. Per questo motivo, ingenti somme di denaro vengono spese in progetti a breve termine, i quali non sono poi gestiti con un’efficacia tale da permettergli di sopravvivere nel tempo. Ne è prova il fatto che sono state registrate a Srebrenica oltre cinquanta ONG, ma soltanto quindici di esse riescono a tirare avanti, peraltro con budget risicatissimi. Questa però è la situazione: i palazzi cadono a pezzi e, soprattutto, mancano i servizi essenziali. In alcune zone del paese l’acqua viene razionata. Vi immaginate che cosa voglia dire nelle estati torride passare una giornata avendo a disposizione l’acqua solo per poche ore?”
Eppure la verde Bosnia, con i suoi meravigliosi boschi e le sue ricche sorgenti, non dovrebbe conoscere questo problema. L’abbondante acqua che si perde in mille rivoli prima di arrivare alle abitazioni è la metafora di un paese nel quale le risorse arrivate attraverso gli aiuti internazionali sono state in gran parte sprecate: “I media europei e americani di questo non parlano. Si soffermano su quello che è successo venti anni fa e sui criminali di guerra morti, ma la gente è stufa di parlare di questo perché i problemi attuali sono altri. Ci sono persone che si sono arricchite perché hanno potuto mettere le mani su denaro che doveva essere destinato a ben altri scopi. I labirinti della burocrazia locale hanno poi fatto il resto, aiutando a coprire i furti e le ruberie.”
Se da un lato la corruzione locale ha avuto un forte peso, dall’altro anche le organizzazioni internazionali hanno contribuito allo sperpero di energie e risorse. “Prendiamo come esempio il Film Festival di Srebrenica. L’abbiamo organizzato impegnandoci con tutte le forze, ma il seguito è stato molto scarso. Il profilo dei film era di livello troppo alto: qui la gente non è abituata ad andare al cinema, visto che il più vicino è a chilometri di distanza. Forse sarebbe stato opportuno iniziare con qualcosa di più accessibile. ”
Quest’ultimo punto in particolare viene condiviso dall’italiano Antonio Mosca, originario della Calabria, che vive a Sarajevo da più di dieci anni. Il suo modo di fare scherzoso e informale, unito ai lunghi dreadlock, contrasta con lo stereotipo serioso dell’esperto in materie tecniche che in realtà è, avendo completato la laurea in ingegneria a Pisa più di dieci anni fa. Con il suo borsello a tracolla, Antonio si muove con agilità tra le strette viuzze di Baščaršija, nome di origine turca che significa “mercato principale”. E’ il cuore pulsante della città, con la splendida moschea di Gazi Husrev-beg che si innalza maestosa tra l’intrico di botteghe, vestiti, souvenir, ristoranti e bar dove si sorseggia il delizioso bosanska kahva, il caffè alla turca … Pardon, alla bosniaca. Musulmani e cristiani, sarajevesi e turisti, giovani e vecchi, donne col velo e bellissime ragazze in minigonna si muovono freneticamente animando la vita giornaliera e notturna di Baščaršija, il luogo in cui Oriente e Occidente diventano un tutt’uno.
Nella capitale bosniaca Antonio si è costruito una famiglia, sposando una donna originaria del posto, dalla quale ha avuto due figlie. Per lungo tempo ha collaborato con diverse ONG, occupandosi principalmente di formazione professionale.
“Alcune organizzazioni internazionali sono venute a Sarajevo con un po’ di presunzione, senza conoscere la realtà locale. E’ vero, c’era stata una guerra che aveva distrutto palazzi, villaggi e città, spazzando via un’intera generazione, ma la Jugoslavia non era affatto un paese arretrato, anzi!”
In effetti, per un lungo periodo nel secondo Dopoguerra l’ex-Jugoslavia aveva rappresentato un punto di riferimento internazionale. Costituitasi come federazione di repubbliche socialiste e guidata con il pugno di ferro dal Maresciallo Tito, “padre padrone” fino alla sua morte nel 1980, la Jugoslavia aveva dato prova di coraggio e indipendenza liberandosi dall’egemonia sovietica e assumendo un ruolo di spicco tra i “paesi non allineati” che si chiamarono fuori dalla divisione in blocchi capitalista e comunista della Guerra Fredda.
Fu proprio Sarajevo nel 1984 a ospitare i Giochi Olimpici Invernali, passati alla storia dello sport per le medaglie d’oro e d’argento di due fratelli nella stessa gara, gli statunitensi Phil e Steve Mahre, e per aver lanciato verso il successo internazionale l’avvenente pattinatrice tedesca orientale Katarina Witt.
“Non si riesce a ospitare un’Olimpiade senza grandi capacità logistiche e infrastrutture sanitarie di ottimo livello. Allo stesso tempo, in Jugoslavia non mancava certo il senso dell’organizzazione nelle forze dell’ordine: non dimentichiamo che il regime di Tito era autoritario. Tuttavia, ho assistito ad alcune scene paradossali in diversi eventi formativi svolti sotto il patrocinio della comunità internazionale. Ricordo ancora un corso in cui un istruttore impacciato e impreparato, mi sembra di origini ghanesi, insegnava ad alcuni agenti locali a fare i poliziotti, mestiere che però avevano già svolto per diversi anni. Ho avuto la netta impressione che i poliziotti locali avrebbero potuto insegnare a lui come tenere pistola e manganello, e non il contrario. Ho notato in seguito delle situazioni analoghe anche in altri ambiti professionali.”
Parlando invece del futuro, Antonio non nasconde le sue preoccupazioni riguardo alla situazione di Sarajevo e del paese in generale, reo di non riuscire a far emergere il suo potenziale: “E’ un vero peccato che il patrimonio della Bosnia, il suo paesaggio, non sia sfruttato a dovere. Per esempio, a mezz’ora di macchina da Sarajevo ci sono le montagne delle Olimpiadi: Jahorina e Bjelanica. Basterebbe puntare su questo elemento per portare migliaia di turisti, attratti dalla prospettiva di poter sciare e alloggiare a prezzi molto competitivi. Sfortunatamente, il paese ristagna in una sorta di pantano a causa dell’eccessiva burocrazia. Anche per questo non sono tranquillo per il futuro delle mie figlie. Io stesso sto facendo fatica a trovare lavoro in modo regolare, ora che il tempo dei grandi finanziamenti internazionali è finito a causa della crisi e visto che, diciamo le cose come stanno, nell’agenda degli aiuti la Bosnia è passata di moda.”
L’inefficienza della macchina statale è la conseguenza di una ristrutturazione dell’organizzazione amministrativa che alla fine della guerra ha diviso il paese in due entità distinte: la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, a maggioranza croata e musulmana, con capoluogo Sarajevo, e la Repubblica Serba di Bosnia, con capitale Banja Luka. La convivenza di due stati in uno doveva essere una situazione temporanea, ma si è presto trasformata in normalità.
Dal cuore di Baščaršija, Antonio decide di proseguire verso la sponda del Miljacka. E’ all’altezza del Ponte Latino – in realtà ottomano - che attraversa il fiume di Sarajevo che un tragico pezzo di storia venne scritto nel 1914. Il 28 giugno di quell’anno il giovane Gavrilo Princip assassinò l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austro-ungarico, un evento che scatenò la Prima Guerra Mondiale.
Lungo il Miljacka, l’ingegnere italiano si ferma al caffé Delikatesna Radnja, un punto di ritrovo per gli intellettuali più vivaci della capitale. Uno dei suoi frequentatori è il regista di “No Man’s Land,” Danis Tanović, vincitore dell’Oscar per il miglior film straniero nel 2002 con una pellicola che mette in mostra l’assurdità del conflitto nell’ex-Jugoslavia di fronte all’indifferenza e all’impotenza della comunità internazionale.
“I vip bosniaci godono di una buona fama qui, ma spesso non sono conosciuti a livello globale. Per questo motivo sono generalmente alla mano e non hanno atteggiamenti da superstar. Mi è capitato più di una volta di incontrarne alcuni in questo bar. D’altronde, più che una città Sarajevo è un grande paese di montagna, dove tutti conoscono tutti. ”
Che si tratti di persone comuni o di personaggi famosi, la gente della capitale condivide con gli abitanti di Srebrenica la riluttanza a parlare della guerra e di un assedio di oltre tre anni, il più lungo che una città abbia dovuto sopportare nella storia moderna, tra il 1992 e il 1995.
Tuttavia, diversi politici locali soffiano ancora sul fuoco del nazionalismo. Sia Antonio sia George sono concordi su questo punto: “In molti casi i partiti lo usano come pretesto per prendere voti e per conservare delle posizioni di potere. Fanno leva sulle nuove generazioni, quelle dei ragazzi di diciotto o vent’anni, che non hanno conosciuto la realtà di una Jugoslavia unita, mentre crescevano sulle macerie della guerra e dell’odio che essa ha seminato.” D’altra parte, vista la dilagante disoccupazione, i giovani trovano poche ragioni per sorridere e possono essere facilmente strumentalizzati. In preda alla frustrazione, il pericolo di finire in cattive compagnie o di prendere brutte strade è dietro l’angolo. Per questo motivo George riconosce a un piccolo bar di Srebrenica un ruolo importante di collante sociale.
“Non è proprio una regola fissa, ma ho notato che di solito la gente frequenta dei bar nei quali tutti i clienti appartengono allo stesso gruppo etnico. Invece, il Marlboro Café viene considerato un luogo aperto a tutti. Ci vado spesso per bermi una bibita e leggermi un buon libro in pace, oppure per fare due chiacchiere sul calcio o su qualsiasi argomento. Come mai questo bar è un’isola felice? Gran parte del merito va a Zoran, il gestore. Mi hanno raccontato che un paio d’anni prima del mio arrivo a Srebrenica giravano diverse gang e si spacciava droga, ma Zoran non ha permesso che entrassero dentro al Marlboro Café. Più tempo ci passavo, più capivo l’importanza del suo modo di gestire il locale. Zoran si aspetta che le persone si divertano, ma senza oltrepassare una certa linea. Se qualcuno oltrepassa quella linea, è fuori. Mantiene una coerenza assoluta nel far rispettare le regole e lo fa senza essere aggressivo; per questa ragione tutti lo rispettano. A nessuno viene riservato un trattamento di favore, sono tutti sullo stesso piano. Se si osserva il comportamento tipico di un politico o di un dirigente d’azienda, il genere di persone che dovremmo ammirare, si nota invece che spesso si tratta di figure che abusano del loro potere. Magari Zoran non è l’unico a Srebrenica ad avere questo atteggiamento, ma sicuramente si è guadagnato la mia più sincera ammirazione.”
E’ proprio dal Marlboro Café che George indica un luogo di osservazione privilegiato sopra Srebrenica. Dista circa quindici minuti a piedi e sostiene che vale la pena arrampicarsi fin lassù. Si tratta della vecchia casa dei cacciatori, o di quello che ne è rimasto dopo la guerra. Per arrivarci, bisogna salire diverse rampe di gradini, stando attenti a non inciampare nei gatti che tagliano la strada all’improvviso e a non calpestare i cocci di bottiglia disseminati lungo il percorso.
I rifiuti abbandonati non sono solo un problema di Srebrenica. Anche lungo i tornanti delle tortuose strade della Bosnia ci si imbatte frequentemente in piccole discariche a cielo aperto, che contrastano con l’aspetto incontaminato della montagna bosniaca. Il problema della raccolta differenziata spiega anche il perché di un particolare curioso dell’appartamento spartano – per usare un eufemismo – di George a Srebrenica.
“Parlare di differenziare i rifiuti è pura utopia qui. A me però dispiace buttare le bottiglie di vetro insieme ai rifiuti comuni, per cui ho iniziato ad accumularle sul pavimento della cucina in attesa non so nemmeno io di che cosa … In generale c’è tanta incuria ed è un vero peccato data la bellezza del paesaggio che rischia di essere deturpata. “
Lo stato malandato della casa dei cacciatori rispecchia quello di tutta Srebrenica. Oltre agli sprechi che sicuramente hanno avuto luogo, talvolta si ha l’impressione che tutto debba rimanere com’è per la paura che rimettere le cose a posto possa in qualche modo risvegliare nuovamente i mostri del conflitto. L’immobilismo è tuttavia frutto anche dello scenario complesso che si è creato dopo la guerra. “Durante gli scontri, diverse famiglie sono state costrette ad abbandonare la casa o sono scappate perché rimanere poteva essere pericoloso. Al loro posto ne sono arrivate altre in fuga, magari di un’altra etnia, e vi si sono stabilite. Alla fine del conflitto, però, le organizzazioni internazionali hanno stabilito che le case dovevano essere riassegnate ai proprietari originali, i quali nel frattempo si erano rifatti una vita altrove e non avevano nessuna intenzione di tornare. Questo è il motivo di tante case in rovina.” Una di esse spicca in modo particolare. Si trova in una posizione rialzata rispetto al resto del paese, ai confini del bosco che lo circonda. L’ora del tramonto si avvicina, ma la casa, al centro della quale cresce poderoso un albero, è ancora illuminata dagli ultimi raggi del sole.
“Quella casa si trova probabilmente nella posizione più bella di tutta Srebrenica, ma giace abbandonata a sé stessa. Che peccato! Anche quella immediatamente sottostante ha conosciuto lo stesso destino. Apparteneva a una famiglia i cui genitori sono morti: i due figli erano scappati a Sarajevo e in Germania. Quello che è rimasto in Bosnia non può permettersi i lavori di ristrutturazione, mentre il fratello che vive a Francoforte non è minimamente interessato … E la casa ora è in abbandono.” Di casi come questi in Bosnia se ne potrebbero trovare a migliaia. Diverso, invece, è il discorso degli edifici abitabili e abitati, ma non intonacati, che puntellano il paesaggio bosniaco. “Non ne sono totalmente certo, ma deve essere uno stratagemma per non pagare le tasse, perché in questo modo risulta che le case non sono ancora state completate. Al contrario, se capita di vedere case dalle pareti di colori sgargianti, si tratta talvolta di una sorta di status symbol. Può significare: ho così tanti soldi che posso permettermi di sfoggiare la mia nuova casa … O forse in alcuni casi si tratta semplicemente di un gusto molto kitsch dei proprietari.”
Un altro problema irrisolto e legato alla questione delle case abbandonate riguarda le mine. Viene infatti sconsigliato di aggirarsi tra le macerie dei vecchi edifici oppure di avventurarsi al di fuori dei sentieri tracciati.
“Bisogna fare attenzione e muoversi con la gente del luogo per evitare pericoli e incidenti. Tra l’altro, con la gente della zona si va sul sicuro, visto che tutti, anziani e ragazzi, hanno una conoscenza profonda della natura e delle qualità di ogni singola pianta, il che per me è molto inusuale. A Londra un giovane difficilmente conosce il nome della verdura che mangia, figurarsi le sue qualità nutritive o terapeutiche!”
I punti di vista di George e Antonio, privi della forte carica emotiva di chi è nato e cresciuto in Bosnia in questi anni, sono fondamentali per chi voglia capire in modo più oggettivo il presente di Sarajevo e Srebrenica. Tuttavia, il giovane inglese ribadisce un concetto in parte già espresso da Antonio: chi arriva da fuori corre spesso il rischio di porsi nella posizione di chi guarda dall’alto in basso con una buona dose di supponenza.
“Io stesso avevo quest’atteggiamento. Un esempio illuminante è quello del mio giardino, dove ho iniziato a coltivare della verdura la scorsa primavera con l’aiuto di alcuni giovani del paese. Alla fine della stagione avevo deciso che avrei lasciato la Bosnia e così dissi ai ragazzi che erano disoccupati e che bazzicavano attorno al giardino tutti i giorni che avrebbero potuto tenersi un mucchio di verdura per sé – a costo zero. Pensavo di fare una cosa magnifica, ma in seguito mi sono reso conto che la maggior parte delle famiglie possiede un pezzo di terra in qualche villaggio nelle vicinanze, dove coltiva frutta e verdura per usarla in cucina o per venderla al mercato. Sono proprio gli stessi ragazzi ai quali stavo offrendo il mio giardino che per anni erano stati mandati a lavorare la terra tutti i fine settimana … L’ultima cosa che vogliono, quindi, è avere ulteriore lavoro che li ricompenserebbe con qualcosa che già hanno! È la stessa logica – o (il)logica – che suggerirebbe a una ONG di organizzare un corso per giovani per impartirgli delle competenze che alle aziende locali non servirebbero mai. A patto che le persone vogliano davvero essere aiutate – il che non è scontato – non si può essere di alcun aiuto se non si mette da parte il proprio punto di vista. Questa è la lezione che ho imparato.”
George pronuncia l’ultima frase con un velo di tristezza, anche perché il suo tempo a Srebrenica è giunto alla conclusione. Tornerà in Inghilterra, ma in futuro vuole mettere l’esperienza fatta in Bosnia a disposizione di altri paesi, all’interno di altre organizzazioni non governative. Nonostante l’amarezza della sua considerazione finale, ciò che colpisce è il calore umano che gli viene riservato dai giovani della zona. “Per favore, salutatemi George quando andate al Marlboro. E’ una bella persona ed è un amico,” dice un giovane camerieri in uno dei bar frequentati dai musulmani a Srebrenica. Forse i suoi corsi sull’organizzazione di eventi non avranno avuto i risultati sperati, ma poco importa. L’affetto con il quale i ragazzi lo salutano e lo abbracciano testimonia la profondità dei legami che George ha saputo creare a Srebrenica in questi anni.