Il ponte di Mitrovica sul fiume Ibar

Come ha influito la dichiarazione d'indipendenza del Kosovo sulle attività di cooperazione in corso? Abbiamo raccolto alcune voci della cooperazione decentrata italiana impegnate in programmi di dialogo e riconciliazione

21/02/2008 -  Nicole Corritore

Sono voci del mondo della cooperazione decentrata, persone che operano in Kosovo, alcune di loro fin dal 1999. Soggetti della società civile italiana che non sono andati via dopo i primi tre anni quando la massiccia presenza di ONG internazionali e i relativi aiuti sono gradualmente diminuiti: Francesco Gradari, del Tavolo Trentino con il Kosovo, Fabrizio Bettini di Operazione Colomba, Monica D'Angelo di Assopace e Daniele Socciarelli di IPSIA. Quattro operatori italiani che, assieme ai loro colleghi kosovari e con alle spalle il sostegno in Italia di una rete di enti locali, associazioni, gruppi, lavorano da anni soprattutto in attività che avvicinano le diverse comunità residenti. Non solo quella serba e albanese ma anche quella gorana, rom, egiziana, bosgnacca (musulmana di Bosnia) e altre.

Come ha influito l'avvicinarsi della dichiarazione d'indipendenza sulle attività di cooperazione in corso? Qual è l'atmosfera di questi giorni? Quali le reazioni della popolazione con cui hanno relazioni giornaliere, nello svolgimento delle attività? Cosa si aspettano in futuro?

Emerge che il processo verso la dichiarazione d'indipendenza, annunciata il 17 febbraio scorso, aveva già influenzato il lavoro sul campo durante il periodo elettorale dei mesi scorsi: "Il cambiamento si percepiva non solo all'interno dei gruppi con cui lavoriamo ma anche nel nostro staff locale". E' Francesco Gradari a dirlo, responsabile del Tavolo Trentino con il Kosovo con base a Peja/Pec.

Gradari racconta inoltre che l'avvicinarsi di questa scadenza ha influito soprattutto sulle attività che vedono diverse comunità lavorare insieme. Cita ad esempio l'accompagnamento in città, a Peja/Pec, della minoranza serba che vive nella enclave di Gorazdevac per permettere loro di sbrigare faccende burocratiche negli uffici comunali o anche solo di fare la spesa. Un lavoro realizzato da un gruppo di operatori locali di diversa appartenenza nazionale, con lo scopo di rendere la libertà di movimento un concreto diritto di tutti e allo stesso tempo inteso a ricostruire fiducia reciproca tra comunità.

"Negli ultimi tempi abbiamo dovuto prendere maggiori precauzioni perché in diversi momenti, dalle elezioni parlamentari del 2007 in Serbia fino a quelle qui in Kosovo, il clima generale non permetteva questo tipo di attività". Gradari ci tiene a sottolineare che una buona disponibilità alla collaborazione da parte delle due parti, quella albanese e serba, non è mai mancata finora. Tuttavia si è scelta un po' di cautela allo scopo di evitare qualunque possibile episodio che avrebbe potuto scatenare conseguenze a catena, sebbene l'area di Peja/Pec non sia potenzialmente problematica come la zona più settentrionale del Kosovo o la città di Mitrovica.

Di Mitrovica, la Mostar kosovara dove la divisione fisica segnata dal fiume Ibar rappresenta il confine tra serbi a nord e albanesi a sud, parla Monica D'Angelo: "Come Assopace lavoriamo a Mitrovica dal 2002, con un progetto di cooperazione decentrata denominato 'dialoghi di pace'. E' un percorso di educazione alla pace realizzato nelle scuole con il coinvolgimento di insegnanti, alunni e in maniera indiretta delle famiglie". Prima dei fatti del marzo 2004 riuscivano a lavorare con le tre comunità qui presenti, albanese, serba e rom, senza alcun problema. In seguito le cose sono un po' cambiate: "Siamo stati obbligati a fare un passo indietro e continuare il lavoro all'interno delle singole comunità creando momenti di incontro tra esse in occasione di eventi organizzati da noi". Ad esempio, escursioni 'miste' dei bambini, che si è cercato di realizzare anche nelle settimane che hanno preceduto il 17 febbraio. "Ora però abbiamo sospeso tutto. Da un lato per questioni di sicurezza, dall'altro perché vogliamo ascoltare le varie comunità e capire come potrebbero essere accolte queste attività in futuro". Un'attesa dunque, per osservare e raccogliere indicazioni dai protagonisti su come procedere.

Sottolinea questo lavoro di ascolto e osservazione Fabrizio Bettini, che si trova in Kosovo dal 1998 con l'Operazione Colomba. Questo è il nome che venne dato al Corpo nonviolento di Pace della Comunità Papa Giovanni XXIII durante la guerra in Croazia e poi in Bosnia Erzegovina. Un progetto di intervento non violento in zone di conflitto che negli anni ha visto diversi operatori italiani trascorrere dei periodi in aree come Mitrovica e Peja/Pec, poi nell'enclave serba di Gorazdevac per stimolare attività di promozione del dialogo tra comunità, di difesa dei diritti umani e di denuncia delle violazioni attraverso la costante condivisione della quotidianità della popolazione.

"Le nostre attività proseguono, sebbene in questi giorni si siano un po' fermate perché una delle comunità con cui lavoriamo, quella albanese, era in festa", racconta Bettini. Un'influenza che gli eventi hanno avuto un po' sulla sfera psicologica degli operatori: "Perché da un lato avevamo gli amici albanesi presi dall'ansia dell'attesa, e dall'altra gli amici serbi immersi nell'incertezza". Ciononostante, nell'immediato post-dichiarazione i gruppi dell'Operazione Colomba hanno continuato a visitare le comunità con cui si rapportano: "Un gruppo è stato nell'area di Mitrovica, che è la più 'calda' e nell'area di Leposavic in tre villaggi albanesi in territorio a maggioranza serba. In questi giorni abbiamo incontrato tutte le comunità serbe: a Sige e Brestovik, Bijelo Polje e ovviamente Gorazdevac, mentre nei prossimi giorni ci porteremo a sud, nell'area di Viti/Vitina". Perché la scelta è ribadire la volontà di essere vicini a tutti, sia a coloro che stanno vivendo un momento di festa sia a coloro che provano paura o amarezza.

Anche le attività di IPSIA sono proseguite, racconta Daniele Socciarelli da Prizren, cittadina a sud ovest del Kosovo: "L'avvicinarsi del 17 febbraio non ha influenzato le attività degli sportelli che abbiamo aperto a Prizren, Giakova, Dragas e Klina per sostenere la legale migrazione all'estero e il riconoscimento dei diritti dei cittadini che rientrano nel paese". Socciarelli aggiunge che in questi ultimi mesi l'attività su cui IPSIA si è concentrata è quella informativa, dal Kosovo verso l'Italia: "Perché riteniamo sia di fondamentale importanza il lavoro di informazione fuori dai confini del Kosovo nel mantenere - o, in caso contrario, rischiare di destabilizzare - un equilibrio in loco... il passato lo conferma".

Su questo punto si mostra decisa anche D'Angelo di Assopace: "E' importante che si abbassino i toni, l'attesa spasmodica della 'notizia'. In questo momento molto delicato il nostro ruolo, quello internazionale intendo, può incidere molto anche in senso negativo sull'equilibrio della situazione". Infatti, anche lei e i suoi collaboratori ogni mattina ascoltano le notizie e poi, telefonando alle comunità nel territorio con cui lavorano, controllano la veridicità di ciò che la stampa ha divulgato. Sconfortata, racconta il caso - accaduto tre giorni fa - del giornalista che arrivato a Mitrovica nord si è avvicinato ad un corteo di persone che manifestavano pacificamente raccontando di avere notizia certa dell'uccisione di un serbo: "Noi eravamo lì e potevamo testimoniare della falsità della notizia ma sappiamo bene come comportamenti di questo genere possano minare un equilibrio che invece deve essere preservato" conclude Monica.

Un momento delicato dunque, di festa per alcuni, di indifferenza per altri come di amarezza, paura e costernazione per altri ancora. "In questi giorni pare che un 20% della popolazione di Gorazdevac se ne sia andata in Serbia per paura, non per sempre ma solo per passare questo momento in un luogo che sentivano sicuro", osserva Fabrizio Bettini. Allo stesso tempo Monica D'Angelo riflette su due eventi: "La piccola comunità albanese che vive a Mitrovica nord, zona a maggioranza serba, non ha potuto festeggiare, ha vissuto questi giorni con paura e soprattutto completamente lasciata a se stessa. Inoltre, parte di essa ha abbandonato il quartiere spostandosi nella parte sud della città, fatto mai successo prima... nemmeno nei momenti di alta tensione o di scontri violenti".

Sono spaccature, anche all'interno della stessa comunità albanese, che secondo D'Angelo dovranno essere affrontate molto presto, così come si prestare molta attenzione all'esistenza di altre minoranze. Socciarelli dichiara che quella più significativa a Prizren, i gorani, ha dimostrato generale indifferenza all'accaduto e Gradari racconta che ai festeggiamenti che si sono svolti Peja/Pec hanno partecipato anche altre comunità, come rom, egiziani, e ashkali: "Forse in parte perché volevano dimostrare di essere parte attiva di questo processo e in parte perché hanno voluto in un certo senso 'salire sul carro dei vincitori' ". Socciarelli ha notato invece che gli striscioni esposti dal Comune di Prizren durante la festa erano scritte nelle tre lingue più diffuse in questa zona - albanese, serbo e turco. Invece Bettini esprime una reale preoccupazione rispetto al dubbio che questo nuovo paese sia in grado di diventare un paese realmente "per tutti".

"Domenica si respirava un'atmosfera molto strana, quasi irreale rispetto ad altri momenti di tensione o crisi del passato. Tra la gente abbiamo registrato amarezza più che rabbia, e un'apparente tranquillità, silenzio". Lo ricorda D'Angelo, raccontando della manifestazione a Mitrovica nord seguita alla dichiarazione di indipendenza unitalerale, che ritiene essere stata molto diversa da quelle del passato: molto numerosa e composta, formata anche da gente che veniva da fuori città ma soprattutto formata da anziani, donne, bambini, persone che fino ad ora non avevano mai partecipato a queste forme di protesta.

Quali saranno ora le possibili conseguenza del 17 febbraio? "Un rammarico personale, anche un po' di rabbia e amarezza, è legato all'idea che si sia persa un'occasione. Da un lato non si può pretendere che la Serbia accetti questa indipendenza, considerato le modalità con le quali è avvenuta, non sostenuta dalle Nazioni Unite. Dall'altra gli albanesi kosovari hanno aspettato per anni che la promessa fatta loro della definizione dello status fosse mantenuta" risponde Bettini, aggiungendo che aveva sperato fino all'ultimo che si trovasse una soluzione all'interno dell'Unione Europea sul modello della "regione europea" proposta da Osservatorio sui Balcani anni fa.

"Cosa accadrà ora? Penso che la Serbia continuerà a mantenere uno stretto controllo delle aree a maggioranza serba, con il grande dilemma dei villaggi della regione di Peja/Pec staccati dal nord compatto dove il controllo politico, del territorio, del sistema scolastico etc, continua ad essere effettivo" riflette Gradari del Tavolo Trentino con il Kosovo, domandandosi inoltre come potrà il governo di Pristina operare anche a nord, dove non ha alcun tipo di presenza e controllo da parte delle isituzioni.

"Il futuro... è un bel punto di domanda. Credo si possa prevedere, ad esempio, che se in passato si è registrato da parte albanese un certo slancio ad incontrare l'altra comunità, anche a causa delle spinte internazionali in tale senso in attesa della definizione dello status, forse dopo il 17 potrebbe essere più difficile. L'indipendenza è stata concessa, perché dovrebbero collaborare?". Una domanda provocatoria e non certo un auspicio, quella di Fabrizio Bettini dell'Operazione Colomba che però si riflette anche nelle riflessioni di Gradari: "Spero non avvenga, ma in futuro potremmo incorrere nella grande difficoltà a coinvolgere la comunità serba in attività comuni con gli albanesi. Credo sia inevitabile, in questo momento, una chiusura della comunità serba in se stessa. Perché ora la prospettiva per loro è cambiata".

Tesi che emerge anche dalle conclusioni di Monica D'Angelo di Assopace. "E' da tempo che cerchiamo di capire cosa può cambiare, discutendone con i nostri collaboratori. E' difficilissimo dirlo. Posso dire che la separazione si è acuita. Se prima c'era un momento di attesa nella quale abbiamo raccolto maggior disponibilità a collaborare, oggi si avverte già un certo grado di radicalizzazione. Questo significa anche non mostrare più interesse a collaborare in un progetto basato sul dialogo e che, almeno per il momento, sentono inutile".

Dunque una porta aperta su un futuro incerto e difficile da delineare. In cui, riprendendo le parole di Bettini "tutti diciamo di essere tranquilli ma in realtà non è così. Tutto è come prima ma non tutto è come prima. E l'attesa continua ".