Maggioranza e opposizione a fine anno hanno trovato l’accordo per approvare una legge sull’incandidabilità, la quale introduce limitazioni all’accesso alle cariche pubbliche per persone con condanne alle spalle. Una rassegna
Tutto comincia nel luglio del 2014, quando, nel corso di un dibattito in aula, l’onorevole Gent Strazimi (Partito Democratico) denuncia i legami del governo di centrosinistra con la criminalità, prendendo ad esempio i precedenti penali del socialista Arben Ndoka, condannato in Italia a sette anni di reclusione per favoreggiamento della prostituzione (2002) e successivamente trasferito e scarcerato in Albania (2005).
Interrotta la seduta, il dibattito prosegue nei corridoi del Parlamento e culmina in uno scontro fisico tra Strazimiri e i socialisti Arben Ndoka e Pjerin Ndreu. Questo basta all’opposizione di centrodestra, avvezza alla pratica del boicottaggio, per sospendere ogni attività parlamentare, accusando il governo di avere trasformato il Parlamento in un covo di criminali, di avere violato la costituzione, di non adottare le sentenze dei tribunali albanesi e di non aver rispettato gli spazi dell’opposizione in aula.
In realtà, l’episodio è da ricondurre a un clima già carico di tensioni, a causa dei molti screzi sulla riforma degli enti territoriali, all’epoca ancora in corso e a causa del reiterato rigetto di decreti governativi da parte del Presidente della Repubblica Bujar Nishani, personalità formalmente super partes, ma che ciclicamente viene accusata dai socialisti di essere espressione della destra che lo elesse.
Fine del boicottaggio
Il boicottaggio si protrae per quasi sei mesi e trova soluzione grazie alla mediazione del Parlamento europeo e dei suoi due emissari, il relatore sull’Albania Knut Fleckenstein e l’esponente del Partito Popolare Eduart Kukan; ma soprattutto si risolve in prossimità dello scadere dei mandati parlamentari di tutti i deputati dell’opposizione (per costituzione il mandato di un deputato decade dopo sei mesi di assenza ingiustificata dall’aula).
Così, il 24 dicembre 2014, in una seduta straordinaria, viene approvato a larga maggioranza un accordo in forma di risoluzione, articolato su tre punti: l’opposizione rientra in Parlamento ma la maggioranza si impegna a non abusare della maggioranza qualificata conquistata con le elezioni del 2013 e a cercare il consenso dell'opposizione, per lo meno sulle riforme più importanti; le parti si impegnano a rispettare la costituzione e ad adottare le sentenze delle corti (in particolare di quella costituzionale); infine, maggioranza e opposizione decidono di mettersi al lavoro, con l’assistenza e sotto la supervisione dell’Ue, per la stesura di una legge sulla “decriminalizzazione”, allo scopo di tenere lontano dalla vita politica e dalle altre cariche dello stato persone con trascorsi criminali alle spalle.
Le proposte di legge
Raggiunto l’accordo, nel febbraio 2015 viene costituita una commissione parlamentare ad hoc per vigilarne l’attuazione, la cui presidenza viene affidata all’onorevole PD Oerd Bylykbashi. A pochi mesi dalle elezioni amministrative, il principale obiettivo dell’opposizione sembra essere quello di lasciare fuori dalle liste elettorali personaggi dal passato poco limpido e già a marzo viene presentata una prima bozza di legge. Pur manifestando apertura nei confronti delle proposte dell'opposizione, la maggioranza le interpreta come sola espressione della posizione politica del PD e presenta a sua volta un testo alternativo, seppure non troppo distante da quello dell’opposizione. Ma le condizioni non consentono di arrivare ad un testo condiviso e nelle liste elettorali presentate alle amministrative i candidati con la fedina penale non irreprensibile sono bipartisan.
L’opposizione accusa, la stampa fa i nomi, gli internazionali accreditati a Tirana incalzano con appelli al senso di responsabilità degli elettori, chiedendo di non votare i soliti noti. Ma più del dovere civico valgono le radicate abitudini elettorali albanesi: la fiducia incondizionata nei partiti storici, le logiche clientelari generate da una classe politica attenta solo ai propri attivisti, l’inscalfibile voto di scambio.
Come la Severino
Dopo nove mesi di gestazione, le parti presentano altre due bozze di legge molto simili tra loro, impostate sul modello italiano e dal contenuto ancora più severo della legge Severino. Da parte sua, la maggioranza lascia poi correre sulla richiesta del PD per il rilascio delle impronte digitali, pensata per quelli che nel frattempo hanno pensato di scamparla manipolando i propri dati anagrafici, ma non cede invece sul test antidroga, definendolo ridicolo e non previsto da nessuna altra legislazione. Si arriva così all'approvazione all'unanimità da parte del parlamento nel dicembre 2015.
In linea di massima, la legge prevede che chi annovera sulla fedina una condanna per reati che vanno dal genocidio alla corruzione e ai brogli elettorali, passata in giudicato nel paese o all’estero, o ancora in corso di giudizio – ma solo nei paesi Ue, Usa, Canada e Australia, cioè quelli ritenuti più “affidabili” – non potrà essere eletto premier, ministro, deputato, sindaco, consigliere comunale, e comunque non potrà ricoprire alcuna carica che preveda una approvazione in parlamento.
Chi queste cariche le detiene già dovrà compilare un modulo in cui dichiarare la propria estraneità alla malavita, da depositare presso l’istituzione a cui fa capo. Eventuali indagini potranno essere effettuate esclusivamente dalla procura e solo in caso di richiesta da parte di un decimo dei deputati o dal responsabile dell’istituzione. In caso di condanne precedenti il mandato decade automaticamente. È inoltre prevista l’interdizione a vita dai pubblici uffici in caso di reati gravi – in caso di reati elettorali, si calcolano invece vent’anni dal termine della pena. In generale, la linea prospettata è piuttosto rigida, e qualche diritto costituzionale viene a mancare, ma, viene detto, al male estremo della collusione con la criminalità non si può che rispondere con rimedi proporzionati.
C’è di mezzo il futuro del paese
Il dibattito sulla “decriminalizzazione”, e più in generale sulla riforma al sistema giudiziario, è onnipresente sulla scena politica albanese, tra le esortazioni degli internazionali e le accuse dell’opposizione, secondo cui sarebbero ben diciannove i deputati della maggioranza di governo con trascorsi criminali. La maggioranza ha sempre smentito, ma a sconfessarla sono anche recenti incresciose vicende.
Motivo d’imbarazzo c’era già stato durante le amministrative di giugno, quando a pochi giorni dal voto, un articolo della rete di giornalismo d’inchiesta BIRN aveva denunciato i trascorsi criminali di tre candidati in gara; se, a seguito dello scandalo, il PD decise di ritirare il suo uomo a Këlcyrë, i due candidati socialisti Artur Bushi e Elvis Rroshi vennero eletti senza difficoltà rispettivamente a Krujë e Kavajë, malgrado i legami accertati con il narcotraffico.
Negli ultimi mesi, la credibilità della maggioranza Rama ha subito altri colpi: poche settimana fa l’on. Mark Frroku, presidente del Partito Cristiano-Democratico in coalizione con il PS, ha dato le dimissioni da parlamentare, e lo ha fatto dalla cella da cui attende il verdetto del processo per l’omicidio di un connazionale a Bruxelles nel 1999. A succedergli doveva essere il fratello Arben Frroku, da cui Mark ha ereditato il piccolo partito e che gli succede nella lista elettorale di Scutari, ma questi è al momento latitante, condannato in appello all’ergastolo per l’omicidio del commissario Dritan Lamaj, freddato con dodici colpi di arma da fuoco a Tirana nel febbraio del 2013.
E ancora, nel mese di settembre, il socialista Arben Ndoka, lo stesso della rissa di cui sopra, ha anche lui dato le dimissioni, con una lunga lettera pubblica in cui ripercorreva tutte le le difficoltà affrontate nella sua vita, dall’infanzia nella periferia di Kurbin alla trappola di una concittadina in Italia, la cui falsa testimonianza lo avrebbe fatto condannare in contumacia e a sua insaputa per favoreggiamento della prostituzione. Mancano poi all’appello in parlamento altri due socialisti, l’ormai noto Tom Doshi, attualmente in carcere per falsa testimonianza, e Armando Prenga, anch’egli recluso a seguito di uno scontro a fuoco in cui rimasero ferite sette persone, gravosa escalation di un conflitto alla cui base vi sarebbe stata una gara d’appalto aggiudicata dal fratello. Le loro dimissioni non sono ancora arrivate e, raggiunti i sei mesi di assenza, saranno le strutture del Parlamento (Consiglio dei mandati) ad esprimersi sulla validità dei loro mandati.
Chi manca
Spulciando e confrontando l’attuale lista dei deputati del Parlamento della Repubblica con quella del giugno 2013, emerge che sono ben 32 (su 140) i deputati che per dimissioni o detenzioni cautelari non sono più all’interno dell’aula. Si ricorda a questo proposito che il premier Rama aveva imposto da subito ai suoi ministri di rinunciare all’incarico parlamentare, apparentemente allo scopo di garantire maggiore controllo e rendicontazione della squadra governativa (non si sa se al parlamento o al capo dell’esecutivo). Si sottolinea anche che la rocambolesca sostituzione di ministri e deputati dimissionari ha portato spesso l’entrata in parlamento di persone di poca notorietà e scarso spessore politico, dalla diciottenne dell’LSI Kejdi Mehmetaj al cowboy democristiano Eduart Ndocaj. Ora la composizione di questo parlamento appare storpiata e rispecchia solo in parte l’esito del voto politico del 2013.
Ancora una volta, noi cittadini albanesi, saremo comunque pronti a chiudere entrambi gli occhi di fronte a queste “elasticità costituzionali”, nella speranza che questa deprimente classe politica, per quanto stantia e indissolubilmente collusa con la criminalità, continui a emanciparsi, se non da se stessa, almeno da alcuni dei suoi casi limite.