Il nostro ex corrispondente da Tirana è tornato in Albania e ha seguito le manifestazioni dei partiti di opposizione contro il governo Rama. Una riflessione sul sistema politico albanese
Da diversi mesi la capitale albanese è scossa dallo scontro di piazza tra le forze dell’ordine e gruppi di militanti dei principali partiti di opposizione al governo Rama: il Partito Democratico (PD) di Sali Berisha e del suo eterno delfino Lulzim Basha – la cosiddetta “destra albanese” – e il Partito Socialista per l’Integrazione (LSI) del Presidente della Repubblica Ilir Meta e di sua moglie Monika Kryemadhi – un cartello clientelare che nell’ultimo decennio ha governato indifferentemente con Berisha e Rama.
Come tanti italiani, avevo seguito in TV la manifestazione del 16 febbraio scorso, culminata con la tentata irruzione nel palazzo del governo da parte di alcuni manifestanti. Violente e pittoresche, quelle immagini hanno riattualizzato l’antico stereotipo dei Balcani come luogo dell’irrazionalità e dell’arbitrio, e forse anche per questo sono circolate con grande rapidità in Europa, accendendo le fantasie degli analisti – tra gli esempi più fantasiosi quello di Massimo Fini, che sul Fatto Quotidiano si è avventurato in un parallelo con il Venezuela .
Galvanizzati dalla risonanza mediatica, sabato 11 maggio i militanti di PD e LSI sono tornati in strada. Questa volta ero sul posto e ho potuto assistere di persona a quella che senza dileggio filogovernativo definirei una “sceneggiata della violenza”. Comunque la si pensi su Edi Rama e sull’esecutivo in carica, è evidente che la degenerazione di questo tipo di piazze non è figlia dell’indignazione spontanea; gli scontri sono organizzati nel dettaglio dai partiti che forniscono ai propri manifestanti istruzioni, obiettivi e molotov, retribuendoli per la loro prestazione (affidabili fonti locali riferiscono di circa 5.000 lek a persona, circa 40 euro). Trattandosi di un “gioco di ruolo”, in questi mesi la polizia ha lasciato fare – nel 2011, a parti invertite, la Guardia Repubblicana aveva aperto il fuoco sui manifestanti e la priorità del governo Rama è dimostrare che le cose sono diverse da quando nel Palazzo c’era Berisha – ma nonostante questo tacito accordo l’11 di maggio scorso si è temuto che la situazione potesse degenerare.
Un tranquillo sabato sera (di paura)
Premettiamo l’ovvio a scanso di equivoci: Tirana non è una città pericolosa. Nelle ore che hanno preceduto gli scontri dell’11 maggio, Piazza Skanderbeg ha vissuto un tranquillo sabato pomeriggio, tra gelati e famiglie con il passeggino. Provenienti anche da fuori città, i “militanti” del PD sembravano quello che sono: persone come le altre, che sorseggiano l’ultimo caffè nei bar prima di radunarsi in gruppi e dare forma al corteo. Lungo il boulevard che conduce al Palazzo del governo la preparazione aveva l’aspetto ordinato di un evento autorizzato dal comune; una fila di casse diffondeva musica, i giornalisti prendevano posto per la diretta televisiva e poliziotti senza caschi né divisa anti-sommossa formavano un cordone d’ordinanza davanti al “Primo ministero”. Le melodie diffuse erano volutamente minacciose, da “scontro finale”, ma null’altro trasmetteva aggressività; sembrava un normale evento di piazza di un paese democratico, capace di garantire e organizzare gli spazi del dissenso.
Qualche ora più tardi avrei capito che non era così. Celebrata la liturgia – al “comizio” di Lulzim Basha che chiede “un’Albania europea” segue di norma il lancio di oggetti e vernici contro il palazzo del governo –, parte del corteo è tornato sui suoi passi per assaltare frontalmente la sede della Polizia di Stato. A quel punto le forze dell’ordine hanno reagito e, nonostante la pioggia incessante, lo scambio di molotov e fumogeni è proseguito fino all’una di notte, con un bilancio di 19 feriti (15 agenti, 4 manifestanti) e 50 fermati. Dal mio sicurissimo bed and breakfast in zona bllok ho avuto la sensazione di essere dentro ai fatti, perché le esplosioni erano fragorose e in balcone l’aria pizzicava di gas lacrimogeno. Mentre, con il distacco del turista, guardavo la violenza scorrere in TV, dentro di me provavo a tenere insieme quelle immagini di fuoco e fiamme e la placida preparazione dello scontro cui avevo assistito nel pomeriggio. Solo a quel punto ho avuto paura, perché ho toccato con mano la sostanza storica dei partiti albanesi.
Da dove viene la violenza
Con un’affluenza inferiore al 47%, quelle del 2017 sono state le elezioni politiche meno partecipate della storia dell’Albania democratica. Il PS di Rama ha raggiunto il 48%, garantendosi una maggioranza autonoma per governare, mentre il PD di Basha si è attestato al 28%, il risultato più basso di sempre. L’aggressività del PD deriva da questa impotenza: mentre le riforme imposte dall’Unione europea avanzano – prima fra tutte quella della giustizia, che mira a creare un sistema giudiziario indipendente dalla politica – il partito di Sali Berisha, che per anni ha distribuito lavoro e status sociale ai “suoi”, si trova lontano dal potere e senza alcuna garanzia di protezione.
L’altro grande escluso dal governo, l’LSI, sul finire della scorsa legislatura ha perlomeno ottenuto la Presidenza della Repubblica (grazie ai voti del PS che ora accusano di “mafia”); ma in questo contesto di progressiva eurointegrazione l’autosufficienza parlamentare di Rama rappresenta un problema per tutte le forze di opposizione: in mancanza di elezioni politiche imminenti e con sondaggi che danno il PS stabilmente avanti, chi ha scheletri nell’armadio e si trova fuori dall’ombrello del potere reclama a suon di petardi la sua porzione di sicurezza.
Dinanzi a una maggioranza che può fare a meno di loro, i leader di PD e LSI stanno provando a delegittimare il campo da gioco e minacciano di andarsene con il pallone. Si spiega così il ricorso all’estetica della violenza – il cui obiettivo principale è recare danno all’immagine internazionale del paese, cui Edi Rama ha lavorato più che al paese reale: lo dimostra il fatto che per rispondere alle manifestazioni di febbraio ha occupato tutti i canali italiani – e la decisione dei deputati PD e LSI di rassegnare le dimissioni e abbandonare il Parlamento. Sul momento le cancellerie europee hanno temuto di trovarsi con una democrazia albanese senza opposizione rappresentata, ma piano piano i candidati dei listoni bloccati che non erano risultati eletti sono subentrati ai dimissionari, in barba alle indicazioni dei loro segretari e in una sorta di paradossale “rivincita” della democrazia rappresentativa. Così, mentre Luzlim Basha aizza le sue truppe prezzolate prima del rito della violenza, in Parlamento il governo Rama ha un’opposizione di ripescati. Una “strategia” demenziale, che esclude il PD da qualsiasi interlocuzione internazionale e lascia Rama avvitarsi al potere, sempre più solo e senza concorrenti.
Cambiare analisi, cambiare i partiti albanesi
Il principale errore che commettiamo quando, da stranieri, scriviamo analisi sulla situazione politica albanese, consiste nel dare credito alle categorie della democrazia liberale, come se semplici fazioni in lotta, quand’anche collocate in un quadro costituzionale, fossero portatrici di culture o tradizioni politiche. Nato nei primi anni Novanta con la caduta del regime, il partito “democratico” non poteva chiamarsi altrimenti; lo stesso vale per il partito “socialista”, che “comunista” non poteva più dirsi e il cui rosso venne scurito in viola, senza che nessun elemento della socialdemocrazia ne penetrasse il pensiero (a parte Rama, quale altro leader del socialismo europeo si è mai vantato della debolezza dei sindacati nel proprio paese?).
Tinte, aggettivi e simbologie europee a parte, il problema democratico dell’Albania odierna è che i suoi partiti “storici”, i loro leader e i loro militanti non rappresentano diverse basi sociali – l’Albania è ancora troppo povera per averne –, non esprimono ricette alternative e non competono su alcun piano valoriale: rappresentano più semplicemente gruppi di persone, clientele – verrebbe da dire “famiglie” – che ciclicamente si sostituiscono nelle istituzioni dello Stato, nella pubblica amministrazione, nelle professioni, nei legami con chi governa ed elargisce appalti, in un paese dove all’indomani delle elezioni cambiano anche gli addetti delle pulizie nei ministeri. Non è un caso che le accuse che le due parti ciclicamente si scambiano siano pre-politiche: afferiscono alla legittimità del governo dell’altro, non sono mai nel merito di un problema a cui si darebbe diversa soluzione.
A quasi trent’anni dall’avvento del multipartitismo, i partiti albanesi faticano ad acquisire una sana funzione di rappresentanza – peraltro oggi in crisi in tutto il continente europeo –, ma quel che è più grave è che prestano le loro strutture a una contesa per il potere di stampo clientelare, per giunta ampiamente infiltrata da interessi criminali: chi ha seguito le sontuose campagne elettorali dei partiti albanesi non può fare a meno di chiedersi da dove vengano i fondi per finanziarle; così come non sappiamo dove il PD trovi il contante per motivare l’ala violenta dei suoi “manifestanti”.
Dire questo non significa sostenere che in Albania il consenso non sia (anche) mobile, o che la breve storia della democrazia albanese non abbia registrato progressi e alternanze: nel 2013 la coalizione assemblata da Rama ha posto fine all’era Berisha, e lo ha fatto con i voti di tanti cittadini albanesi liberi e pensanti. Quegli stessi cittadini che, seppur con meno entusiasmo e con più astensione, hanno conferito al PS una maggioranza ancora più schiacciante nel 2017. A fronte di un PD incapace di emanciparsi dal suo padre padrone, il grande demerito di Edi Rama è per l’appunto questo: non aver usato un consenso in buona parte “pulito” per uscire dalle logiche familistiche e dai legami malavitosi che attanagliano l’esile vita democratica del suo paese.
Nessuno può incolpare Rama per il passato – l’Albania è arrivata agli anni Novanta senza aver attraversato la democrazia liberale e senza aver fatto esperienza di un “autoctono” momento costituente – ma se PD e LSI non rinunciano all’idea di rientrare dalla finestra, utilizzando i “metodi di una volta”, questo è anche perché il PS che prometteva “rinascita” non si è posto il problema di cambiare il sistema ma di cavalcarlo. Davvero non si capisce con quale credibilità e con quali programmi questi partiti possano guidare i cittadini d’Albania in un futuro vivibile. Per compensare il vuoto, all’Unione europea non rimane che blindare il governo attuale. Nella speranza che un giorno sorga qualcosa di completamente nuovo.