A Yerevan, capitale dell'Armenia, proseguono le proteste scatenate da un aumento del prezzo dell'elettricità. Lo sgombero con la forza della via dove si sono concentrati i manifestanti, più volte minacciato, non è mai arrivato. Ma è alta la tensione
E' l’alba di un nuovo giorno a Yerevan, dopo ventiquattr’ore cariche di tensioni e di paura. L’attacco più volte annunciato dalla polizia non è arrivato, e così per il settimo giorno la centralissima via Baghramyan, cuore della protesta, risulta occupata dai manifestanti.
Dall’alto del suo monumento equestre, posto di fronte a quella che un tempo era sede delle riunioni del partito comunista ed oggi è l’università americana, il generale armeno Hovannes Baghramyan – eroe sovietico nella lotta contro i nazisti – può così ancora osservare la gioventù armena impegnata in una battaglia non meno difficile: quella contro i soprusi, la corruzione e la disuguaglianza che stanno strangolando il futuro della giovane repubblica caucasica, e in particolare delle nuove generazioni.
I pregressi
La protesta, nata in seguito all’annuncio fatto il 17 giugno di un ennesimo rincaro del prezzo dell’elettricità (del 16%, il terzo in due anni), ha dato origine a una protesta che in un primo momento si è concentrata in piazza della Libertà, di fronte al teatro dell’opera. Qui migliaia di manifestanti, perlopiù giovani e in larga maggioranza non affiliati ad alcun partito o organizzazione, hanno dato vita a un sit-in con l’intento di esercitare pressione sul governo e sulla compagnia privata che gestisce l’elettricità in Armenia. Data la mancanza di una risposta alle loro richieste, i dimostranti la mattina del 21 giugno hanno spostato la loro protesta nella già citata via Baghramyan, in prossimità della residenza del presidente armeno Serj Sargsyan.
Qui, alle luci dell’alba del 23 giugno, è avvenuto un primo tentativo da parte delle forze dell’ordine di porre fine alla protesta. In un'azione violenta con idranti, scudi e manganelli, e il dispiegamento di numerosi agenti in borghese dispersi fra la folla – vere e proprie squadracce di picchiatori – la polizia ha sgomberato la via, arrestando e subito rilasciando 237 persone, fra cui una decina di giornalisti. Ma la protesta non è finita lì, ed è anzi ripresa nelle ore seguenti con ancora più energia e vigore: troppe e troppo profonde, infatti, sono le radici dello scontento al cuore della società armena.
Sull'orlo del collasso
Il potere sempre più incontrastato del partito repubblicano, insieme all’isolamento geopolitico del paese e al perdurante conflitto del Nagorno-Karabakh, ha portato il paese in questi anni sull’orlo del collasso. Un’emergenza sociale ed economica solo in parte mitigata dalle rimesse degli armeni all’estero: uno dei tratti fondamentali del paesaggio urbano armeno è infatti la presenza, in ogni angolo del paese, di cambisti a cui molte persone si rivolgono ogni giorno – forti dei rubli, dei dollari o degli euro ricevuti dai parenti all’estero – per sbarcare il lunario. Ogni supermercato di Yerevan, e non solo, ne ha uno all’entrata, e le code che spesso vi si vedono rendono bene l’idea di come persino il pane, per questa gente, sia una meta difficile da raggiungere con i propri guadagni.
In questo panorama desolante e drammatico, vi è un sistema endemico di corruzione che si estende a tutti i livelli della società, e che trova il suo centro nel potere ottuso di un manipolo di famiglie, che la gente di qui chiama gli oligarchi. Ai livelli più bassi, in Armenia può servire una mazzetta per fare una visita in ospedale, ritirare un pacco in posta o ottenere un certificato di matrimonio dalle autorità. Quanto a quelli più alti, si tratta di veri e propri monopoli, o di segmenti interi dell’economia del paese che – con la complicità degli oligarchi armeni, di cui è celebre il potenziale di corruttibilità, relativamente a buon mercato – vengono svenduti all’estero.
È il caso dell’elettricità, che risulta essere di fatto in mano alla compagnia russa Inter RAO. Ed ecco allora che gli slogan di questi giorni (“Armenia libera e indipendente!”, “Siamo i padroni del nostro paese!”) trovano una ragione concreta e cogente.
Carota e bastone
Tornando alla cronaca della protesta, il governo, e indirettamente persino Mosca – evidentemente allarmata dall’eventualità di poter perdere o allentare l’egemonia sul paese – hanno fatto in queste ore alcune concessioni alla piazza. Da parte russa, nel breve giro di questi giorni di proteste, si è parlato di nuovi aiuti (un prestito di 200 milioni di dollari) e forniture di armi, e soprattutto dell’estradizione di Valerij Permjakov, il giovane soldato russo che a gennaio si era reso protagonista di una strage nella cittadina armena di Gyumri, che sarà ora affidato – dopo mesi di diniego – alla giustizia di Yerevan.
Il governo armeno, invece, in segno di buona volontà, ha proposto agli attivisti di sospendere, coprendolo con le finanze dello stato, l’aumento previsto del prezzo dell’elettricità fino a che non sarà effettuata una verifica della questione insieme alla compagnia russa. I manifestanti, dopo ore di riunione fra gli improvvisati vertici della protesta, hanno deciso di rifiutare quella che ritengono essere un proposta ingannevole: chi infatti se non i cittadini stessi, dato che si tratta dei soldi dello stato, dovrà sborsare il denaro?
Lo sgombero forzato della via più volte annunciato dalle forze dell’ordine non è arrivato, ma si è temuto e si continua a temere il peggio. Contemporaneo all’annuncio di Sargsyan era arrivato un primo ultimatum da parte della polizia, che intimava ai manifestanti di abbandonare via Baghramyan entro le undici di sabato 28 giugno. A questo primo ultimatum, ne era seguito un altro, accompagnato da minacce neanche troppo velate: sgombero della via in questione entro le sette e trenta di ieri sera. Le dichiarazioni del capo della polizia, rilasciate al sito di informazione News.am, non lasciavano spazio a molti dubbi. Facendo riferimento allo sgombero forzato del 23 giugno, Vladimir Gasparyan ha affermato: “Non abbiamo fatto ricorso alla forza, siamo stati molto indulgenti. Ancora non sapete cosa significa usare la forza”.
I dimostranti, nonostante i timori e le molte contraddizioni affiorate in queste ore, non si sono fatti intimidire e hanno mantenuto una presenza significativa in strada, cosa che ha evidentemente dissuaso le autorità e le forze dell’ordine – almeno per il momento – dal ricorrere al pugno di ferro.