“Non era un paese ideale, non lo è mai stato. Ma era un tentativo onesto e coraggioso. È fallito con clamore, ma avrebbe potuto durare”. Breve storia della Jugoslavia federale e socialista: uno stato tra mito, realtà e utopia nato 80 anni or sono
Oggi domina, nella nostra opinione pubblica, l’idea che siano legittimi e moralmente validi solo gli stati nazionali, ovvero le entità amministrative che si identificano con uno specifico e unico popolo. Ma non è sempre stato così. Storicamente gli stati si sono formati per mille ragioni differenti: alcuni hanno alla base una compattezza etnica, religiosa o linguistica, altri no. Efficacia, durata e consenso sono spesso slegati da questi fattori, o dalla forma dello stato, più o meno centralista o federalista. Sono le contingenze storiche che ne decretano il successo: pensiamo alla Svizzera o agli Stati Uniti, alla Cina, al Brasile, all’India; tutti esempi di stati multiculturali, multireligiosi, multinazionali, multilinguistici. Visto in questa prospettiva, il progetto politico che ha portato alla costituzione della Jugoslavia socialista e federale ottant’anni fa non era affatto destinato all’insuccesso. Il suo fallimento è dovuto a specifiche circostanze storiche, non era inscritto nella sua origine, come molti oggi sostengono.
Quella della Jugoslavia – fondata la prima volta nel 1918 e scomparsa nelle guerre degli anni Novanta - è in effetti una storia breve e tumultuosa. Essa coincide in pratica con la storia del Novecento, e ne rappresenta un sunto straordinario. Il nazionalismo, le due guerre mondiali, le grandi ideologie totalitarie, la guerra fredda e infine la crisi e l’implosione dei sistemi politici socialisti; tutti i fenomeni storici più rilevanti del Secolo Breve sono presenti in maniera talvolta macroscopica in questo territorio che si trova, non a caso, nel cuore dell’Europa. Ecco perché vale la pena di parlare, ancora oggi, di un paese che non esiste più da trent’anni, uno stato tra l’altro finito malamente, cancellato dalla storia con una guerra brutale che ha massacrato centinaia di migliaia di suoi cittadini.
Ma c’è di più. Se è vero che il territorio jugoslavo ha vissuto intensamente tutti i contrasti politici del secolo scorso, è altrettanto vero che la Jugoslavia socialista fondata da Tito rappresenta un unicum, una creazione originale e sofisticata, un modello politico mai realmente imitato da nessuno. Il che ha dato adito alla diffusione di miti potenti e contrastanti: dalla ferocia di un regime impopolare che si sarebbe retto sulla violenza contro i suoi cittadini (o contro singoli popoli a seconda delle versioni), alla nostalgia per una sorta di paese dei balocchi dove cittadini felici e spensierati godevano di ogni beneficio senza alcuno sforzo. Fare ordine e chiarezza in questo immaginario ampiamente consolidato da una parte e dall’altra non è affatto semplice, e non è certo nelle possibilità di questo breve articolo. Vale la pena però proporre alcune considerazioni storiche, che possono aiutare a chiarire il quadro e porre dubbi e interrogativi.
Innanzitutto la Jugoslavia di Tito viene ri-fondata, come paese federale e socialista, il 29 novembre 1943. Siamo nel mezzo della Seconda guerra mondiale, nel cuore di una guerra partigiana che i comunisti jugoslavi stanno guidando da due anni contro ogni sorta di nemici: dagli eserciti invasori (tra cui quello italiano) alle forze nazionaliste e collaborazioniste interne allo stesso spazio jugoslavo. Sono queste ultime, ustascia croati e cetnici serbi in particolare, che dimostrano nei fatti, proprio in quegli anni di guerra, come il proprio progetto politico nazionalista si possa realizzare solo mediante lo sterminio reciproco. Decine di migliaia di croati e slavo-musulmani e centinaia di migliaia di serbi vengono massacrati proprio per raggiungere tali obiettivi nel corso del conflitto.
È sulle macerie di quelle carneficine che il progetto politico di Tito trae vigore e forma. La proposta dei partigiani si concretizza con la Seconda conferenza di Jajce (in Bosnia), quando la maggior parte del territorio è ancora sottoposto a occupazione militare straniera. Essa gode oggettivamente di un grande consenso, in parte grazie alla vittoria militare delle forze alleate e dunque dei partigiani, ma anche per la promessa di convivenza pacifica fra i popoli jugoslavi mediante un sistema politico federale. È la proposta di riunificazione jugoslava e il riconoscimento politico delle diverse identità presenti in quello spazio territoriale a suscitare l’entusiasmo popolare; anche se non va sottovalutato il ruolo dell’idea socialista, percepita come un modello di emancipazione e progresso, certamente accolta con entusiasmo dalla parte più povera e svantaggiata della popolazione: dai contadini agli operai, dalle donne ai giovani.
La realizzazione che ne segue non combacia con i sogni e le speranze di tutti, come è ovvio. La Jugoslavia dei primi due decenni del dopoguerra è un paese irto di contraddizioni: il socialismo si impone inizialmente adottando il modello sovietico, nella repressione come nelle radicali riforme economiche. Tutto ciò mentre Tito prende le distanze proprio dall’Unione sovietica, fino alla clamorosa rottura del 1948. Seguono anni confusi, in cui la Jugoslavia trova il modo di mantenere la propria autonomia grazie a una serie di circostanze: l’appoggio economico e diplomatico statunitense nella logica della crociata anti-sovietica; la dura repressione interna contro i possibili oppositori, quasi tutti all’interno delle file del partito; la progressiva risoluzione delle tensioni internazionali con la fine della guerra civile in Grecia e l’accordo confinario con l’Italia.
La Jugoslavia del mito, quella che piace ai nostalgici, è però quella dei due decenni successivi. Gli anni ‘60 e ‘70 sono quelli della pacificazione interna, della crescita economica e delle utopiche realizzazioni del regime. Riforme economiche e sociali, liberalismo culturale e artistico producono un benessere diffuso e un consenso di massa. Scuola e sanità gratuite, lavoro e opportunità per tutti si accompagnano a un’urbanizzazione accelerata e una crescita dei consumi, favorita anche dalla apertura delle frontiere con oriente e occidente. Città sempre più cosmopolite come Belgrado e Sarajevo, ma anche Fiume, Skopje, Mostar diventano centri culturali e artistici di prim’ordine, che producono grandi personalità come Emir Kusturica, Goran Bregović, Bogdan Bogdanović, Marina Abramović e tanti altri.
La libertà artistica non è accompagnata però da quella politica e mentre la società evolve, il sistema si burocratizza e il regime tende a sclerotizzarsi con l’invecchiamento della sua leadership. E così anche le proposte più visionarie di quegli anni perdono vigore e faticano a concretizzarsi. Parlo del modello politico-economico dell’Autogestione, con le sue contraddizioni e la sua complessa realizzazione; ma ancora di più del movimento dei Non Allineati. Nata nel 1961 per impulso del governo jugoslavo, l’alleanza internazionale fra stati (come India, Egitto, Indonesia, e molti altri piccoli paesi in via di sviluppo) che non intendono piegarsi alla contrapposizione fra i due blocchi filosovietico e filostatunitense, può considerarsi un’occasione persa. Ma anche una straordinaria proposta di diplomazia alternativa, in un’epoca in cui le alternative parevano non esserci affatto.
In quegli stessi anni il sistema politico federalista diventa progressivamente più radicale, fino all’approvazione della costituzione del 1974, tanto voluta dal vice di Tito, lo sloveno Kardelj, che prevedeva perfino la secessione delle singole repubbliche. In quegli anni la Jugoslavia sembra davvero somigliare a un mondo cosmopolita ideale, dove convivono pacificamente, e anzi arricchendosi a vicenda, identità culturali e religiose diverse, ma anche modernità e tradizione, progresso sociale e cultura arcaica. In nuce già si delineano gli scenari della crisi e poi della guerra degli anni Novanta: i contrasti tra vecchio e nuovo mondo, fra etnonazionalismo e multiculturalità, entrano in scena da protagonisti con la definitiva crisi del sistema, dopo il crollo dei regimi comunisti e la caduta in disgrazia del loro modello politico.
Il resto è storia nota, fatta di violenza, dolore e morte. Esattamente quattro anni dopo la caduta del muro di Berlino e quasi cinquanta dopo la fondazione dello stato, il 9 novembre 1993 cadeva sotto i colpi dell’artiglieria croata il ponte di Mostar, simbolo di storia e cultura, ma anche di tolleranza culturale e benessere economico.
Cosa resta oggi di quella Jugoslavia andata in pezzi così repentinamente, quale insegnamento ci ha lasciato o ci può offrire ancora quella storia unica e al tempo stesso così esemplare?
Il modello politico proposto dai socialisti jugoslavi è in qualche modo agli antipodi di quello prevalente oggi, da un punto di vista economico, politico e sociale. E tuttavia può essere anche considerato una sorta di esempio di come potrebbe strutturarsi una comunità di popoli in un territorio, come quello europeo, pieno di storia e di dolore, ma anche di ricchezza e cultura. La convivenza tra popoli e religioni diverse, non solo è possibile, ma è necessaria, ci insegna la vicenda jugoslava. Una storia di odio e violenza si può trasformare in opportunità di pacificazione e benessere, se le classi dirigenti perseguono il benessere di tutti i cittadini e i popoli ne comprendono gli scopi. Infine: sognare un mondo diverso, lasciarsi guidare dall’utopia, non è sempre sbagliato: il sogno a volte aiuta a vivere meglio e se i risultati non coincidono con l’obiettivo, non per questo vanno rigettati in toto. Ovviamente la storia della Jugoslavia ci mostra anche gli errori da non fare.
Il sottile equilibrio fra radicalità degli intenti e realtà concreta è spesso difficile da raggiungere; la repressione violenta può apparire talvolta necessaria, ma porta sempre con sé conseguenze funeste; i rivolgimenti politici radicali producono la creazione di una nuova classe dirigente che spesso finisce per essere ottusamente attaccata al potere quanto quella precedentemente abbattuta.
La Jugoslavia nata in quelle ore tempestose per tutta l’Europa, il 29 novembre 1943, è finita da trent’anni. Ma il suo esempio non cessa di essere d’ispirazione e di monito, a chi lo vuol guardare con occhi privi di pregiudizi ideologici. Non era un paese ideale, non lo è mai stato. Ma era un tentativo onesto e coraggioso. È fallito con clamore, ma avrebbe potuto durare. E oggi noi parleremmo di un’altra storia. E di un’altra Europa.