Macedonia (Thomas Maluck/flickr)

Macedonia (Thomas Maluck/flickr)

In un libro da poco tradotto in italiano lo slavista Andrew Baruch Wachtel racconta la progressiva fine dei Balcani

11/07/2016 -  Vittorio Filippi

C’erano una volta i Balcani: proprio come nell’incipit delle fiabe. C’erano, perché oggi non ci sono più. Scomparsi e sostituiti dall’Europa sudorientale, un'espressione puramente geografica, quindi asciutta, asettica, priva di pathos. Questa, in sintesi, la tesi dell’autore, slavista alla Northwestern University nell’Illinois.

I Balcani sono tradizionalmente terre difficili da definire e soprattutto da capire. Troppo complessa la sovrapposizione storica lì avvenuta tra quattro delle più grandi civiltà del mondo: quella greco-romana, quella bizantina, quella ottomana e quella dell’Europa occidentale cattolica. In cui le varie dominazioni che si sono succedute – romana, bizantina, veneziana, ottomana, asburgica – furono sempre contrassegnate da elevati gradi di multietnicità e di multiculturalismo.

Qui le civiltà si sono incontrate, scontrate, qualche volta fuse, ma mai nessuna è riuscita ad imporsi completamente sulle altre. Il risultato è un mélange unico (una “unicità plurima”) che soprattutto in Bosnia – l’area in assoluto più balcanica dei Balcani – Ivo Andrić ben descrive in alcuni passaggi de La cronaca di Travnik. Mentre gli chef francesi, per nominare un’insalata mista di frutta, ricorreranno ad un nome geografico dei Balcani che entrerà nei menù semplicemente come Macedonia.

I Balcani – questi Balcani – inizieranno a cambiare e ad assumere lo stereotipo di terre malevole e rissose quando a cavallo tra Sette ed Ottocento piccole ma aggressive élite educate all’europea inizieranno ad introdurre le idee occidentali di nazione e di Stato-nazione. Questi intellettuali, sostenuti dalle potenze europee (Francia, Austria, Russia, Prussia, Gran Bretagna) approfittarono dell’indebolimento ottomano per proporre romanticamente nazioni intese come gruppi etnicamente puri ed omogenei per lingua, cultura, religione. Il modello fu la Germania, in cui si alimentava una coscienza nazionale prima di avere uno stato unificato. E, sempre sul modello tedesco, la definizione primaria di nazione fu linguistica (è la tesi di Johann Gottfried Herder): ne fu ben cosciente Vuk Karadžić nel pubblicare la prima grammatica serba nel 1814 ed un dizionario quattro anni dopo.

Solo che voler incastrare queste geometriche ideologie nazionali-nazionalistiche nel mosaico aggrovigliato dei Balcani significò avvelenare l’area per tutto l’Ottocento ed il Novecento con guerre, massacri e separazioni violente. Naturalmente, non essendoci un gruppo nazionale tanto forte da riuscire ad eliminare l’eterogeneità da solo, ognuno tendeva a chiedere aiuto alle potenze straniere, le quali intervenivano secondo (ovviamente) logiche proprie. Così dopo la Seconda guerra mondiale quasi tutti gli stati balcanici erano ormai divenuti monoetnici, perdendo di conseguenza le specificità veramente “balcaniche”.

L’ultimo stato a rimanere “panbalcanico” fu la Jugoslavia titoista, ma alla fine anche il suo difficilissimo equilibrismo interno (tra repubbliche e federazione) ed estero (tra capitalismo occidentale e comunismo sovietico) si esaurì, com’è noto, nel 1991. Dalla sua utopistica visione di una “terza via” autogestionaria e della bratstvo i jedinstvo sorsero, per reazione violenta, ben sette Stati piccoli ma (più o meno) tutti oggi etnicamente puri. E si capisce anche perché l’acme del conflitto si raggiunse in Bosnia.

Le guerre jugoslave degli anni Novanta, che rinfocolarono ampiamente lo stereotipo “balcanoclastico” di queste terre come luoghi di odi atavici e di sopraffazioni, in realtà hanno significato la fine definitiva di quei Balcani che per secoli sono stati lo spazio multinazionale delle ibridazioni e dei sincretismi culturali. Come conclude l’autore, “i Balcani come erano intesi dalla fine del XVIII secolo in poi esisteranno solo come un ricordo conservato nelle testimonianze storiche, artistiche e linguistiche e tramandato in molti rituali della vita quotidiana. Un giorno, forse, quando il termine ‘balcanizzazione’ sarà usato per descrivere eventi in qualche altra parte del mondo, dovrà essere spiegato agli abitanti di quell’area che è sempre più conosciuta come Sud-est europeo”.