A volte ritornano. E lui ritorna sempre. In libreria l'ennesima biografia dedicata a Jozip Broz Tito
A 36 anni dalla sua morte, Tito continua a ripresentarsi, un po’ come nel surreale film del croato Vinko Brešan Maršal (Marshal Tito's Spirit). Si ripresenta nel lavoro degli storici ovviamente, ma anche nei sentimenti di chi visceralmente lo detesta e lo aborrisce o di chi viceversa lo glorifica e lo rimpiange.
"Tito. Una biografia" è l'opera di Geoffrey Swain, uno storico dell’Università di Glasgow, la cui tesi è tutto sommato semplice. Per Swain, molto lapalissianamente, “Tito ebbe ragione fino al momento in cui cominciò a sbagliare”.
Il punto di rottura del sistema fu il 1968, quando l’esperimento autogestionario arrivò al bivio: il 9 giugno Tito, in un discorso televisivo, darà ragione agli studenti ed agli operai in agitazione e “chiuderà” con molte promesse il loro effimero ’68. Ma in realtà in quell’anno “impedendo all’autogestione operaia di muoversi verso quella che, lo vedeva bene, sarebbe stata una soluzione sindacale, Tito lasciò che il potere si spostasse nelle mani delle élites della Repubblica, riaccendendo le passioni nazionalistiche”.
Inoltre chiuse anche con l’esperienza neomarxista di Praxis reprimendone dialettica ed utopia. Da quell’anno insomma tra “gli ideali e la realtà” in Jugoslavia - per citare il noto lavoro del filosofo prassista Svetozar Stojanović - si aprirà uno spazio via via crescente ed incolmabile. Come dirà quest’ultimo, “tutte le questioni politiche par excellence sono monopolizzate dalle organizzazioni politiche esistenti, cioè dalle loro dirigenze. L’autogestione, pertanto, è rigorosamente relegata al regno della necessità”. Tito – conclude Swain – “non volle ammettere che l’ultimo nemico di classe era disarmato e che era venuto il momento di mettere fine alla dittatura. Invece cercò di affrontare la crisi del paese con una soluzione burocratica, anziché democratica”. Era ciò che aveva previsto “l’eretico” Djilas.
Ma al di là del lavoro degli storici Tito vive ancora nelle memorie e nelle passioni personali. In forme critiche o agiografiche, come s’è detto. Però la memoria è sempre importante nella costruzione sociale della cittadinanza post-socialista e non a caso il Museo di storia jugoslava di Belgrado ha organizzato questo fine settembre una due giorni di riflessione di livello internazionale (Nostalgia on the move) in cui Tito e la cosiddetta titostalgia sono stati elementi importanti ed ineludibili del convegno e del dibattito.
“Dopo Tito, Tito”, si diceva nella Jugoslavia degli anni Ottanta per esorcizzare la paura della scomparsa dello Stari e per rassicurare circa la continuità statuale. Una continuità impossibile, come sappiamo. Ma, in un certo senso, Tito continua a fare capolino: nel lavoro storiografico come nelle memorie collettive. Troppo “unico” per avere un seguito durevole, ma anche troppo “unico” per scomparire senza tracce nell’oblio.