Si è tenuto ieri a Sarajevo il funerale di Jovan Divjak. Se non ci fosse stato il Covid-19, sarebbe stato un moltiplicarsi di abbracci. Un ricordo
(Uscito originariamente su Il Manifesto il 14 aprile 2021)
Come sarebbero stati i funerali di Jovan Divjak senza il Covid-19 a Sarajevo? Le strette di mano e gli abbracci ricevuti negli anni, passeggiando per le vie del centro, si sarebbero moltiplicati. Ci sarebbe stata una folla ancora più grande, triste, ma orgogliosa di onorare il cittadino più amato. Nessuno come lui.
La folla c’è stata e le regole sono state rispettate. Niente abbracci e lacrime, soffocate dalla compostezza che distingue i cittadini di Sarajevo nel dolore.
Un collegamento virtuale ha permesso di ritrovarsi agli amici che Jovan aveva in tutto il “mondo-ex”, per dirla con le parole di Predrag Matvejević.
Jovan si è scritto la sceneggiatura finale e il commiato da leggere. Generale anche dopo morto. Ha scelto la tomba nel cimitero che voleva lui. Non quello degli eroi, dove riposano il presidente Alija Izetbegović e “Caco” (l’assassino di Moreno Locatelli), ma quello storico di Bare dove sono sepolti artisti come Kemal Monteno (autore di “Sarajevo Ljubavi moja” il titolo che aveva scelto per il suo libro di memorie: “Sarajevo mon amour”) o Anur Hadžiomerspahić, geniale artista visivo.
Nessuna autorità ha aperto bocca, e la colonna sonora dell’uscita di scena è stata un’affermazione d’identità e uno schiaffo all’establishment: “Bella Ciao!”, cantata in italiano da Damir Imamović, obiettore di coscienza e figlio di Zaim, uno degli storici cantanti di sevdalinke bosniaci.
Eppure Divjak, il generale che da ragazzo voleva fare l’educatore, prima di entrare in accademia, ha avuto tanti nemici. Quelli che hanno assediato la sua città d’adozione e gli sparavano dalle colline, ma anche quelli che, pur combattendo dalla parte degli assediati, condividevano la cultura etno-nazionalista degli aggressori. E’ stato l’amore e il rispetto della sua gente a proteggerlo.
In una parte di mondo dove il rapporto tra le diversità è storicamente costitutivo della bellezza del cielo e della terra, il sovranismo che esclude porta con sé distruzione e morte. Hanno cercato di giustificarsi tirando la storia, come fosse una coperta stretta, ma il tessuto si è strappato. Non si disegna un confine inventato senza violenza. Più forti sono i legami, più profondo devi scavare il solco, per sostituire alla memoria buona un rancore duraturo.
La prima fu Vukovar, poi Mostar, Sarajevo e Srebrenica, passando per decine di altri luoghi. In quattro anni in Bosnia sono morte 97.000 persone (130.000 in tutte le guerre “ex-jugoslave”) più i mai ritrovati.
Jovan Divjak ha combattuto dalla parte di Sarajevo. Per istinto e seguendo le idee di “fratellanza e unità” che erano alla base della sua formazione. Tra le città jugoslave, Sarajevo lo era particolarmente, e lui è stato sempre contrario ai nazionalismi che hanno distrutto la federazione.
Descriverlo come “il generale serbo che ha difeso Sarajevo” è riduttivo. Ricordo le sue parole: “Sono nato a Belgrado quando era la capitale della Jugoslavia, ora sono un bosniaco di tradizione ortodossa”. “I nostri soldati erano male armati, ma forti perché difendevano la famiglia, la casa, le strade, non un’ideologia o una religione”. “Loro avevano l’artiglieria pesante, ma noi eravamo Sarajevo.” “Molti bosniaci di religione ortodossa sono rimasti a difendere la città di tutti”.
Se però i difensori della città qualche arma in più l’ebbero al momento giusto, il merito fu suo che, da colonnello delle Unità di Difesa Territoriale Bosniaca (un corpo di riservisti pensato in caso d’invasione di un nemico esterno), riuscì a trasferire le armi anticarro e leggere in sua dotazione in città, prima della precipitazione degli eventi il 6 aprile 1992.
Pochi mesi dopo fu chiamato a co-dirigere la difesa della città, secondo un modello “multietnico”, insieme a un generale bosgnacco (bosniaco-musulmano, inteso come nazionalità) e uno croato bosniaco. Riuscirono a impedire che la capitale e i centri del potere fossero conquistati dai carri armati federali già presenti intorno alla città “per un’esercitazione”. Furono giorni decisivi.
Quattro anni di guerra, ma le battaglie fondamentali per spartire il paese e costruire la continuità territoriale dei nuovi stati “etnici” si sono combattute nei primi mesi, seguendo un piano preciso. Poi c’è stata resistenza, pulizia etnica, accordi per aggiustamenti territoriali e un genocidio.
I testimoni raccontano quanto Jovan Divjak fosse vicino alle truppe, del coraggio, delle risposte ironiche (tipiche di un sarajevese) agli insulti degli ufficiali che comandavano l’esercito assediante. Ma anche del rigore contro i crimini commessi dalla parte degli assediati verso i cittadini non bosgnacchi di Sarajevo. Un atteggiamento condiviso con un altro giusto di Bosnia: il sindaco di Tuzla Selim Beslagić. Non è casuale che entrambi siano stati accusati di crimini di guerra da parte di chi i crimini li ha commessi davvero.
Alla commemorazione nel Teatro Nazionale, Denis Tanović, il regista di “No man’s land”, ha ricordato il loro incontro in prima linea, sottolineando come Jovan Divjak abbia lasciato l’esercito per dedicarsi “alla costruzione di un suo esercito di più di settemila bambini”. Sono i beneficiari dell’associazione “l’Educazione Costruisce la Bosnia Erzegovina”, fondata a guerra in corso, per aiutare gli orfani e proseguita nel supporto alla formazione dei giovani. Gli ultimi trent’anni Jovan li ha dedicati a loro, dimostrando che i sogni di gioventù, a volte, possono realizzarsi.