Gregge di pecore pascola

Panorama in Bosnia Erzegovina (© Veronika Kovalenko/Shutterstock)

Una riflessione dettata dalla recente morte di Momčilo Krajišnik, alto funzionario della Republika Srpska e criminale di guerra condannato dal Tribunale dell’Aja

18/09/2020 -  Ahmed Burić Sarajevo

Questa è l’era delle notizie lente, posticipate. Ogni cosa che accade sembra avere un’ulteriore patina di vacuità, in un paese in cui la già cattiva infinità del quotidiano è stata esacerbata dalla pandemia che si è portata via diverse persone: da quelle che abbiamo stimato e amato ai criminali di guerra condannati.

La notizia della morte di Momčilo Krajišnik, il primo presidente dell’assemblea parlamentare e uno dei più alti funzionari della Republika Srpska, ha fatto, per un giorno, grande scalpore. Una notizia di cui però già domani pochi si ricorderanno. A parte, forse, quelli a cui Krajišnik ha reso un favore con le sue azioni e il suo lascito politico. Ma quante sono queste persone? Sono tutti i serbo-bosniaci, o solo i seguaci dell’ideologia della Grande Serbia? O sono quei pochi che siedono ai vertici di quelle creazioni infelici che sono la Republika Srpska e la Bosnia Erzegovina post-Dayton? La risposta a questa domanda non è per nulla facile e si muove tra alcuni concetti che nei Balcani sono estremamente flessibili, come etica umana, crimini di massa e risultati politici.

La storia di Momčilo Krajišnik appare come una tipica storia di un funzionario socialista, accusato di reati economici, che aveva sostituito il socialismo col nazionalismo: senza farsi troppi dilemmi, aveva seguito Radovan Karadžić e Ratko Mladić, dando l’impressione di un tecnocrate che era lì “solo per lavoro”, un uomo che sbrigava le procedure senza mai porsi interrogativi sulle conseguenze delle proprie azioni. Che sfociarono nel genocidio di Srebrenica.

Da questo punto di vista, la storia di Krajišnik è chiara: venne arrestato nel 2000 in un’operazione delle forze speciali francesi a Pale, centro da dove partivano gli attacchi su Sarajevo; poi fu portato all’Aja, dove nel 2009 fu condannato a 20 anni di carcere; venne rilasciato nel 2013 dopo aver scontato due terzi della pena. Dopo l’uscita dal carcere, ha pubblicamente difeso le azioni politiche compiute in passato, mentre in alcuni messaggi privati e in alcune apparizioni pubbliche “innocue” ha affermato di essere favorevole a una forma di riconciliazione.

L’astuzia contadina unita all’ipocrisia politica: così potrebbe essere sintetizzata “la filosofia politica” di Krajišnik. Fu proprio lui a pronunciare una delle affermazioni più colorite degli anni Novanta, dopo la firma degli Accordi di Dayton. Karadžić ormai era costretto a ritirarsi dalla vita pubblica e a nascondersi, protetto dai servizi segreti serbi, e Krajišnik fu “colui” che assunse il ruolo di interprete della quotidianità politica. Ospite di una trasmissione televisiva, alla domanda della conduttrice: “Allora, presidente, che cosa avete firmato esattamente a Dayton?”, Krajišnik rispose in modo superficiale e pungente: “Beh, alcuni dettagli di quell’accordo non risultano chiari nemmeno a me, ma una cosa le posso dire con certezza – di chi sono le pecore, è sua anche la montagna”.

Per chi conosce la mentalità balcanica è chiaro che si tratta di saggezza contadina, una di quelle affermazioni di cui non si è mai sicuri se sia stata pronunciata in buona fede o per trarre in inganno l’interlocutore. Tuttavia, Krajišnik aveva colto l’essenza di ciò che è diventato un luogo comune: il riconoscimento della Republika Srpska fu, in realtà, una legittimazione di quel territorio che fu sottratto, perpetrando crimini, alla Repubblica socialista di Bosnia Erzegovina, una delle sei repubbliche dell’ex Jugoslavia. Così, un territorio quasi etnicamente pulito, dove rimasero a vivere perlopiù serbi (le pecore di cui parlava Krajišnik), divenne una “Repubblica”. E questo aveva fornito un solido pretesto agli ideologi del progetto della Grande Serbia che considerano la Republika Srpska come “un altro stato serbo” che, prima o poi, “si unirà alla madrepatria”. Parlando delle pecore che pascolano sulla montagna, Krajišnik in realtà si riferiva al proprio lavoro, che svolgeva con più o meno successo.

Le immagini dell’arresto di Krajišnik, avvenuto nella casa dei suoi genitori a Pale, con gli agenti francesi che velocemente fanno sedere i due anziani sul letto, e poi arrestano Krajišnik in pigiama a righe con una Colt 45 in mano, assomigliano a una di quelle scene tragicomiche che riflettono tutto lo squallore, la miseria e lo humor nero che caratterizzano i Balcani. “Stava nascosto dietro la tenda, nell’ombra, l’avevo riconosciuto dalle sopracciglia”, dichiarò il comandante dell’unità speciale che portò a termine l’arresto. Krajišnik, che aveva sopracciglia folte e scure che si toccavano, si faceva notare da lontano. Tuttavia, pur essendo stato praticamente la terza figura più importante dell’establishment militare dei serbo-bosniaci, evidentemente non aveva suscitato così tanto interesse dei servizi segreti serbi da spingerli a nasconderlo o eventualmente proteggerlo, come hanno fatto con Karadžić e Mladić.

No, lo hanno lasciato lì da dove era partito, dove due volte al giorno dava da mangiare al bestiame. Una manifestazione concreta di quella metafora sulle pecore. E “la montagna”, cioè quell’idea politica in cui Krajišnik aveva investito tutte le sue energie, vive ancora come monumento all’“emancipazione” nazionale. Un’idea che respinge la possibilità che due popoli possano vivere uno accanto all’altro.

A 28 anni dall’inizio della guerra, la Bosnia Erzegovina vive una realtà in gran parte costituita dai lasciti dei criminali di guerra. Il Covid-19 si è portato via un criminale di guerra, ma la sua “filosofia” continuerà a vivere. Nelle pecore e nella montagna, e nel mancato rispetto del principio di laicità. Un principio che l’Unione europea ha ribadito più volte, ma in realtà non ha mai fatto nulla per evitare che le pecore che Krajišnik tosava e cibava diventassero una garanzia che la sua “opera” avrebbe continuato a vivere. Ricordandoci l’unica costante della nostra epoca: è ancora il tempo dei criminali.