© Semir Sakic/Shutterstock

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Le storie dei primi tre decessi a Sarajevo per coronavirus sono agghiaccianti. E gettano un'ombra sulla capacità del paese di rispondere all'emergenza e sulle gravi responsabilità della politica locale

20/04/2020 -  Azra Nuhefendić

"Abbiamo la migliore situazione nella regione", ha dichiarato il capo della protezione civile del Cantone di Sarajevo, Nihada Glamoć, riferendosi all’epidemia coronavirus.

Sebija Izetbegović, dal 2016 direttrice generale del Centro Clinico dell’Università di Sarajevo (KCUS), dal canto suo meno di un mese fa aveva rassicurato i cittadini tramite tabelloni posti lungo le vie di Sarajevo con frasi quali: "Siamo coraggiosi e lotteremo per ogni vita come se fosse la nostra".

I vertici della sanità a Sarajevo, durante una conferenza stampa, si erano vantati perché l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) aveva lodato i preparativi della BiH per affrontare l’epidemia di coronavirus.

Oltre le dichiarazioni

Ma la gente ha paura. Non tanto del COVID19, quanto del sistema sanitario della Bosnia Erzegovina che già dopo i primi contagiati e morti di coronavirus ha mostrato incapacità e disorganizzazione, tanto che, secondo le parole di Dragan Đokanović , noto pediatra, "le strutture sanitarie si sono dimostrate quasi ostili verso i pazienti".

Il primo decesso per coronavirus si è verificato nella città di Bihać, nella Bosnia nord-occidentale il 20 marzo scorso. A perdere la vita un uomo di 60 anni. La notizia non ha fatto neanche tanto scalpore a Sarajevo, come se si trattasse di qualcosa di distante dalla capitale. Alla domanda perché il paziente non fosse stato ricoverato in terapia intensiva a Sarajevo, come richiesto dai medici di Bihać - l’ospedale locale pare non fosse attrezzato per questa situazione - il Centro Clinico dell’Università di Sarajevo ha risposto in maniera secca e burocratica: “Nessuno ci ha mandato la richiesta per il ricovero in forma scritta”. Le telefonate da parte dei medici di Bihać non sono state quindi sufficienti e neanche la situazione critica del paziente, morto dopo un paio di giorni dal ricovero.

Il vero allarme l’hanno scatenato però i tre casi successivi, i tre pazienti di Sarajevo, tutti e tre morti dopo gli stessi identici e inutili sforzi per farsi curare dall’ospedale.

A Sarajevo prima è morta la signora Advija Kanlić di 52 anni, poi Sejfudin Gogić, un uomo di 61 anni, e infine un medico, Šefik Pasagić, di 60 anni, epidemiologo lui stesso. Era membro dell’Organizzazione mondiale della sanità per l’Europa sud-orientale e membro della Camera di epidemiologia degli Stati Uniti d’America e della Bosnia Erzegovina. Tutti e tre senza malattie pregresse, avevano cercato per giorni di farsi visitare da un medico ed eventualmente ricoverare in ospedale. "Alla fine sono morti non come vittime di coronavirus ma come vittime del sistema sanitario bosniaco", denuncia Elna, la moglie di Šefik Pasagić .

Tutte e tre le vittime, dopo aver avuto per giorni i chiari sintomi dell’infezione, ovvero febbre, tosse, stanchezza e dolori muscolari, avevano seguito la procedura resa nota dalle autorità sanitarie, senza mai riuscire a farsi visitare da un medico.

Come ha notato il giornalista del settimanale Slobodna Bosna, Senad Avdić, "il paziente per passare dalla propria abitazione all’ospedale deve muoversi per un labirinto burocratico-amministrativo insuperabile e spesso mortale".

37 telefonate

Dragan Stevanović, noto medico internista in pensione, che è stato tra i primi a rispondere all’appello di rientrare in servizio per aiutare nell’emergenza provocata dall’epidemia, ha voluto fare una prova.

Facendo finta di essere un paziente infetto , ha voluto verificare di persona come e se funziona la procedura prevista da applicare ad una persona che sospetta di essere malata. Non sono bastate 37 telefonate tra ambulatori vari, pronto soccorso e protezione civile, senza riuscire a raggiungere un medico, tanto meno l’ospedale.

Dopo che ne ha parlato in TV, Dragan Stevanović è stato invitato ad interrompere la sua collaborazione volontaria.

Il racconto dei familiari delle vittime

Le storie delle prime tre vittime dell’epidemia di coronavirus in BiH, raccontate nei dettagli dai familiari, sono agghiaccianti. Gli ambulatori uno dopo l’altro rifiutavano di mandare i medici a casa, dicendo che i sintomi non erano gravi, che il quadro clinico - raccontato per telefono - non era preoccupante, che non avevano i dispositivi protettivi, o nel caso della signora, secondo i medici, mancava l’indicatore più importante: nessun contatto con l'Italia.

Ai familiari dell’ammalato consigliavano di chiamare il pronto soccorso, mentre il pronto soccorso diceva loro di telefonare all’ambulatorio, o al dipartimento epidemiologico.

A nessuno dei tre pazienti è stato fatto il tampone per accertarsi se erano positivi al coronavirus. Ai primi due deceduti il tampone è stato fatto post mortem, Šefik Pasagić, invece, si era fatto controllare in un ambulatorio privato.

I familiari della signora Advija avevano insistito per giorni al telefono che c’era bisogno di intervenire, e solo dopo le suppliche della figlia, dall’ambulatorio hanno fatto mandare l’ambulanza, con il solo autista. La figlia aveva dovuto trascinare la madre, ormai morente, per le scale (non essendoci l’ascensore) aiutata da un vicino.

Alla moglie del dottor Pasagić i medici dell’ambulatorio, per telefono, avevano suggerito di dare al malato da mangiare spinaci e barbabietola perché era anemico. Dopo due settimane di febbre Šefik Pasagić, è stato l’unico dei tre pazienti ad essere accettato nell’ospedale KCUS, ma è stato lasciato diverse ore in corridoio prima di essere sistemato in una stanza. Secondo la moglie Elna, nonostante la sua situazione fosse grave, è stato intubato solo un’ora prima del decesso.

La politica

Tra la gente, sbalordita per la morte del dottor Šefik Pasagić, tanti hanno pensato: “Se si sono comportati in questo modo con un medico che per tutta la sua vita aveva lavorato nell’ambito della prevenzione delle malattie infettive… cosa può aspettarsi un cittadino qualsiasi?”.

Il ministro della Salute, Vjekoslav Mandić, ha detto di non sapere chi sia il responsabile di quanto accaduto mentre per i vertici del Centro Clinico dell’Università di Sarajevo le istituzioni si sono comportate secondo il protocollo e "il dottor Šefik Pasagić è stato trattato con estrema cura e professionalità".

La procura del Cantone di Sarajevo ha aperto tre fascicoli per i tre casi, ma in Bosnia Erzegovina nessuno si illude che qualcuno risponderà per gli eventuali errori commessi. Perché spesso per sbagli, anche fatali, i colpevoli non rispondono al pubblico o alla procura, ma al partito politico, al quale è sottoposta anche la procura.

Quando è stato chiaro che era una questione di tempo, che l’epidemia di coronavirus sarebbe arrivata in Bosnia, le autorità politico-sanitarie del paese non hanno mostrato tanta fretta né preoccupazione per prepararsi.

Molti professionisti del settore sanitario credono che sia stato perso almeno un mese, se non di più, per organizzarsi. Le misure restrittive sono state applicate troppo tardi, le strutture necessarie sono state allestite all’ultimo momento e il materiale sanitario, come tamponi e ventilatori, è stato procurato in extremis e in quantità insufficiente.

Il primo caso di malato di coronavirus in BiH si era verificato già il 5 febbraio (secondo l’OMS), e nonostante ciò per tutto il mese di marzo non si era fatto nulla di serio per prepararsi ad affrontare l’epidemia.

L’8 marzo si festeggiava alla grande, ci si riuniva numerosi, si viaggiava. Nella città di Konjic, 50 km da Sarajevo, l’11 marzo oltre 200 persone, compreso il primo ministro della Federazione, si erano incontrate per una celebrazione. Pochi giorni dopo, tra i partecipanti erano comparsi i primi contagiati, alcuni poi ricoverati e morti.

La vicepresidente della protezione civile, Jelka Milićević, membro del partito dei croato-bosniaci HDZ, è stata accusata di aver cercato di bloccare una spedizione di 150mila tamponi, destinati a Sarajevo, e di dirottarla in Croazia o in Erzegovina, dove la maggioranza dei cittadini è di nazionalità croata. Solo grazie all’intervento di alcuni ambasciatori stranieri in BiH, il blocco è stato impedito, ma il materiale sanitario ordinato non è ancora arrivato in BiH e non si sa tuttora, di quanti tamponi si dispone.

Le responsabilità di Sebija Izetbegović

“Le morti dei nostri connazionali hanno mostrano chiaramente a cosa portano il politicismo e l’incompetenza nell’organizzazione sanitaria”, ha dichiarato Dragan Đokanović . Lui, e non è l'unico, vede in Sebija Izetbegović che, oltre ad essere la direttrice del più grande e importante ospedale nel Cantone di Sarajevo, è anche la moglie del presidente del partito SDA - tra i tre principali partiti bosniaci - la maggiore responsabile di questa situazione perché, "con le sue mosse non professionali, sconsiderate ed egoiste ha ucciso i professionisti della salute".

Da quando è cominciata la pandemia le dichiarazioni pubbliche di Sebija Izetbegović si sono rivelate più adatte ad una campagna elettorale che ai preparativi per contrastare la pandemia in arrivo.

Nel Cantone di Sarajevo i cittadini hanno imparato del resto a essere cauti verso le sue parole, dopo che l’anno scorso era sorta tutta una polemica per le cure mediche di una bambina gravemente malata. Alle proteste dei genitori la dottoressa aveva risposto che né lei né il suo team avrebbero curato la bambina.

Sebija Izetbegović da quando è diventata direttrice dell’ospedale KCUS, in un anno ha licenziato o ha costretto alle dimissioni più di 150 medici, specialisti, primari di lunga ed eccellente esperienza.

Nel KCUS ha smantellato il dipartimento di terapia intensiva, e un’unità di terapia intensiva internistica. È riuscita a bloccare il lavoro dell’Ordine dei medici, a ostacolare la funzione della Facoltà di Medicina, costringendo alle dimissioni tutti i Presidi che non le andavano a genio, a dividere il sindacato dei medici. Secondo il giornale The Sarajevo Times, avrebbe trasformato il preesistente reparto di isolamento per le malattie infettive nel suo lussuoso ufficio.

Da quando si è diffusa l’epidemia di coronavirus in BiH, Sebija Izetbegović ripete in continuazione che “il virus non entrerà nel KCUS”. Intendeva dire, probabilmente, che avrebbe impedito la diffusione dell’infezione in ospedale, ma il risultato è che “i letti dell’ospedale sono vuoti e i pazienti stanno morendo a casa”, denuncia il professore e medico Ismet Gavrankapetanović , anche lui a suo tempo costretto a lasciare la clinica KCUS.

Sistema sanitario deficitario

Ancora prima della pandemia di coronavirus il sistema sanitario della Bosnia Erzegovina era in cattive condizioni. Nel 2013, l’ultimo anno per il quale sono disponibili dati affidabili, aveva 188 medici su 100.000 abitanti, quasi 2,4 volte in meno rispetto alla norma prescritta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Il paese ha sofferto gravi carenze di medici e infermieri durante la guerra del 1992-95, e tuttora non si è ripreso.

Molti operatori sanitari, lavorando sotto le bombe durante la guerra, in assenza di medicine necessarie, attrezzature e dispositivi, inventavano e improvvisavano spesso così bene, che alcune soluzioni, fatte per necessità, dopo la guerra sono state adottate negli ospedali di tutto il mondo.

Ma tanti medici sopravvissuti alla guerra sono diventati vittime di un sistema dove la politica detta legge ai professionisti, un sistema dove contano i legami familiari e politici, invece della capacità e della competenza professionale.

Lo ha capito il ricercatore Damir Mehmedbasić, specializzato in microbiologia. Pur consapevole di correre il rischio di essere licenziato, ha scritto sulla propria pagina FB: “Ho le mie competenze in questa epidemia di coronavirus. Ho studiato di più per poter aiutare le persone in situazioni come questa. Ma nessuno chiede il mio parere. Mi hanno ridotto a fare un lavoro che può fare qualsiasi tecnico sanitario. Significa che non sono considerato in questo sistema, perché non sono membro di un partito politico. Probabilmente perderò il lavoro a causa di questo annuncio, ma per me non ha più importanza, ho sbagliato il periodo e il sistema politico. Con questo voglio solo dire ai cittadini che non tutti i medici sono colpevoli. La colpa è del sistema e della politica”.

Dossier

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