Bosnia: a "Batko" la pena massima, ma le ferite restano aperte

10 april 2013

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Lo scorso 29 marzo il tribunale di Sarajevo ha condannato in prima istanza alla pena massima di 45 anni Veselin “Batko” Vlahović. “Batko”, membro dell'unità paramilitare serba degli “angeli bianchi” (Bijeli anđeli) è stato riconosciuto colpevole di più di trenta omicidi, 11 stupri, detenzioni illegali e maltrattamenti, avvenuti soprattutto nel quartiere sarajevese di Grbavica tra il maggio e luglio 1992.

Vlahović rappresenta una delle pagine più oscure della tragedia vissuta dalla capitale bosniaca durante la guerra. Il presidente del tribunale ha definito i crimini dall'imputato come “commessi nel modo più orribile, a sangue freddo”.

L'avvocato difensore ha già fatto appello, ma per molte delle vittime la sentenza rappresenta una vittoria della giustizia, anche se arrivata con più di due decenni di ritardo dai fatti di sangue del 1992.

La decisione del tribunale non rimargina però le ferite aperte. Subito dopo il pronunciamento della corte, la tv Aljazeera Balkans è andata a raccogliere le reazioni di chi, a Grbavica, dovette subire per mesi la violenza degli “angeli bianchi”.

“Cosa dire, non credo che esista una punizione adeguata a quello che ha fatto”, è stato il commento di Nataša, madre del noto giocatore di pallamano sarajevese Goran Čengiz (di origine montenegrina, proprio come Vlahović), morto per aver tentato di difendere un anziano vicino di casa, Husnija Ćerimagić.

“Durante il processo Vlahović si è rivolto a me, dicendo cinicamente: 'dicono che avrei bussato anche alla sua porta, e a quanto vedo siete viva e in buona salute'”, ha raccontato Edina Kamenica, testimone al processo “Sì, ha bussato alla mia porta chiedendo se in casa 'c'erano dei turchi'. Se la risposta fosse stata affermativa, di certo non sarei qui oggi a poterlo raccontare”.

"Nemmeno quando, anni dopo, ho trovato il corpo di mio figlio Faruk mi sono rassegnato al fatto che fosse davvero morto", è la testimonianza resa da Avdul Rovčanin. “Quando intorno a me ho visto tante madri, sorelle, che piangevano i propri cari scomparsi, mi sono chiesto chi stava peggio: noi che un corpo da piangere l'avevamo, o loro, che non hanno trovato più nulla”.

 

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