Jovan Divjak è stato rilasciato su cauzione nel pomeriggio di ieri e si troverebbe ora nella residenza dell'ambasciatore di Bosnia Erzegovina a Vienna. Resterà in Austria fino alla conclusione del procedimento che lo riguarda. Un ritratto del generale in pensione, una riflessione sul lato oscuro della guerra bosniaca
Jovan Divjak è il comandante della Difesa territoriale di Sarajevo quando, il 5-6 aprile 1992, inizia l’attacco congiunto alla capitale bosniaca. Prima i cecchini sparano all’improvviso su un grande corteo per la pace che sfila per la città, poi compaiono le formazioni paramilitari serbo-nazionaliste, infine l’attacco della Jna (l’esercito federale jugoslavo).
Se per ogni abitante di Sarajevo è il momento delle decisioni finali – combattere, difendere la propria città, fuggirne – Divjak è chiamato a scelte radicali, drammatiche, vitali. Perché è un militare di carriera dell’esercito, cresciuto nelle accademie dello Stato federale e perché è serbo. “Il serbo che difende Sarajevo”. La sua presenza, come la scelta di rimanere di altre decine di migliaia di cittadini di origine serba, è determinante per affermare la difesa della multiculturalità di Sarajevo. Così come rimangono i croati guidati dal vescovo Vinko Puljć - presenza determinante, garantisce con le sue scelte, insieme ai francescani della provincia orientale (“Srebrena”), l’unità territoriale e culturale minima alla Repubblica di Bosnia Erzegovina. I croati di Mostar invece sono secessionisti, così come i serbi delle regioni della Drina, e le repubbliche della ex-Jugoslavia implodono, attraversate dalle linee di due “visioni” territoriali a lungo perseguite, la Grande Serbia e la Grande Croazia.
Divjak come Vešović
Jovan Divjak dunque fa la stessa scelta di Marko Vešović, lo scrittore e poeta montenegrino in Sarajevo assediata, senza sosta testimone delle ragioni e dei diritti dei suoi abitanti, forte narratore - Scusate se vi parlo di Sarajevo (Sperling&Kupfer) - delle infinite vicende, tragiche e eroiche e criminali, che stanno dentro la saga sanguinosa dell’assedio e della difesa della città. In una poesia della raccolta Poljska Konjca (La cavalleria polacca), Vešović scrive: “Noi che abbiamo vissuto l'assedio di Sarajevo/ non ne ricaveremo, si capisce, alcun profitto [...] questa conoscenza è la spada che non sguaineremo/ in ogni momento [ma] io almeno terrò sempre la mano/ sul suo manico.”
Stare con Sarajevo, stare dalla parte delle vittime.
Le cadenze delle guerre balcaniche sigillano con il sangue il secolo e aprono al terzo millennio con le nuove guerre: per “nazioni”, a sfondo etnico-religioso. Sarajevo ne è il capitolo più drammatico. L’assedio alla città dura quattro inverni, le cronache dell’assedio alzano il palco di un teatro di solidarietà inaspettate, risorse umane inattese, capacità di sacrificio degli abitanti e inaudite ferocie.
“Portammo dei cecchini in una cantina, li pestammo a pugni e a calci. Poi li uccidemmo e, con una sciabola, decapitammo Nikolić. Infine portammo via i due cadaveri per gettarli in un burrone di Kazane.” E’ la testimonianza di un ufficiale dell’esercito bosniaco riportata da Divjak in Sarajevo mon amour (Infinito edizioni), trecento pagine di dettagliate risposte a una lunga intervista sugli anni dell’assedio e del dopoguerra condotta da Florence La Bruyère.
La novità sta nel fatto che Divjak ripercorre le tappe della guerra di Bosnia per “linee interne” alle prime formazioni di difesa della città, al processo di strutturazione del nucleo originario dell’esercito della repubblica (“Armija”), alla finale musulmanizzazione di questa e altre istituzioni (di pari passo con l’impoverimento culturale generale).
In controluce
Divjak va letto soprattutto in controluce. Neanche lui - democratico e illuminista, estraneo ai bizantismi balcanici - può farci leggere in chiaro le anomalie originarie e fondanti della neorepubblica. Le figure di profilo criminale così presenti nel primi due anni della difesa della città, le bande guidate dagli Juka Pražina, dai Caco, dai Ćelo. Juka, che guida la battaglia della “fabbrica del cioccolato”, espulso dalla città promette di rientrarvi “su un cavallo bianco”. Verrà trovato ucciso con un colpo alla nuca alla periferia di una città belga; Caco - comandante “popolare” legato a Izetbegović - guida la battaglia della “fabbrica della birra” (la Pivara) massacrando con le sue mani sette soldati dell’Armija, verrà ucciso “mentre tenta la fuga” dentro una macchina della polizia; Ćelo che può tenere in ostaggio interi quartieri della città assediata, uccide civili serbi, contrabbanda lungo le linee della difesa, ucciso poco tempo fa in un agguato nell’androne della casa dell’amante ufficialmente dalla “mafia albanese”.
Né più vasti lati oscuri possono essere illuminati: il genocidio di Srebrenica comunque annunciato nei preaccordi di spartizione della Bosnia Erzegovina (le enclaves lungo la Drina ai nazionalisti serbi in cambio dei quartieri di Sarajevo); la presenza e il ruolo delle brigate musulmane internazionali in quella guerra di Bosnia.
Divjak - comandante in carica - subì il carcere, il ricatto dell’arresto di un figlio, minacce da ogni parte, nonché un grave attentato diretto.
Silenzi, i suoi, eloquenti.
Nel libro-intervista della La Bruyère, la sua voce si libera invece spregiudicata nell’analisi dei dopoguerra in Bosnia e nella ex-Jugoslavia, e nel racconto della sua nuova passione umanitaria: l’aiuto agli orfani della guerra.