Sceneggiatore, regista, scrittore e traduttore. Jan Beran realizzò circa trecento trasmissioni, alcune delle quali restano punti di riferimento imprescindibili nel tracciare la storia della televisione jugoslava e bosniaco-erzegovese
I lontani anni Sessanta… Molto spesso, guardando scorrere i titoli di coda di un servizio o un documentario della TV Sarajevo, mi capitava di leggere: macchina da presa – Jan Beran. A quel tempo i televisori assomigliavano ai bauli in legno verniciato con un grande scherm-occhio tondo. Un tempo così lontano che gli elettricisti TV sembravano maghi da cui ci si aspettava la bella notizia: “Nulla di grave, una lampadina fulminata”, anziché quella considerata tragica: “Si è rotto il tubo catodico”.
Un mio amico d’infanzia sostiene che a quel tempo il mondo fosse molto più colorato – e molto più allegro – della tv in bianco e nero con ricevitore monocanale. Oggi invece, ritiene il mio amico, la situazione è diametralmente opposta, ma non certo perché gli anziani tendano ad essere scorbutici e ad idealizzare il passato.
Sì, le parole del mio amico hanno suscitato in me un forte sentimento di preoccupazione. Eppure, sono rimasto in silenzio anche quando l’anno scorso, durante un nostro incontro lì, ha nuovamente espresso quell’idea. Non ho pronunciato una sola parola nemmeno quando a Sarajevo, stando in compagnia di alcune persone, ho appreso che a Jan Beran, pioniere della macchina da presa, non è mai stata intitolata una strada nemmeno nella sua città natale, Banja Luka. Tra tutte quelle vie e piazze, non c’è un solo vicolo, un piccolo parco giochi, un passaggio tra i palazzi che possa portare il nome di Jan Beran? Evidentemente no. Forse perché ultimamente si sono moltiplicati quelli che considerano il 1992 anno zero e tendono a conferire lustro ai “benemeriti” tutt’altro che illustri? Perché prima di loro c’erano solo buchi, paludi, lupi e orsi? Quindi nessuna strada a Jan Beran, nonostante il suo impegno, come un filo splendente e tenace, sia intessuto nelle fondamenta di tutte le idee pionieristiche della storia del cinema e della televisione bosniaco-erzegovese.
Chi era Jan Beran, o Papà Jan come tutti lo chiamavano anche all’epoca dei Giochi olimpici di Sarajevo del 1984 quando fu il cameraman numero uno? Che questo testo dedicato ad un ex jugoslavo di origine ceca sia una Nota con un triste sorriso [1], dico tra me e me mentre scrivo queste righe.
Jan Beran nacque nel 1927 a Banja Luka da una famiglia di immigrati cechi. Iniziò a fotografare molto giovane, installando la sua prima camera oscura nella dispensa di sua madre. Si unì ai partigiani da studente della terza classe di una scuola superiore tecnica. Appena conclusa la guerra si trasferì a Sarajevo dove fino al 1947 lavorò alla Filmsko preduzeće [Azienda cinematografica jugoslava] per poi passare alla Bosna Film, la prima casa di produzione cinematografica in BiH, per la quale, insieme a Vitomir Stašević e Aleksandar Vesligaj, girò i suoi primi documentari dedicati alla ricostruzione postbellica. Così venne documentata anche l’inaugurazione della linea ferroviaria Šamac-Sarajevo. Sempre nel 1947 i vertici della Bosna Film lo mandarono a Praga per acquistare le nuove macchine, accessori e manuali di cinematografia professionale.
Jan Beran partecipò come operatore di ripresa alla realizzazione del primo lungometraggio del cinema bosniaco-erzegovese, Major Bauk [Il maggiore orco] con la sceneggiatura di Branko Ćopić e la regia di Nikola Pavlović [2]. Girò anche il primo lungometraggio a colori intitolato Veziljini snovi [I sogni di una ricamatrice]. Il suo cortometraggio Unom rijekom [Lungo il fiume Una] vinse l’Arena d’oro alla migliore fotografia al Festival di Pola del 1957.
Beran fu tra i fondatori della Sutjeska Film (1960) con cui iniziò l’età d’oro del documentario bosniaco-erzegovese [3]. In quello stesso anno accettò la proposta di passare a Radio Sarajevo, dove curò un programma dedicato al teatro. Fu anche membro della prima redazione della Televisione Sarajevo che, nell’anno della sua fondazione (1961), aveva solo tre componenti (oltre a Beran, ne fecero parte Alija Nuhbegović e Ismet Mehić).
Fu anche sceneggiatore, regista, scrittore e traduttore. Realizzò circa trecento trasmissioni, alcune delle quali restano punti di riferimento imprescindibili nel tracciare la storia della televisione jugoslava e bosniaco-erzegovese. Girò una cinquantina di documentari, firmando anche una ventina di sceneggiature! Intere generazioni di studenti si approcciarono al mondo del cinema leggendo il suo Dizionario dell’arte cinematografica (1971). Oltre alla prosa, scrisse anche alcuni testi teatrali per bambini e radiodrammi, nonché un racconto di viaggio intitolato Sanovnik zavičajnih predjela [Il libro dei sogni della terra natia, 1982] con illustrazioni di Safet Zec. Quest’ultima opera offre un’immagine fedele del suo legame emotivo e intellettuale con diversi territori della Bosnia Erzegovina che esplorava da viaggiatore curioso, ma anche da archeologo dilettante. Elaborò una concezione peculiare degli stećci, lasciando dietro di sé una ricca documentazione video e fotografica su questo fenomeno. Quindi non è certo un caso che uno dei suoi migliori amici fosse Mak Dizdar, il poeta degli stećci e della filosofia insita nei loro bassorilievi. Secondo alcune testimonianze, Beran aveva letteralmente costretto il poeta a portare a termine la raccolta Kameni spavač [Il dormiente di pietra]. Oltre alle attività di cui sopra, Beran traduceva dal ceco, dallo slovacco e dal polacco.
Vi ricordate il rabbino del film televisivo di Emir Kusturica Bife Titanik del 1979 [4]? A interpretarlo è Jan Beran, il quale firma anche la sceneggiatura della prima opera cinematografica di Kusturica. Giacché ho menzionato Andrić, il grande scrittore fece i complimenti a Beran per una serie tv realizzata negli anni Settanta ispirandosi ai motivi bosniaci del nostro Nobel. Andrić, che era sempre rimasto scettico verso la possibilità di un adattamento cinematografico delle sue opere, respingendo diverse proposte, affermò: “Come sapete, Jan Beran è autore di una serie tv ispirata ai miei testi. Credo sia la migliore opera su di me mai vista in tv”.
Preparandomi a scrivere questo articolo ho consultato diversi materiali video dedicati a Jan Beran [5]. In quasi tutti – del tutto casualmente? – sullo sfondo c’è un fiume. In un’occasione la figlia di Jan Beran, Hana Beran-Poluga, spiegò che la canzone preferita di suo padre era Kraj tanana šadrvana , un adattamento musicale della poesia di Heine Der Asra, tradotta da Aleksa Šantić.
Ho riflettuto a lungo sul perché Beran amasse così tanto quella canzone. A lungo sì, non solo perché gli ingranaggi della mente balcanica si muovono ad una velocità tutta loro.
Quindi?
Dicono che Heine fosse rimasto profondamente impressionato da una leggenda sui giovani uomini dell’antica tribù degli Asra, nello Yemen. Quando si trovavano impossibilitati a vivere una relazione d’amore con la ragazza amata, perché i genitori la vietavano o perché l'amore non era corrisposto, i giovani si ritiravano nel deserto o partivano per la guerra cercando la morte. È del tutto possibile che il termine Asra derivi da ‘Asīr, nome di una provincia nel sud-ovest dell’Arabia Saudita.
La parola ‘Asīr significa “irraggiungibile” e quei miei ingranaggi mi dicono che qualsiasi osservatore attento dei fiumi sa che ogni goccia d’acqua di un fiume da un momento all’altro può diventare irraggiungibile. E una macchina da presa? In quale misura riesce a cogliere l'irraggiungibile? Non conosco la riposta, lo ammetto. Forse però un piccolo tassello di una possibile risposta si trova in una riflessione di Beran che paragonava la macchina da presa ad una sorta di “stupore dell’incantarsi davanti alle meraviglie del mondo vissuto che si trasforma in un’immagine nelle mani di un uomo che non ha mai saputo disegnare”?
Concludo questo articolo ricordando che anche il figlio di Jan Beran è un operatore di ripresa di grande successo. Infine, vi propongo un breve testo tratto dal libro di Predrag Finci Sarajevski zapisi. Sentimentalni uvod u estetiku [Scritti sarajevesi. Introduzione sentimentale all’estetica], pubblicato nel 1999 a Londra, poi nel 2004 a Sarajevo.
Lo chiamavano Papà Jan. Anche perché si comportava così. Si rivolgeva a noi con tono paternalistico chiamandoci ‘figli’ e ‘figlie’. Era più giovane dei miei genitori, ma per via dell’obesità, della sua barba rossa ingiallita dal tabacco e della sua fascinazione per il passato sembrava più vecchio di quanto non lo fosse. Ricordava di essere stato tra i primi che mio padre, Moni, impiegò alla Bosna Film (il primo studio si trovava a Jagomir, lo battezzammo ‘Moniwood’). Menzionava Edvards Tisē, cameraman di Ejzenštejn, di cui da giovane fu assistente. Anche lo stesso Jan Beran a volte spegneva il motore della macchina da presa e girava a mano, come si faceva all’epoca del cinema muto. Smontava e montava la cinepresa come il più abile dei meccanici, cercando di trasformare ogni fotogramma in un’opera d’arte. Riteneva che ‘Le basi della regia cinematografica” di Kulešov fosse il miglior manuale del mestiere del cinema, stimava Pudovkin e Griffit, quanto invece ai suoi contemporanei, nutriva una certa stima solo nei confronti di Bergman, il che non mi stupiva perché ho sempre pensato che Bergman in un certo senso fosse l’ultimo regista del puro linguaggio cinematografico tradizionale, se non addirittura l’ultimo regista del cinema muto. Il fatto che Papà Jan un tempo facesse il fotografo si rispecchiava nella staticità dei suoi brevi film televisivi. Apprezzava esclusivamente il cinema in bianco e nero, quello a colori lo considerava una šećerlama [termine serbo-croato per indicare zuccherino, dal turco şekerleme]. Sono portato a pensare che molti professionisti del cinema di un tempo sottovalutassero il cinema a colori non solo perché non erano abili in questa tecnica, ma anche perché in essa non vi è nulla di quella patetica del bianco e nero morbosa e quasi religiosamente cerimoniale.
Beran amava i paesaggi più di ogni altra cosa ed era solito attraversare grandi distanze pur di ‘riprendere il suo oggetto’. Oltre alla storia, conosceva molto bene anche la topografia della Bosnia Erzegovina. Sottolineava orgogliosamente di conoscere quasi ogni pietra (Dio, non ci sono più nemmeno quelle pietre…) e sollecitava l’autista a guidare più velocemente per arrivare alla sorgente di Kravice “perché lì in questo periodo dell’anno la luce più bella è quella che si vede alle cinque e mezza”. Lo criticavano dicendo che i suoi film non erano autentici perché non vi era spazio per il volto umano. Questo con ogni probabilità fu uno dei motivi per cui decise di realizzare un breve film tratto da ‘Il derviscio e la morte’ di Selimović. Mi scelse per il personaggio di Ahmet Nurudin, per essere parte integrante di un’immagine che doveva illustrare il testo di Selimović pronunciato da voci fuori campo. Ancora una volta tutto doveva essere espresso con le immagini; la funzione della voce era paragonabile a quella delle didascalie nel cinema muto. Così erano anche gli altri servizi televisivi di Beran. Il suo amore esagerato per la staticità di un fotogramma perfettamente armonioso non gli permetteva di concepire il cinema come l’arte del montaggio, come una relazione dinamica tra le unità percepite. Credeva nel perenne valore del bello. Ogni singola opera doveva contenere un momento di sorpresa (dal punto di vista della drammaticità, della provocazione o della rivelazione del nuovo), ma sul piano della bellezza, come una bella combinazione scacchistica, poteva in un certo senso essere prevedibile senza perdere il suo valore. Quel tempo però richiedeva nuovi maestri, una sensibilità diversa. Jan girava sempre meno, nascondendosi dietro alla pigrizia, giustificandosi con la malattia. Rifiutò ingenti somme di denaro che gli furono offerte per lavorare come cameraman di Christian-Jaque, sempre più spesso scriveva i suoi testi, troppo poeticizzati, dedicati alla Bosnia e leggeva Cervantes. All’obiezione di un collega più giovane, secondo cui Cervantes era ormai uno scrittore anacronistico, rispose: “Certo, quando Sancio Panza legge Don Chisciotte”. Anche dopo aver smesso di girare, non sopportava composizioni disordinate. Quando gli amputarono una gamba smise di bere e sj rifugiò nel suo appartamento, sistemandolo come il suo ultimo grande quadro. Il fotogramma finale in cui il suo occhio-camera continuava a vagare.
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[1] Un’allusione alla prosa Muzikanti di Jan Beran.
[2] Il film fu realizzato con un cast jugoslavo oer antononasia: Vjekoslav Afrić, Vaso Kosić, Marijan Lovrić, Bogdan Kužet, Carka Jovanović, Dragomir Felba, Fran Novković, Jože Gregorin, Dušan Đermanović.
[3] La Sutjeska Film fu fondata nel 1960 come casa di produzione di cortometraggi. Vantava collaborazioni con grandi registi cone Dušan Makavejev, Bato Čengić, Suad Mrkonjić, Žika Ristić, Vefik Hadžismajlović, Petar Ljubojev, Hajrudin Krvavac, Gojko Šipovac, Zlatko Lavanić e tanti altri. Nel 1975 la Sutjeska Film iniziò a produrre anche i lungometraggi (di cui fino ad allora si occupava la Bosna Film), realizzandone una ventina, a cui si aggiungono oltre cento documentari. Nel 2009, con una decisione del governo della Federazione BiH, la Sutjeska Film chiuse i battenti e tutti i suoi obblighi e diritti d’autore furono trasferiti al Filmski Centar Sarajevo.
[4] Tratto dall’omonimo racconto di Ivo Andrić.
[5] Nello scrivere questo articolo ho attinto anche alle informazioni contenute in alcuni testi, come quello di Nedim Hasić e quello di Edib Kadić , e in un documentario di Aleksandra Elčić dedicato a Jan Beran.