Originariamente pubblicato in inglese "Fuori dall’assedio di Sarajevo: Memorie di un’ex jugoslava", e poi tradotto in serbocroato, il libro di Jasna Levinger-Goy è una testimonianza impietosa sulla Sarajevo assediata, un racconto irriducibile che parla degli altri e dell’io in mezzo al dramma della Storia
Il libro di Jasna Levinger-Goy [1] è stato originariamente pubblicato in lingua inglese col titolo Out of the Siege of Sarajevo: Memoir of a Former Yugoslav (Fuori dall’assedio di Sarajevo: Memorie di un’ex jugoslava). Poi l’autrice ha tradotto il testo originale in serbocroato, apportandovi alcune modifiche, seppur marginali. “Per i lettori inglesi il mio libro è una testimonianza dei recenti eventi storici accaduti in un paese ‘lontano’, mentre per i lettori locali […] il libro rievoca gli eventi i cui riflessi rivestono ancora una certa rilevanza e sono impressi nella coscienza di molte persone”.
Questo libro è una testimonianza impietosa sulla Sarajevo assediata, un racconto irriducibile che parla degli altri e dell’io in mezzo al dramma (e all’ironia) della Storia, il cui vero epilogo deve ancora arrivare. Ed è un libro estraneo alla narrazione manichea, tuttora dominante, sull’assedio di Sarajevo (1992-1995).
Potrei perfettamente concludere qui questo articolo dedicato al libro dei ricordi di Jasna Levinger-Goy per lasciare più spazio ai frammenti tratti dal libro. Aggiungo però che forse sarebbe interessante iniziare la lettura dall’Appendice 1, posta alla fine del libro. È soltanto un suggerimento, rivolto non solo ai lettori della regione ex-jugoslava, ma di tutta Europa.
Leggendo Appendice 1 – piena di brevi annotazioni, a volte del tutto laconiche, sul disperdersi delle persone e dei destini – ho riflettuto su come già nell’antichità ci si era resi conto che in ogni guerra e in ogni epoca sciagurata gli esseri umani e i loro destini sono come le foglie al vento. Certo, chiunque potrebbe scrivere una simile appendice, in pochi però lo hanno fatto. Per quanto ne sappia io, non lo ha fatto nessuno degli autori delle testimonianze personali della guerra, e di testimonianze del genere ne ho lette tante, anche se da tempo ormai non le leggo più. Ad ogni modo, continuo a chiedermi perché tutti quelli che, indipendentemente dalla parte con cui si erano schierati durante la tragedia jugoslava, si erano posti l’obiettivo di diventare testimoni del loro tempo solitamente si limitassero ad osservare la propria sofferenza e il proprio dolore (per non parlare del sentimento di odio e intolleranza coltivato dai miei e di solito malcelato.)
Fuori dall’assedio di Sarajevo non è una di queste testimonianze egocentriche, perché anche quando Jasna Levinger-Goy parla di sé, non dimentica mai gli altri. Inoltre, l’autrice non appartiene a nessuna delle tre parti coinvolte nella guerra civile bosniaca (anche utilizzando questa espressione si pone al di là di una delle narrazioni dominanti sul conflitto). Levinger-Goy appartiene ad un quarto gruppo, costituito da persone consapevoli che con la perdita della Jugoslavia, percepita come l’unica vera patria, per sempre hanno perso anche una dimensione importante della propria identità. Quindi, una perdente, in più di origini ebraiche; una sarajevese che ha attraversato diverse fasi emotive e intellettuali: dall’incredulità e lo stupore di fronte a quanto stava accadendo al risveglio in mezzo alla crudeltà dell’autentico orrore della guerra; dall’idea del predominio del male all’incontro con persone buone e generose e alla necessità di raccontare fedelmente le esperienze vissute in prima persona. In questo libro i buoni sono portatori di luce e di speranza dell’invincibilità del bene. Credo che il lettore coglierà facilmente l’essenza dell’atteggiamento dell’autrice nei confronti di quelli che con lo scoppio della guerra erano diventati cattivi: nemmeno una parola di condanna, solo lo stupore di fronte a quella svolta improvvisa.
Questo libro è innanzitutto una testimonianza della vita di una famiglia jugoslava di origini ebraiche intrappolata in una città assediata. Dove una società si specchia meglio se non in una famiglia? (Nel Romanzo di Londra Miloš Crnjanski cita un pensiero di Quintiliano secondo cui “per comprendere l’umanità non serve conoscere l’umanità intera, è sufficiente conoscere bene una famiglia”.) Ed effettivamente, la famiglia dell’autrice (i suoi genitori anziani) è un autentico specchio degli eventi dei primi anni Novanta, ma anche, retrospettivamente, del destino degli ebrei bosniaci e jugoslavi durante la Seconda guerra mondiale e nel periodo post-bellico. Anche l’ambiente di lavoro dell’autrice, ossia la Facoltà di Filosofia di Sarajevo, è uno specchio della società (Levinger-Goy non cita mai i cognomi, solo i nomi delle persone di cui parla nel suo libro, limitandosi talvolta a menzionare solo la loro professione.)
Tutti i segmenti narrativi che in qualche modo riguardano il passato sono scritti in corsivo, con una chiara suddivisione dei periodi: sarajevese, belgradese e inglese (Londra e Cambridge), a cui si aggiunge un breve periodo trascorso a Pirovac, sulla costa adriatica, verso la fine dell’estate del 1992 dopo la fuga da Sarajevo in un convoglio, segnata da tantissime peripezie. Tutti questi periodi sono accomunati dalla tendenza dell’autrice a prendersi cura dei suoi genitori, ma anche di altre persona (non si è mai rivolta a qualcuno per chiedere un aiuto per se stessa.)
Il libro Fuori dalla Sarajevo assediata non avrebbe mai visto la luce se uno di quei terribili giorni sarajevesi Jasna Levinger-Goy non avesse deciso di accettare l’invito di un suo amico pittore ad uscire a bere qualcosa insieme. Senza questo libro forse non ci saremmo mai chiesti se ogni rifugio sotterraneo (non solo a Sarajevo) avesse una storia da raccontare. Dopo essere entrata nel bar in cui doveva incontrarsi con il suo amico, una bomba cadde nel punto esatto in cui Jasna si era soffermata pochi istanti prima. Questo è solo uno dei dettagli del libro che indubbiamente spingeranno tutti i lettori (non solo quelli originari di Sarajevo e di Mostar) che hanno vissuto la guerra a riflettere su quante volte una coincidenza si è rivelata fortunata, e quante volte invece è risultata fatale.
Sì, questo libro contiene innumerevoli dettagli. Me ne sono reso conto durante la seconda lettura, sommerso da una sensazione di disagio intrisa di interrogativi simili o identici a quelli che Jasna Levinger-Goy ci pone con la sua testimonianza. Come lettore che forse – sa il diavolo – conosce un po’ la miseria della storia contemporanea lì, di fronte a molti dei dettagli presenti in questo libro mi sono trovato a rivivere alcuni ricordi che pensavo fossero ormai svaniti, in primis quelli riguardanti le lettere degli amici e dei parenti che erano rimasti intrappolati nell’inferno della guerra, ma anche di quelli che erano riusciti a fuggire. Non so quale sia il dettaglio più bello del libro. Forse quando a Belgrado, dopo tanti “regali” umanitari, l’autrice riceve un mazzo di fiori? Un simbolo vivente della dignità di un essere umano che ha saputo preservare il senso del bello. Oppure quando parla della morte di suo marito Edward Dennis Goy (noto slavista e traduttore inglese – date un’occhiata a Wikipedia – che con la dissoluzione della Jugoslavia ha perso la cattedra di letteratura jugoslava presso l’Università di Cambridge, ma in compenso ha sposato una jugoslava.) Leggendo quelle pagine – con una leggerezza insostenibile? – mi è tornata in mente una breve nota scritta da Andrić dopo la morte di sua moglie: “Ora che tutto il mio bene è scomparso…”.
Aggiungo un’ultima cosa, mi perdonino quelli a cui non piacciono le mie digressioni. Sull’ultima pagina del libro ho annotato: la canna di Pascal.
Filosofo d’altri tempi, eppure nostro contemporaneo, che nella sua ricerca del senso sempre poneva l’enfasi sulla dignità, Pascal scrisse: “L’uomo non è che una canna, la più fragile della natura, ma è una canna pensante. Non serve che l’universo intero si armi per schiacciarlo, un respiro, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo rimarrebbe pur sempre più nobile di ciò che lo uccide, perché è consapevole della propria morte e della superiorità dell’universo su di lui; l’universo non ne sa nulla”.
Frammenti tratti dal libro Fuori dall’assedio di Sarajevo
Io, autrice di queste righe, protagonista di questo libro, sono nata e ho vissuto a Sarajevo, la capitale della Bosnia Erzegovina, in un paese che a quel tempo si chiamava Jugoslavia. Sono nata dopo la Seconda guerra mondiale e la maggior parte della mia vita l’ho trascorsa in Jugoslavia.
Entrambi i miei genitori sono cresciuti in tipiche famiglie ebraiche appartenenti al ceto medio. La famiglia di mia madre, di origine sefardita, giunse nei Balcani dopo l’espulsione dalla penisola iberica all’inizio del Cinquecento. La famiglia di mio padre è di origine ashkenazita. I genitori di mio padre giunsero in Bosnia da Budapest all’epoca dell’impero austro-ungarico.
Mia madre e mio padre nacquero a Sarajevo e vi vissero fino alla Seconda guerra mondiale. Tutti e due erano ebrei laici, fatto che però non aveva alcuna rilevanza durante la Seconda guerra mondiale. In quella guerra per gli ebrei le probabilità di sopravvivenza erano minime. Tuttavia, per qualche miracolo, entrambi i miei genitori e le loro famiglie sopravvissero: mia madre, che allo scoppio della guerra aveva appena finito il ginnasio, i suoi genitori e la sorella minore; mio padre, poco più grande di mia madre, i suoi genitori e la sorella maggiore.
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I miei genitori accettarono prontamente il nuovo regime, fatto per nulla sorprendente considerando l’orrore della guerra in cui uno sfrenato odio religioso, nazionale e ideologico minacciava le loro vite. Entrambi credevano negli ideali comunisti e desideravano fortemente credere in un futuro migliore. Del resto, proprio alla fine della guerra si sposarono presso un ufficio di stato civile partigiano, quindi presso un ufficio del nuovo regime. Fu un nuovo inizio, cominciarono a costruire una nuova vita pieni di entusiasmo, pur appartenendo a quella che nei suoi primi discorsi Tito definiva “intellighenzia onesta”. Non posso affermare con certezza quanto in quella nuova fase della vita dei miei genitori contasse il fatto che erano ebrei, quindi appartenenti ad un gruppo decisamente minoritario della popolazione della città. Quello che so è che, pur non avendo mai rinnegato le loro origini ebraiche – né tanto mano avrebbero mai accettato di farlo – i miei genitori accolsero lo jugoslavismo come una propria identità e con grande entusiasmo fecero propria l’ideologia di “fratellanza e unità”. Sentivano particolarmente vicina l’idea di unità. Dopo l’esperienza della guerra rifiutarono istintivamente la logica della divisione tribale, ovvero qualsiasi differenziazione in base all’appartenenza sociale, nazionale o religiosa. Queste idee le trasmisero anche a me. Anch’io credevo negli stessi ideali, anch’io mi consideravo jugoslava.
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Quindi, iniziai la mia vita come membro di una famiglia jugoslava, consapevole delle mie origini ebraiche, ma con una scarsa conoscenza del giudaismo. Provavo un forte senso di appartenenza al paese, mi identificavo con esso, ero una convinta jugoslava. Ironicamente però, mentre io mi consideravo jugoslava, le persone che mi circondavano mi consideravano ebrea, senza mai dirmelo.
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“La responsabilità di quanto sta accadendo grava su di voi, nostri genitori! Se ci aveste raccontato le vostre esperienze della Seconda guerra mondiale, forse ci saremmo preparati meglio per affrontare questa situazione”, gridò Božo, marito della mia amica d’infanzia Mima, rivolgendosi ai miei genitori. Sceso dal quinto piano correndo per le scale, venne da noi visibilmente sconvolto da una situazione che semplicemente non riusciva a comprendere. Ma davvero ci saremmo trovati più preparati di fronte a quanto stava accadendo se i genitori ci avessero parlato delle loro esperienze? Non è che non ne sapessimo nulla. Conoscevamo le storie di odio tra i popoli, storie di scontri e uccisioni. Io personalmente però credevo che tutte quelle storie appartenessero ad un passato che non si sarebbe mai ripetuto […] Forse però i nostri genitori non ci avevano parlato di crimini e orrori per lo stesso motivo per cui Hannah Arendt, parlando dell’esperienza dell’Olocausto, afferma: “Per dimenticare meglio evitiamo ogni allusione ai campi di concentramento e di internamento”. Ma anche se i nostri genitori avessero voluto dimenticare la Seconda guerra mondiale, purtroppo era diventato impossibile farlo in una situazione che inesorabilmente ricordava quella guerra.
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Così divise in gruppi, perlopiù in base all’appartenenza nazionale, le persone ritenevano accettabile, se non addirittura auspicabile, esprimere apertamente l’odio verso di loro, anche quando si trovavano nello stesso seminterrato a condividere la stessa sorte con i loro rappresentanti. Una comunità multietnica, principalmente composta da gruppi di persone dotate di una coscienza nazionale, si trovò costretta a nascondersi in un seminterrato e a lottare per sopravvivere in qualche modo. Per quanto il bisogno di dar sfogo alla paura potesse essere comprensibile, assistere a fragorosi scatti di ira, maledizioni e bestemmie fu un’esperienza molto sgradevole. L’ira e l’ostilità regnavano sovrane, nel seminterrato e fuori di esso.
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Amici o nemici, coraggiosi o vigliacchi, noi o loro, queste erano le nuove divisioni. Si dividevano quelli che fino a poco tempo prima erano amici, vicini di casa, persino coniugi che vivevano in armonia gli uni con gli altri. Oppure mi sembrava che vivessero in armonia, volevo che fosse così. Se dovevo dividere le persone, le dividevo in umane e disumane, scegliendo tra buoni, nobili e tolleranti da una parte, “la mia parte”, e maligni, egoisti e intrisi di odio dall’altra, “la loro parte”. (In quello stesso periodo, un bibliotecario della Facoltà mi chiese perché non me ne fossi andata nella mia patria di riserva, Israele: disse che Sarajevo non era il mio posto. Che dolore! Perché Israele avrebbe dovuto essere la mia patria di riserva? I miei genitori e io siamo nati a Sarajevo. Il suo era un commento antisemita? Direi di sì, lo vissi così.)
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Fu molto difficile decidere di lasciarmi alle spalle un’intera vita, abbandonando la mia città natale dove aveva vissuto la mia intera famiglia (i miei genitori lasciarono Sarajevo solo quando furono costretti a farlo, durante la Seconda guerra mondiale, per salvarsi, poi appena poterono, vi tornarono.) Lì c’erano i nostri amici, la maggior parte dei nostri parenti, le tombe dei nostri cari, le strade, i paesaggi, gli odori che conoscevamo – tutto ciò che faceva parte della nostra vita. […] Anch’io prima non avevo mai pensato di trasferirmi. Anche quando frequentavo un corso post laurea negli Stati Uniti, avevo intorno ai venticinque anni, non volevo rimanervi. Avevo ricevuto varie proposte, ma non mi ispiravano. Per me era inimmaginabile ricominciare da zero, quando a Sarajevo conducevo una vita assai decente.
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Nel settembre/ottobre del 1992 molte persone fuggite da Sarajevo giunsero a Belgrado (In quel periodo, oltre ai convogli della Comunità ebraica, c’erano diverse vie d’uscita da Sarajevo: la Croce Rossa, l’Unhcr, un tunnel segreto che passava sotto l’aeroporto, etc.) Tra quei rifugiati c’erano solo pochi ebrei, ciononostante molti si rivolsero alla Comunità ebraica di Belgrado. Risultava più facile emigrare in altri paesi con l’aiuto della Comunità.
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Rimasi di nuovo stupita di fronte a così tanta bontà umana. Non solo la famiglia, ma tante altre persone – gli sconosciuti, i conoscenti, gli amici vecchi e nuovi – si dimostrarono generose e altruiste. Mi chiedevo da dove venisse tutta quella umanità e generosità. Come quelle persone erano riuscite a preservare un’autentica bontà? […] Con il passare del tempo anche il termine rifugiato assunse un significato dispregiativo. Come se non fosse già abbastanza difficile accettare lo status di rifugiato in un paese che consideravo (fondatamente o meno) come proprio. Il problema era che tutto sembrava come prima, ma nulla era più come prima. Mi ero ostinata nel prolungare l’illusione di continuità che nutrivo, cercando di convincere me stessa di aver trovato il mio posto. Purtroppo, la realtà era un’altra, ero una straniera-rifugiata, il peggior tipo di straniera.
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All’improvviso Londra mi parve strana. Non era più quella città che visitavo e amavo. Avevo trascorso parecchio tempo a Londra da turista, ma anche da studente, e poi mentre scrivevo la mia tesi di dottorato. In quel momento però non ero né turista né studente/ricercatrice, né tanto meno potevo considerare Londra come la mia dimora permanente. Una situazione indefinita. Chi ero e dov’ero? Non riuscivo a percepire chiaramente nemmeno la mia identità.
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Per me il termine rifugiato a tutt’oggi ha una connotazione dispregiativa. Mi schiacciava il vergognoso peso di quella parola. Per fortuna, Ned non solo mi amava, ma provava compassione per ogni mia nuova sofferenza […] Avvertiva, anche la mia sofferenza legata allo status di rifugiato, per molto tempo cercando ostinatamente di aiutarmi a liberarmene. Capì i motivi [alla base di quella sofferenza], riconoscendo tutte le sue manifestazioni, anche quelle che io non ero capace di riconoscere.
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Quell’anno [2001, nda.] ho ottenuto la cittadinanza britannica. Dopo tanti shock, cambiamenti e interrogativi che io e la mia famiglia ci siamo trovati costretti ad affrontare, è stata una sorta di epilogo (Nel caso di mia madre, il processo di naturalizzazione è durato un po’ più a lungo.) Finalmente ero in grado di riflettere sulla mia identità. Ho capito che l’espressione “ebrea laica britannica di origini jugoslave” definisce meglio il mio essere. È un’espressione lunga e complessa, ma tutte le esperienze che ho vissuto si sono rivelate complesse.
[1] A spingermi a conoscere meglio la vita dell’autrice è stato un suo articolo pubblicato sul portale Lupiga il 21 aprile 2021
Jasna Levinger-Goy è nata a Sarajevo, nell'ex Jugoslavia. Si è laureata in lingua e letteratura inglese presso l'Università di Sarajevo, ha conseguito un master in Linguistica presso la Georgetown University di Washington, e successivamente un dottorato presso l'Università di Zagabria. È stata insegnante all'Università di Sarajevo, poi brevemente all'Università di Novi Sad. Arrivata in Gran Bretagna negli anni '90, ha lavorato prima come docente presso l'University College London (UCL), School of Slavic and East European Studies (SSEES), e poi come tutor presso il Translation Course della Metropolitan University di Londra. Ha pubblicato numerosi articoli e traduzioni sia dal serbo-croato all'inglese che dall'inglese al serbo-croato. Mentre viveva a Sarajevo, ha tradotto, tra le altre cose, la poesia di Emily Dickinson in collaborazione con Marko Vešović (Svjetlost, Sarajevo 1989 e OFK Cetinje 2014). Durante la guerra civile in Bosnia Erzegovina, fuggì prima in Serbia, poi in Gran Bretagna, dove conobbe il suo futuro marito, Edvard Denis Goy, slavista all'Università di Cambridge. Ben presto si sposarono e iniziarono a dedicarsi intensamente alla traduzione. Le loro traduzioni più significative in inglese sono i romanzi Tvrđava di Meša Selimović e Banquet in Blitva di Miroslav Krleža. All'inizio degli anni 2000 ha completato gli studi in psicoterapia. Ha il suo studio privato a Cambridge.