Cent’anni fa, all’Università di Graz, Ivo Andrić discuteva la sua tesi di dottorato dal titolo “L’evoluzione della vita spirituale in Bosnia sotto il dominio turco”. Un saggio che continua a dividere l’opinione pubblica bosniaco-erzegovese, e non solo
Per quanto io ne sappia, nessuno scrittore mondiale è mai riuscito, con la propria tesi di dottorato, a emozionare e dividere in continuazione i lettori e l’opinione pubblica del proprio paese come ha fatto Andrić. Naturalmente, il caso di Andrić è particolare anche per altri motivi che trascendono il tema della sua tesi L’evoluzione della vita spirituale in Bosnia sotto il dominio turco (titolo originale in tedesco: Die Entwicklung des geistigen Lebens in Bosnien unter der Einwirgung der turkischen Herrschaft).
Non c’è grande scrittore la cui vita e le opere non siano state sottoposte a vivisezione. Andrić non voleva che la sua tesi di dottorato venisse inclusa nella sua opera omnia pubblicata nel 1963. I motivi che lo spinsero a scrivere la tesi, discussa nel giugno del 1924, e le numerose reazioni alla prima edizione serba [1] potrebbero essere un buon punto di partenza per un racconto documentario del tutto peculiare e inevitabilmente lungo.
Nel febbraio del 1920 ad Andrić fu affidato l’incarico di terzo segretario dell’Ambasciata del Regno dei serbi, croati e sloveni presso la Santa Sede. Nelle lettere indirizzate all’amica Zdenka Marković si lamenta della salute cagionevole e del clima romano che gli risultava difficile da sopportare. All’inizio di ottobre del 1921 fu trasferito al Consolato generale del Regno SHS a Bucarest, poi nel novembre del 1922 al Consolato a Trieste. Non apprezzava nemmeno il clima triestino. Nel gennaio del 1923, riferendosi alla tubercolosi da cui era a lungo affetto, scrisse all’amica, non senza una dose di autoironia: “Fortunatamente, sono stato trasferito a Graz, non so però se al Consolato o in qualche sanatorio”.
Nel novembre dello stesso anno decise di riprendere gli studi iscrivendosi alla Facoltà di Filosofia di Graz (Andrić fu uno dei tanti studenti europei costretti a interrompere gli studi a causa della Grande guerra). Il motivo: alcuni mesi prima fu approvata una nuova legge sui funzionari diplomatici che mise in discussione la permanenza di Andrić nel corpo diplomatico perché non possedeva un titolo di studio accademico. Nel gennaio del 1924 Andrić infatti venne licenziato. La via d'uscita più veloce era quella di sostenere un numero minimo di esami che gli permettessero di accedere ad un dottorato.
Se un giorno (magari anche prima) la tesi di Andrić venisse tradotta in italiano, i lettori attenti probabilmente si chiederebbero come questo saggio, basato sulla lettura di numerosi documenti e studi sulla storia della Bosnia Erzegovina, poteva essere scritto in meno di cinque mesi. L’unica risposta ragionevole è che Andrić aveva iniziato a studiare il fenomeno ben prima, e continuerà a studiarlo anche dopo la stesura della tesi, come dimostrano chiaramente i suoi grandi romanzi dedicati alla Bosnia, scritti durante la Seconda guerra mondiale.
Nella sua tesi, Andrić presenta il suo punto di vista sulla vita spirituale, ma anche sulla quotidianità delle tre principali comunità religiose presenti in Bosnia Erzegovina durante l’amministrazione ottomana. Pur essendo stato scritto con pretese scientifiche, il saggio è caratterizzato da uno stile letterario e dall’alternarsi di posizioni oggettive e soggettive sull’argomento trattato. Occorre però tenere conto delle effettive differenze tra criteri e metodi di ricerca di allora e quelli di oggi, differenze ignorate da tutti quelli che negli ultimi trent’anni hanno criticato la tesi di Andrić. A prescindere dai limiti che il testo presenta dal punto di vista scientifico, è difficile contestare la credibilità delle fonti e dei documenti su cui è basato.
Zoran Konstantinović, traduttore della tesi in serbo, ha giustamente osservato che in quest’opera “si intravede la genesi di tutto ciò che Andrić aveva ideato ed espresso come scrittore”. Lo storico Sima Ćirković ha invece mosso diverse obiezioni al testo di Andrić, criticando la scelta delle fonti bibliografiche, la soggettività espressa nell’introduzione e la tendenza a richiamarsi alle “opere assai anacronistiche di Vjekoslav Klaić [storico e scrittore croato]”. Per quanto riguarda l’osservazione sulla soggettività, è difficile non essere d’accordo con Ćirković, al quale però è sfuggito il fatto che nella voce di Andrić riecheggia la voce di un’intera generazione di intellettuali filojugoslavi restii ad accettare i fardelli del passato che continuavano a influenzare il loro presente.
“Si è detto che la conquista di Costantinopoli aveva ‘inflitto una ferita profonda all’umanità europea’. Certamente sono pochi i paesi che hanno subito quella ferita con maggiore difficoltà e sofferenza della Bosnia. Questo è soltanto un tentativo di tracciare l’evoluzione della vita spirituale di questo paese, dai tempi dell’indipendenza statale al crollo definivo del potere turco”, scriveva Andrić nella prefazione alla sua tesi che i professori austriaci, seppur con qualche obiezione, giudicarono eccellente.
Quindi, secondo Andrić, anche la Bosnia, come parte del territorio europeo esposto all’invasione turca, aveva subito quella ferita profonda perché l’espansione dell’Impero ottomano aveva portato all’interruzione dei legami culturali tra la Bosnia e il resto d’Europa, impedendo la continuità della vita spirituale. Leggendo la tesi di Andrić si è portati a pensare che l’attenzione dell’autore sia rivolta principalmente alla vita spirituale dei cattolici.
Oggettivamente, l’unica spiegazione è che tra le fonti storiche che Andrić aveva a disposizione – penso soprattutto ai materiali documentari ed epistolari – prevalevano quelle riguardanti il cattolicesimo. Qualcuno potrebbe anche obiettare: e gli ebrei? Andrić con ogni probabilità aveva emarginato la vita spirituale degli ebrei per il semplice fatto che non c’erano ebrei in Bosnia Erzegovina prima dell’occupazione ottomana, quindi non c’era la possibilità di tracciare parallelismi con il periodo pre-ottomano.
Naturalmente, la tesi di Andrić è anche una critica implicita all’amministrazione ottomana e al suo atteggiamento nei confronti della popolazione non musulmana. In un contesto non letterario, Andrić esprime il suo punto di vista su un lungo periodo storico, una visione in cui – che i suoi antagonisti lo vogliano ammettere o meno – ogni eventuale criticità è legata ai documenti e agli studi scientifici utilizzati per la stesura della tesi. Questo materiale (anche la parte della tesi intitolata Note è molto ricca di informazioni e citazioni) è poi tornato utile ad Andrić durante la scrittura del suo ciclo di prose sulla Bosnia, in cui ha sviluppato un vero e proprio genere di prosa storica.
La tesi di Andrić ha suscitato (e continuerà a suscitare) forti reazioni soprattutto nell’opinione pubblica bosgnacca, una parte della quale vede in Andrić un islamofobo che odiava tutto ciò che era bosgnacco. Però a incuriosirmi maggiormente è il punto di vista di Noel Malcolm, giornalista, scrittore e storico britannico, il quale considera la tesi di Andrić “caricaturale”. Abile nel cogliere il momento giusto per far avanzare la propria carriera, Malcolm non ha resistito alla tentazione di essere paradossalmente onesto [2] nell’introduzione all’edizione bosniaca del suo libro (Bosna. Kratka povijest).
A parte gli elogi faziosi, “gli addetti ai lavori” dell’area ex jugoslava non hanno espresso alcuna osservazione particolare su quest’opera (forse perché l’autore è uno straniero?). Non so quante e quali reazioni il libro di Malcolm abbia suscitato in Italia, dove è stato tradotto ormai anni fa. Leggendo quest’opera, tra le numerose lacune fattuali, ho notato che Malcolm non cita da nessuna parte il contenuto della legge per la raja, ossia per la popolazione non musulmana [3], che invece viene riportata nell’edizione tedesca e in quella inglese della tesi di Andrić.
Una digressione: mi dispiace di non essere riuscito a trovare un editore disposto ad accettare la mia proposta di pubblicare una traduzione italiana del libro Unutarnja zemlja. Kratki pregled kulturne povijesti Bosne i Hercegovine [Terra interiore. Breve panoramica della storia culturale della Bosnia Erzegovina] di Ivan Lovrenović. Uno studio che, pur essendo principalmente focalizzato sugli aspetti culturali, è di una qualità di gran lunga superiore a quella dell’opera di Malcolm. Ho ricevuto due risposte identiche: è superfluo parlare di questo tema dopo il libro di Malcolm (Nessuna lampada – quindi nemmeno la mia che, a quanto pare, emana una luce troppo blanda – può illuminare la strada a certi editori). Ad ogni modo, per chi fosse interessato a leggere la complessa opera di Lovrenović, segnalo che il testo è disponibile anche in edizione tedesca e inglese.
Oggi è facile schierarsi con tutti quei critici della tesi di Andrić che la considerano un’opera letteraria piuttosto che un “vero” contributo scientifico. Eppure, la sua importanza non andrebbe sottovalutata. Certo, non si può nemmeno essere d’accordo con tutti i recensori – bosgnacchi, serbi e croati – della tesi di Andrić, compresi sia gli infangatori e i cosiddetti detronizzatori sia gli esaltatori, tutti guidati dai dettami della politica quotidiana.
Chissà, forse un giorno (magari anche prima) al posto delle polemiche sui cosiddetti scrittori controversi – tra i quali, oltre ad Andrić, spiccano anche Njegoš e Kiš – verrà avviato un dialogo costruttivo, segnando l’inizio di una riconciliazione culturale in Bosnia Erzegovina?
A quel punto forse verrà in mente a qualcuno di considerare la discordia tra i feudatari che oggi governano la Bosnia Erzegovina alla luce delle osservazioni di Andrić sulla discordia tra i nobili bosniaci ed erzegovesi e sulla propensione di molti di loro ad adulare i turchi nel periodo immediatamente precedente alla caduta del regno di Bosnia? Reggerebbe anche un paragone tra la corruzione all’epoca del dominio ottomano e quella di oggi. Spero però che ad Andrić non venga addossata la colpa anche del fenomeno della corruzione.
Affinché venga avviata una riflessione costruttiva sulle questioni di cui sopra è necessario però sviluppare anche la consapevolezza del fatto che la politica, anziché essere uno strumento per ottenere vantaggi personali, deve servire gli interessi di tutti i cittadini, e che la cultura, invece di provocare nuove divisioni, deve essere vista come una via di riavvicinamento. Mi perdonino i lettori questo “sermone” finale.
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[1] La tesi fu tradotta in serbo e pubblicata, insieme alla versione originale in tedesco, nel primo numero dei Quaderni della Fondazione Ivo Andrić uscito nel 1982. La versione serba ebbe poi diverse ristampe come volume a sé stante (1994, 1995, 1997, 2007, 2009 e 2012), fu anche inclusa nell’opera omnia di Andrić pubblicata nel 2011. In Austria la tesi fu pubblicata nel 2008 (edizione bilingue, tedesco e serbo) e poi nel 2011 (solo in tedesco.). Esiste anche un’edizione inglese, uscita nel Regno Unito nel 1990. Ringrazio Biljana Đorđević Mironja per avermi gentilmente fornito queste informazioni.
[2] “Il motivo principale per cui scrivo anche dell’antica storia della Bosnia è che credo che le cause di questa guerra [degli anni ‘90] non affondino le loro radici nell’antica storia e che per questo sia necessario smentire tutte quelle teorie pseudo-storiche che sostengono il contrario”.
[3] “L’opera Kanun i raja (Raccolta di leggi per la raja) ci rivela, seppur parzialmente, quali erano le condizioni di quella parte della popolazione che non si era convertita all’Islam. Questo kanun comprende una serie di norme che il secondo califfo ‘Omar ibn al-Khaţțab aveva imposto ai cristiani e agli ebrei nella Damasco conquistata e che, leggermente modificate e attenuate, erano in vigore anche in altre province dell’impero turco”. (tratto dalla tesi di Andrić, edizione del 2009, p. 41).