Un'impresa pittorica dalle dimensioni epiche, in cui si riesce ad abbracciare il dramma dell'esodo nel suo complesso. All'Abbazia di Rosazzo, una mostra di Safet Zec. L'abbiamo visitata
Due polittici monumentali di Safet Zec, allestiti nella chiesa dell’Abbazia di Rosazzo, insieme ad altre sue opere esposte nell’ex tribunale di questo millenario complesso monastico, suscitano nello spettatore un vortice di emozioni e riflessioni. Zec è senza dubbio uno dei pochi artisti di spessore internazionale che credono ancora negli ideali dell’umanità e nell’impegno sociale dell’arte, anche quando il tema delle loro opere è tale da suggerire che viviamo in un mondo in cui il male prevale sul bene.
Senza tralasciare la maestria con cui è stato realizzato il ciclo Exodus, né l’impetuosa spontaneità espressiva raggiunta con l’impiego di diverse tecniche (dall’olio alla tempera, dal disegno al collage), vorrei sottolineare l’importanza del messaggio di questa mostra, più intenso e complesso di quanto suggeriscano le prime impressioni. Zec ha abbracciato l’intero dramma dell’esodo, dal più lontano passato ai giorni nostri, con un’impresa pittorica di dimensioni epiche in cui dominano i volti dei perseguitati, degli emarginati, degli ultimi. L’artista ha dato la sua personale visione della tragedia delle persone costrette a partire verso altri mondi, diversi da quello che credevano fosse loro.
Nella moltitudine dei volti, tutti dall’espressione drammatica, ci sono alcuni che suscitano emozioni particolarmente profonde. Come quello di Alan, il bambino di tre anni annegato nel 2015, la cui foto ha fatto il giro del mondo e ha commosso, così dicono, persino qualche anima dura e indifferente. Nella parte bassa di uno dei quadri che compongono il polittico, trasformato in collage con l’aggiunta di una fotografia (in cui è rappresentato il padre di Alan mentre si avvicina al corpo del figlio), Safet Zec ha disegnato una serie di puntini color sangue seguiti da un punto esclamativo e un punto interrogativo. Un’interpunzione che suggerisce alcune parole dimenticate? Forse anche la domanda: siamo ancora esseri umani o solo semplici bipedi? Non bisogna aspettarsi di trovare in questa composizione né il mare né la spiaggia. Non vi è niente e nessuno, solo il corpo di un bambino annegato, illuminato da una luce innaturale, mentre il mare sembra essersi trasformato in un muro.
Se questo è un uomo
Torno all’altro polittico esposto alla mostra, in cui Zec ha saputo unire la monumentalità della composizione degna dei maestri classici e una forza espressiva raggiunta senza alcun ricorso alla finzione: gli sono bastati uno sguardo alla Storia e la sua esperienza personale di esilio. Un solo dettaglio – un padre che tiene tra le braccia il figlio addormentato e una bambina dallo sguardo assente (chissà dove sono volati i suoi pensieri) che tiene in mano un pane – è sufficiente, credo, a svegliarci dal torpore della falsa pace in cui siamo immersi.
Se questo non è l’uomo; se queste non sono le vittime di un meccanismo che non è stato creato da nessun dio, bensì è frutto della logica del potere, del denaro e del dominio… Se abbiamo dimenticato i bisogni fondamentali dell’umanità, come la pace e il pane, in quale misura siamo ancora esseri umani? Penso che Zec sia uno di quegli artisti che, pur essendo consapevoli della limitatezza del proprio ruolo nella società odierna, credono nella forza del messaggio di un’opera d’arte carica di umanità.
L’ultimo bastione del buon senso
Nel 1973 Danilo Kiš espresse una visione dell’arte molto vicina a quella di Safet Zec. Un testo meraviglioso, indimenticabile. Kiš è come se mi avesse accompagnato, passo passo, nella visita di questa mostra. A dire il vero, non solo lui. Mi hanno accompagnato anche le immagini di tutte quelle barriere di filo spinato – dalla Turchia e Bulgaria all’Ungheria e alla Slovenia – che non sono solo barriere nazionali, ma anche europee. Sentivo parole piene di pregiudizi nei confronti dei migranti di oggi e quelli di ieri – tra i quali c’ero anch’io – che mi raggiungevano come un’eco proveniente da un tunnel senza fine.
Ma ritorniamo a Danilo. Avendo Kiš come compagno di viaggio, è possibile ignorare la verità contenuta nella sua concezione della letteratura come “l’ultimo bastione del buon senso”? Qui, nell’Abbazia di Rosazzo, di fronte alle opere di Safet Zec, diventa evidente che le parole di Kiš valgono per l’arte in generale, soprattutto in una società, quella odierna, che sembra aver smarrito ogni bussola che potrebbe aiutarla a ritrovare umanità e razionalità. L’arte contro ha un suo ruolo in questa società? Può averlo se lo desiderano l’artista e i “consumatori” della sua opera.
Con quel vortice che ha suscitato in me Exodus di Safet Zec, mi sono tornate in mente anche le parole che il vecchio Rodin rivolse agli scultori, ma che hanno un significato universale: “Immaginate le forme come puntate verso di voi. Ogni vita ha una sua sorgente e si espande dall’interno verso l’esterno […] L’essenziale è commuoversi, amare, sperare, fremere, vivere. Essere uomo prima ancora di essere artista”.
Post scriptum
Ho visto Exodus di Safet Zec quel giorno d’aprile che verrà ricordato come il giorno in cui il mondo è stato a un passo dalla terza guerra mondiale. Le navi da guerra si ammassavano sulle coste siriane, gli aerei militari sorvolavano i cieli, gli analisti facevano a gara nel prevedere possibili scenari, e i politici nel parlare a vanvera. Sopra i Colli orientali del Friuli, e sopra l’intera umanità, si ammassavano nubi pesanti e tenebrose. Il giorno prima, un mio amico d’oltreoceano mi rassicurava sull’impossibilità di un nuovo conflitto mondiale. “Una guerra mondiale? Non essere ingenuo! Non succederà finché i ricchi e i potenti guadagneranno più di quello che perdono… Funziona così da che mondo è mondo”.