Sarajevo (foto di MoDOG/Shutterstock)

Sarajevo (foto di MoDOG/Shutterstock)

I recenti fatti di cronaca, culminati con la morte di due agenti di polizia, portano a pensare che la capitale della Bosnia Erzegovina stia lentamente diventando un ghetto, preda di omicidi e furti sullo sfondo di una rassegnazione collettiva

02/11/2018 -  Ahmed Burić Sarajevo

Lo scorso venerdì mattina due poliziotti, Adis Šehović e Davor Vujinović, sono stati brutalmente uccisi a Sarajevo da un gruppo di criminali a colpi d’arma da fuoco. Per la morte dei due agenti è stata proclamata una giornata di lutto nazionale e la capitale della Bosnia Erzegovina ha reso omaggio alle vittime con cerimonie commemorative e con una massiccia partecipazione ai funerali. Tuttavia, concluse le cerimonie, l’impressione è che la situazione nella città, comprese le condizioni di sicurezza dei suoi cittadini e dei membri delle forze dell’ordine, non sia destinata a migliorare.

Sarajevo, ogni giorno e sotto ogni punto di vista, somiglia sempre di più ad un ghetto, una città dove ci si può aspettare di tutto: di vedere i propri figli aggrediti dai criminali di strada e derubati di soldi e cellulari sotto la minaccia delle armi, oppure di rimanere vittima di una sparatoria, come quella in cui hanno tragicamente perso la vita i due poliziotti.

Limitandosi ai semplici fatti, possiamo dire che i due agenti sono stati uccisi mentre cercavano di impedire un furto d’auto. Tuttavia, andando più in profondità, risulta che ha perdere la vita sono stati due uomini nel fiore degli anni, di nazionalità diversa, che cercavano di impedire un delitto contro un bene appartenente a una persona recatasi in visita a Sarajevo. L’automobile presa di mira aveva infatti una targa croata.

La forzatura delle portiere e il furto dell’auto è la “disciplina preferita” dai criminali sarajevesi sin dai tempi della guerra. Lo scenario è sempre più o meno uguale: chi arriva in città con un’auto nuova e la lascia all’aperto, può aspettarsi, nella migliore delle ipotesi, di ritrovare il finestrino rotto e l’auto saccheggiata. Nella peggiore delle ipotesi, l’auto viene rubata e, nella maggior parte dei casi, portata in Republika Srpska, da dove viene contrabbandata all’estero, oppure i criminali contattano il proprietario per richiedere un riscatto.

Un sistema che funziona quasi perfettamente e vede coinvolti praticamente tutti i livelli della criminalità: dai pesci piccoli a quelli più grossi che hanno forti legami con la polizia e la controllano con la corruzione. Ovviamente, nulla di tutto questo sarebbe possibile senza il coinvolgimento del potere politico. Questa situazione giova esclusivamente a quei politici che amano pescare nel torbido.

Forse nulla illustra meglio il cinismo e l’inefficacia della leadership al potere di una recente dichiarazione del leader del Partito di azione democratica (SDA) Bakir Izetbegović. Resosi conto che l’opposizione è determinata a formare il governo del cantone di Sarajevo senza il suo partito, Izetbegović ha dichiarato: “Dicono che l’SDA fa una cattiva politica da vent’anni, e invece noi abbiamo trasformato Sarajevo in una metropoli”.

Quanto sono ciniche le dichiarazioni di questo tipo lo dimostra il fatto che nessun rappresentante del governo ha espresso le proprie condoglianze ai familiari dei due poliziotti uccisi. Pochi giorni prima dell’omicidio dei poliziotti, nel centro di Sarajevo, a un centinaio di metri dal palazzo dove abita Bakir Izetbegović, è stato trovato il corpo senza vita di un uomo, probabilmente, per un’overdose.

A Sarajevo le morti improvvise e violente accadono quotidianamente e, a quanto pare, né il potere politico né le autorità giudiziarie, né tanto meno le forze dell’ordine sono in grado di porre fine a questa situazione.

Stando alle informazioni divulgate finora, i due membri delle forze dell’ordine (che operano sotto la direzione del ministero dell’Interno del cantone di Sarajevo) stavano svolgendo il regolare servizio di controllo del territorio, quando si sono imbattuti in un gruppo di criminali che hanno subito aperto il fuoco contro di loro. Adis Šehović è morto sul colpo, mentre il suo collega Davor Vujinović è deceduto per le ferite riportate nel pomeriggio dello stesso giorno al Centro clinico universitario di Sarajevo.

Un commento postato sui social network da una nota conduttrice televisiva esprime forse meglio di qualsiasi altra cosa il senso di impotenza, amarezza e paura che regna a Sarajevo. “Sono infinitamente triste. Ci hanno portato via tutto. La dignità, l’orgoglio, l’identità e, alla fine, la vita. Questo mondo è fatto per gli assassini e i criminali, piccoli e grandi; un mondo di vendite e acquisti; un mondo senza morale, obiettivi e direzione. Siamo smarriti, sia come individui sia come società”.

Parole che possono sembrare pesanti, ma che sono assolutamente veritiere. È proprio così che si sente la maggior parte delle persone che conosco. Alla manifestazione a sostegno della polizia di Sarajevo, organizzata da alcune organizzazioni non governative davanti al centro commerciale BBI nel centro città, hanno partecipato poche persone, circa 300, e questo la dice lunga sul clima di rassegnazione e avvilimento che si respira a Sarajevo.

La capitale della Bosnia Erzegovina, che sarebbe potuta diventare una metropoli, sta lentamente ma inesorabilmente diventando un ghetto. Un paese composto da una moltitudine di cantoni, diviso in due entità, corrotto e lasciato a sanguinare alla periferia dell’Unione europea, semplicemente non può funzionare né garantire un livello minimo di sicurezza. Questa situazione potrebbe spingere i cittadini a prendere l’iniziativa e ad auto-organizzarsi per combattere la criminalità, e questa strada porta inevitabilmente al caos che, il più delle volte, arriva dopo la disperazione.

Se dovesse verificarsi un simile scenario, le morti diventeranno un evento quotidiano e ad esserne vittime saranno le persone innocenti, come nel caso dell’omicidio di Adis Šehović e Davor Vujinović. Ma chi ha tempo di pensare alle vite umane? Il governo di certo non ce l’ha, mentre la comunità internazionale si comporta come se non le importasse più nulla di Sarajevo e della Bosnia Erzegovina.

Lasciata a se stessa, la società bosniaca non ha alcuna possibilità di progredire. Perché il ghetto è sempre sinonimo di isolamento e pericolo.