Selim Bešlagić, già sindaco di Tuzla durante la guerra degli anni '90, venne accusato di crimini di guerra dalla magistratura serba ed è stato oggetto di un mandato di cattura dell'interpol recentemente revocato. Punto di riferimento per l'attivismo civico, l'ex sindaco ci parla della Bosnia oggi, dei giovani e la politica e della sua città
Selim Bešlagić è tornato ad essere un cittadino libero. Sindaco di Tuzla tra il 1990 e il 2001, figura di riferimento delle forze civiche e progressiste della Bosnia Erzegovina in patria e all'estero, su di lui pesava dal 2007 un avviso di cattura dell’Interpol. Questo faceva seguito a un mandato d'arresto della magistratura della Serbia per crimini di guerra, emesso per i tragici fatti della “Colonna di Tuzla” del 15 maggio 1992, su cui l’ex-sindaco si è sempre dichiarato innocente (vedi box). Quel mandato – operativo in altri paesi, ma non sul territorio della Bosnia Erzegovina - è stato recentemente revocato. Bešlagić può dunque tornare a viaggiare fuori dal paese e ha vissuto per la prima volta in piena libertà l’anniversario di quei tragici e controversi eventi del 1992, ancora molto presenti nella memoria cittadina.
Bešlagić è ricordato da molti come un artefice fondamentale del cosiddetto “modello Tuzla”. Sotto la sua amministrazione la città del sale, caso raro se non unico tra le città della Bosnia Erzegovina in guerra e dopoguerra, mantenne la propria impronta multietnica e plurale, sviluppando le infrastrutture e mantenendo almeno parte del tessuto produttivo. Molto attivo nei rapporti internazionali, fu amico personale di Alexander Langer , con cui partecipò a diverse iniziative, tra Italia e Unione Europea, per difendere la convivenza e fermare la guerra.
Anche se non più in prima linea, Bešlagić è ancora sulla scena politica e rimane una voce influente nell’ambito delle forze progressiste e non-nazionaliste bosniache, tra le quali ha conosciuto momenti di grande popolarità, ma anche accesi contrasti con parti sociali e colleghi di partito. Ex-membro della Lega dei comunisti, eletto sindaco nel 1990 con l'Alleanza dei riformisti jugoslavi (il partito fondato da Ante Marković), passò poi al Partito socialdemocratico (SDP) con il quale, negli anni Duemila, fu deputato nel Parlamento dell’entità della Federazione di BiH e poi in quello statale. Nel 2014 arrivò a un passo dalla presidenza nazionale del partito, sconfitto per soli nove voti da Nermin Nikšić nell’elezione interna. Tre anni dopo, in polemica con la leadership, ha lasciato l’SDP ed è passato a Naša Stranka (Il Nostro Partito, di orientamento social-liberale), nelle cui fila siede attualmente nell'assemblea del Cantone di Tuzla.
In questa intervista per OBCT, Bešlagić parla a tutto campo, dalle prospettive del nuovo governo al futuro delle forze civiche, dal ruolo dei giovani dalla riforma costituzionale, al lavoro all’ambiente.
Dal dicembre 2019 in Bosnia Erzegovina si è insediato un nuovo governo, dopo più di un anno di stallo dalle elezioni. Può cambiare qualcosa negli equilibri del paese?
Secondo me non vi è nessuna garanzia che ci sarà un cambiamento positivo. Non voglio essere pessimista, ma penso che questo governo si sia formato sotto la pressione della questione NATO, quindi sull'accettare o meno il Piano d'azione per l'adesione all’Alleanza atlantica. Alcuni partiti che fanno parte del governo sostengono che il Piano è stato accettato, altri dicono di no. E questo dimostra quanto siano davvero comuni le posizioni dentro questa maggioranza. Al livello della Federazione di BiH [una delle due entità della Bosnia Erzegovina, ndA] un nuovo governo non è stato nemmeno formato. È rimasto quello precedente alle elezioni ed è facile prevedere che anche in futuro rimarranno al potere gli stessi partiti di ora, l'SDA e l'HDZ, con variazioni minime nei posti dei ministeri.
Dubito che ci saranno progressi. Ma il dato di fatto è che oggi in Bosnia Erzegovina il grande problema è quello dell’emigrazione, soprattutto tra i giovani, ma non solo. Non è più solo un fenomeno parziale, ma coinvolge famiglie intere. Se anche il paese raggiungesse una fase di sviluppo economico, arriverebbe a una crisi di mancanza di forza lavoro. Ormai il problema non è più se la gente ha o non ha un lavoro: i dati ci indicano che emigra anche la gente che ha un lavoro. Questo significa che si tratta di un’incertezza completa dei cittadini verso l’intero sistema. La gente non vuole più sentire storie del tipo “questi sono così, quelli sono cosà”, “ci sarà la guerra, non ci sarà la guerra”. La gente cerca certezze e garanzie di poter vivere come cittadini normali.
A proposito dei giovani, lei come vede il rapporto tra giovani e politica in Bosnia Erzegovina?
Il mio partito, Naša Stranka, ha scelto di concentrarsi soprattutto su due punti strategici: i giovani e la questione di genere. Cerchiamo di promuovere il più possibile la partecipazione delle donne e dei giovani. Qui a Tuzla cerco di convincere i giovani a non fuggire dalla politica: se non si occupano di politica, arriverà il tempo in cui la politica si occuperà di loro, prevarrà su di loro, e loro si scontreranno con se stessi, coltiveranno insoddisfazione. Questo è il nostro approccio, anche se forse non è sufficiente a creare una vera massa critica.
D’altra parte, vedo che nell’altra entità della Bosnia Erzegovina, la Republika Srpska, ci sono molti politici giovani. Però ho l’impressione che questi giovani non abbiano una visione ideologica chiara, ma semplicemente siano animati dalla protesta contro l’attuale governo della RS e dal desiderio di rovesciare il partito al potere, l’SNSD. Sarebbe invece necessario che guardassero verso l’altra entità e che trovassero, insieme a tutti i giovani della Bosnia Erzegovina, soluzioni comuni per fare uscire il paese dalla recessione.
Cosa pensa delle attuali divisioni tra i partiti civici e progressisti in Bosnia Erzegovina? C’è qualche prospettiva di riavvicinamento?
I partiti nazionalisti hanno costruito un sistema basato sulla divisione tra loro del potere. I partiti civici, da una posizione ideologica (fondata sul “mai con i nazionalisti”) si sono spostati verso la posizione di accettare di condividere il potere con i nazionalisti per “prendere il proprio pezzo di torta”, mercanteggiando per il potere. Tutte le recenti scissioni si sono originate per questi motivi: dall’SDP è uscito il Fronte Democratico (DF), poi l’Alleanza Civica (GS), poi i Socialdemocratici (SPD)...
Come Naša Stranka abbiamo aderito al “BH Blok” [una piattaforma civica che dovrebbe portare a candidature comuni per le elezioni amministrative dell’autunno 2020, che però per ora riunisce solo Naša Stranka e SDP; gli altri partiti citati in precedenza non hanno aderito o sono fuoriusciti – NdA], ma solo a condizione di non andare mai al governo con i partiti nazionalisti. Eppure dopo le scorse elezioni, alcuni partiti civici hanno ancora una volta accettato la coalizione con l’SDA [conservatori nazionalisti bosgnacchi – NdA]. Capite che gli elettori si sentono confusi…
Ormai penso che il messaggio di “riunire tutta la sinistra” sia irrealistico, e d’altronde non si sa più cosa sia la sinistra e cosa sia la destra. Quello che dovremmo fare è individuare i punti in comune prima delle elezioni, preparare un programma, e presentarci per ottenere la maggioranza relativa dei voti come coalizione. Posizionarsi in chiave puramente ideologica non è più possibile.
Negli ultimi anni abbiamo visto importanti mobilitazioni sociali attorno ai cosiddetti “casi silenziati”, su tutti gli omicidi irrisolti di David Dragičević e Dženan Memić. In queste mobilitazioni, che toccano temi fondamentali per il paese come lo stato di diritto e la situazione della giustizia, vede un potenziale per il futuro?
Costruire un’ideologia sulla base di una tragedia è difficile. Certo, se questi movimenti possono aprire la possibilità di un cambiamento nelle strutture del paese, di cui sicuramente c’è bisogno, può nascere un’energia positiva. Ma il solo fatto che la gente sia stata spinta a creare movimenti e partiti per la verità e la giustizia a seguito di una tragedia familiare, dimostra quanto sia profonda la crisi di questo paese e soprattutto del suo sistema giudiziario, che dovrebbe essere la base essenziale di uno stato. Dobbiamo costruire uno stato di diritto, e non siamo riusciti a costruirne uno sulle enormi tragedie collettive del passato: non è bastata Srebrenica, né Ahmići, né Stupni Do... Ora invece, da queste tragedie familiari si è manifestato un rigetto contro il sistema, che spinge per ottenere cambiamenti. E se questi cambiamenti dovessero arrivare, naturalmente questi movimenti sono benvenuti.
La questione costituzionale in Bosnia Erzegovina è cronicamente irrisolta, dallo stallo attorno alla sentenza Sejdić-Finci all’assenza di proposte concrete di riforma degli accordi di Dayton. Lei vorrebbe proporre un’iniziativa a riguardo. Ci spiega quale?
Su questo tema oggi ci sono due correnti. La prima, composta soprattutto dai partiti nazionalisti serbi, si oppone a cambiare Dayton, anche se in verità loro vorrebbero selezionare dagli accordi solo le parti che a loro convengono. In sostanza loro a parole dicono di volere solo Dayton, ma di fatto fanno qualunque cosa contro Dayton. La seconda, composta dai partiti civici pro-bosniaci e dai partiti nazionalisti bosgnacchi, sarebbe favorevole a modificare Dayton, cosa che però al momento non sembra fattibile.
Ci sono però delle anomalie che i partiti civici dovrebbero sfruttare. Primo, la costituzione non è mai stata validata dal parlamento statale. Secondo: non abbiamo mai avuto la versione originale e tradotta dall’inglese che dovrebbe poi essere verificata dal parlamento. Terzo: nel preambolo dell’accordo fu usata una parola che è stata tradotta e interpretata in modo sbagliato. È la parola “costituenti” [nella versione inglese originale constituent; in bosniaco-serbo-croato konstituentni], per definire i popoli costituenti della Bosnia Erzegovina: serbi, croati, bosgnacchi… ma che includerebbe anche gli Ostali [i cosiddetti “altri” non appartenenti ai tre gruppi nazionali principali, ndA]. Eppure questa è stata tradotta come “costitutivi” [in bosniaco-serbo-croato konstitutivni], che ha un’accezione più restrittiva, assolutamente incompatibile con il concetto civico di cittadinanza. Quindi sarebbe necessario avere un’interpretazione autentica e definitiva di quella parola contenuta negli accordi. Se si traduce come konstitutivni, resta tutto com’è. Se invece è konstituentni, sarebbe un concetto più inclusivo, che potrebbe cambiare le cose.
A questo punto dovrebbe esserci una certa “massa intellettuale”, pro-bosniaca, che dovrebbe fare pressione sull’Alto rappresentante e chiedergli che gli accordi di Dayton vengano davvero applicati così come sono. A quel punto l’Alto rappresentante dovrebbe indicare condizioni e scadenze precise e farle rispettare, se necessario utilizzando i “poteri di Bonn”, a cui teoricamente ha ancora diritto. E questo aprirebbe la possibilità di adottare nuove leggi e la necessità di giungere a nuovi accordi.
Uno dei problemi più gravi in Bosnia Erzegovina, e a Tuzla in particolare, è quello dell’inquinamento dell’aria. Molti contestano la grande centrale termoelettrica a carbone e le sue pesanti emissioni. Però la centrale sarà presto ampliata e vi lavorano centinaia di dipendenti. Tutto questo evoca la contrapposizione salute-ambiente-lavoro. Qual è la sua posizione?
La centrale termoelettrica ha i suoi problemi, che bisogna risolvere. Questo è sicuro. Però la politica deve occuparsi di questioni come questa in modo tecnico, non solo di tanto in tanto. Il problema, anche a Tuzla, è che mancano strategie aggiornate per le questioni ambientali, che includano piani per l’efficacia energetica e piani regolatori. Servono studi adeguati che propongano soluzioni, termini, costi. Altrimenti si fa solo propaganda che non porta a nulla.
Nel 2014 dalla mobilitazione dei lavoratori di Tuzla è partita la più grande ondata di proteste sociali nel paese degli ultimi anni. A distanza di sei anni come vede quegli eventi?
È stata una scintilla che purtroppo non ha dato grandi risultati. Allora le leadership statale dello SDP [che governava il cantone di Tuzla, ndA] commise un grave errore sfidando la piazza con arroganza. Ma la classe lavoratrice non esiste più come struttura organizzata. Quando i minatori protestano per qualcosa, chi è al potere dà un aumento minimo di stipendio e finisce lì. Ma se non si fa attenzione alla produttività e all’efficacia del lavoro, i lavoratori non hanno né forza né potere.
C’è anche qualche eccezione. Alla fabbrica di detergenti Dita, i sindacati sono riusciti a salvare la fabbrica, rilevando la proprietà e riavviando la produzione, che ora funziona. Quella è stata una buona azione, dove sindacati e lavoratori hanno davvero lottato per i propri diritti riconosciuti dalla legge. Però certo, se continuerà questo trend di emigrazione, in futuro può succedere che anche la Dita resti senza forza lavoro.
(Si ringraziano l’Associazione Tuzlanska Amica e la Fondazione Alexander Langer per la collaborazione)
La vicenda della “Colonna di Tuzla” risale al 15 maggio 1992, nel secondo mese della guerra in Bosnia Erzegovina. Quel giorno un convoglio dell'Esercito popolare jugoslavo (JNA, allora in supporto alle forze della Republika Srpska) si stava ritirando pacificamente dalle caserme della città, scortato da un contingente della Difesa Territoriale (ex-appartenenti alla JNA, rimaste fedeli al governo di Sarajevo e in procinto di diventare l'esercito della Bosnia Erzegovina), in seguito a accordi presi con l'allora sindaco Selim Bešlagić e le autorità locali.
Durante l'evacuazione, all’incrocio stradale di Brčanska Malta, partì uno scontro a fuoco. Le cause di origine dello scontro, i numeri delle vittime, e le conseguenze di ciò che avvenne quel giorno sono oggetto tutt’oggi di profonde controversie e memorie contrapposte tra istituzioni, media e associazioni nelle diverse parti della Bosnia Erzegovina e della regione. Gli ultimi atti d’accusa emessi dalla magistratura serba affermano che i soldati della JNA uccisi furono 50 - anche se altri documenti di Belgrado parlano di 92 vittime -. Dall’altra parte, nelle fonti bosniache si parla di tre morti della milizia locale e della Difesa Territoriale, e di una vittima civile.
Secondo l’accusa della procura serba, la Difesa Territoriale e la milizia locale spararono per prime, attaccando deliberatamente il convoglio della JNA. I sei imputati erano i vertici politici e militari di Tuzla, tra cui Bešlagić e l’ufficiale della polizia locale Ilija Jurišić. Quest'ultimo venne poi arrestato all'aeroporto di Belgrado nel 2007 e inizialmente condannato a 12 anni dalla giustizia serba. Il verdetto fu poi annullato nel 2010, portando a un processo-bis. In primo grado, Jurišić fu nuovamente condannato a 12 anni nel 2013, ma nel secondo e definitivo grado, nel 2016, fu assolto per insufficienza di prove.
Selim Bešlagić e gli altri imputati si sono sempre dichiarati innocenti sulla vicenda. Secondo l’ex-sindaco, fu il convoglio della JNA che iniziò a sparare su dei civili di Tuzla, e solo allora le forze locali risposero al fuoco; il bilancio sarebbe stato inoltre aggravato dall’esplosione accidentale di un camion che conteneva una cisterna di combustibile.
All’epoca la vicenda dei capi d’accusa ebbe una certa ripercussione, generando proteste nella città di Tuzla e una certa tensione sia nei rapporti politici, sia nella cooperazione giudiziaria tra Bosnia Erzegovina e Serbia. Del caso Bešlagić si parlò anche in Italia, dove l'allora deputato dei Verdi Marco Boato presentò nel 2007 una interpellanza parlamentare.
La vicenda della colonna di Tuzla è spesso trattata in parallelo a quella della via Dobrovoljačka di Sarajevo, anch’essa risalente al maggio 1992. Anche questo caso, che coinvolse tra gli altri il generale Jovan Divjak, vide dei mandati di cattura internazionali emessi dalla giustizia serba, che hanno sollevato a lungo polemiche e discussioni nell’intera regione.