Foto storica Skender Kulenović è il secondo da sinistra

Foto storica Skender Kulenović è il secondo da sinistra (wikimedia )

Il 19 agosto di 80 anni fa, sul monte Kozara, il combattente partigiano e poeta Skender Kulenović recitò la sua poesia Stojanka, la madre di Knežopolje, per ricordare ogni madre che ha perso un figlio in guerra. La vita e l'opera di uno dei più grandi poeti della letteratura slava meridionale del XX secolo

19/08/2022 -  Božidar Stanišić

“Dopo l’offensiva tedesco-ustascia sul monte Kozara del 19 agosto 1942, i novecento combattenti sopravvissuti del battaglione partigiano Kozara si misero in fila proprio in questo luogo. Conclusasi l’adunata, il combattente e poeta Skender Kulenović lesse il suo poema ’Stojanka majka Knežopoljka’ [Stojanka, la madre di Knežopolje]. Qui il 22 settembre 1942 i combattenti sopravvissuti formarono la 5° brigata Kozara“.

Queste parole sono incise su una targa apposta sul monumento di Palež, eretto nel 1982 alla memoria di Skender Kulenović e della resistenza antifascista sul monte Kozara.

I testimoni oculari sostengono che, dopo che Skender aveva letto i primi versi del poema dedicato ad una madre che “invita alla vendetta cercando i figli Srđan, Mrđan e Mlađen rimasti uccisi durante l’offensiva fascista”, la fila di soldati iniziò a ondeggiare. Le immagini della tragedia avvenuta sul monte Kozara erano ancora troppo fresche nella mente dei combattenti sopravvissuti. Skender, musulmano e comunista, vide con i propri occhi la tragedia del Kozara, rimanendone scosso nel suo intero essere. Quindi, decise di raccontare in versi la disperazione delle madri serbe, ricorrendo ad un linguaggio caratteristico dei lamenti popolari, preservandone non solo i ritornelli tragici, ma anche la speranza che una tragedia simile non si ripetesse mai più. Pertanto, la sua Stojanka incarna ogni madre che ha perso un figlio, ogni madre che crede che il Male non possa sconfiggere il bene.

Ha ragione chi sostiene che Stojanka non sia tanto un lamento poetico che parla della Disperazione e del Dolore quanto un inno alla Vita. In un’occasione Skender Kulenović affermò: “Ricordo un momento durante la stessa offensiva: sentii un forte desiderio di dire qualcosa su quanto stava accadendo, o meglio, di urlare... sempre che ne fossi uscito vivo”.

Giusto per ricordare: all’inizio del 1942 il territorio libero partigiano nella Bosnia nord-occidentale si estendeva dal fiume Drina ai monti Kozara e Grmeč. Gli abitanti di queste aree, perlopiù serbi, fortemente colpiti dai pogrom intrapresi dagli ustascia, simpatizzavano con i partigiani. I tedeschi e gli ustascia temevano che la città di Banja Luka e la miniera di ferro Ljubija potessero cadere nelle mani dei partigiani, e quindi all’inizio di giugno del 1942 lanciarono l’offensiva “West Bosnien“ con lo scopo di annientare i partigiani e i loro simpatizzanti. Le forze fasciste contavano undici ufficiali, sottufficiali e soldati della Wehrmacht, ventimila ustascia e domobrani, duemila cetnici e cinque cannoniere fluviali dell’esercito ungherese. La resistenza partigiana contava invece circa tremilacinquecento soldati, quindi dieci volte meno delle forze nemiche. All’epoca nel territorio libero di Kozara vivevano circa ottantamila civili. All’offensiva - conclusasi a metà luglio dopo una serie perquisizioni su tutto il territorio di Kozara, durante le quali circa sessantacinquemila civili, di cui quindicimila bambini, furono deportati nei lager in Croazia (un capitolo della storia che ancora oggi è oggetto di un deplorevole revisionismo storico in Croazia, ma anche di manipolazioni imperniate su un vittimismo ipocrita alimentato da alcuni storici serbi) – sopravvissero circa millecento partigiani (il film Kozara di Veljko Bulajić del 1962 è un’autentica testimonianza artistica della tragedia del monte Kozara).

Tra i sopravvissuti, che quel lontano giorno d’agosto ascoltarono i versi di Skender dedicati ad una madre serba di nome Stojanka, c’era anche Josip Mažar Šoša (1912-1944), croato, originario di Derventa, futuro comandante della 5° brigata Kozara. Rimase ucciso nei combattimenti per il controllo della città di Travnik. Tutti i suoi fratelli erano partigiani (ma questo è un tema da approfondire in un altro articolo).

Skender Kulenović nacque nel 1910 a Bosanski Petrovac da una famiglia di bey, col tempo diventata sempre più povera. Si diplomò al ginnasio gesuita di Travnik. Al terzo anno di studio scrisse una raccolta di sonetti intitolata Ocvale primule [Le primule appassite]. Poi studiò giurisprudenza all’Università di Zagabria, collaborando al contempo con diversi quotidiani e riviste. Nel 1937 a Zagabria, insieme a Hasan Kikić e Safet Krupić, fondò la rivista culturale musulmana Putokaz [Segnavia].

Nel 1941 Skender Kulenović si unì al 1° battaglione partigiano della Krajina bosniaca. Nel corso della prima seduta del Consiglio nazionale antifascista per la liberazione popolare della Bosnia Erzegovina (ZAVNOBiH), tenutasi nella notte tra il 25 e il 26 novembre del 1943 a Mrkonjić Grad, Kulevonić venne nominato segretario della ZAVNOBiH. Nonostante la guerra in corso, continuò a scrivere poesie, collaborando come redattore con i giornali Bosanski udarnik, Glas e Oslobođenje. Entrambi i suoi fratelli persero la vita durante la guerra: Muhamed, pittore, fu ucciso nel lager ustascia di Kerestinac, mentre Muzafer, atleta, morì nel campo di Batajnica, a Belgrado.

Dopo la guerra divenne direttore del Teatro nazionale di Sarajevo, partecipando alla realizzazione di tutti gli spettacoli messi in scena in quegli anni, compresi tre spettacoli dei quali firmò anche la regia: L’invasione di Leonid Leonov, L’orso di Čechov e Una colazione dal maresciallo della nobiltà di Turgenev. Per un certo periodo visse a Belgrado, lavorando come redattore delle riviste Pregled, Književne novine e Nova misao, per poi trasferirsi a Mostar dove dal 1957 al 1970 lavorò come drammaturgo presso il teatro nazionale. La moglie di Skender Kulenović, Vera Crvenčanin, fu la prima regista jugoslava. Il loro figlio, Vuk, fu un compositore, e la figlia, Biljana, si dedicò alla danza classica.

Tornato a Belgrado, Skender divenne redattore della casa editrice Prosveta, persistendo nella sua intenzione di vivere esclusivamente d’arte. Si lamentava del fatto che gli altri lavori gli facessero perdere tempo che avrebbe voluto dedicare alla scrittura. Morì il 25 gennaio 1978 a Belgrado.

Skender Kulenović è autore di numerosi poemi, poesie, drammi (Djelidba [Divisione] è la sua più celebre opera drammaturgica), saggi, critiche, racconti di viaggio, vignette, racconti (anche per bambini) e di un romanzo intitolato Ponornica [Il fiume sotterraneo]. Fu membro dell’Accademia serba delle scienze e delle arti, così come quella bosniaco-erzegovese e croata. Fu insignito di numerosi riconoscimenti per il suo impegno politico e artistico.

Anche in tempo di pace Skender seppe preservare quella capacità, sviluppata durante la guerra, di cogliere la realtà della vita concreta. Pur continuando a sperare, da ex partigiano, che nel dopoguerra si sarebbero aperte nuove prospettive di vita, fondate sull’effettiva convivenza dei popoli della Bosnia Erzegovina, era ben consapevole che sotto le ceneri di guerra covavano ancora le fiamme dell’intolleranza religiosa e delle divisioni etniche. Questa situazione lo spinse a scrivere il dramma Djelidba, che somiglia ad una commedia, ma non lo è. In estrema sintesi, quest’opera parla di un’operazione di distribuzione di aiuti umanitari in un villaggio bosniaco che sfocia in uno scontro sanguinoso tra musulmani, serbi e croati.

La prima dello spettacolo si tenne il 5 febbraio del 1948 al Teatro nazionale di Sarajevo. In un’intervista rilasciata al quotidiano Glas Srpske il 9 ottobre 2010, la moglie di Skender, Vera, ha affermato: “La prima del dramma Djelidba rimase fedele a quella satira acuta [di Skender], poi lo spettacolo venne cancellato dal programma del Teatro nazionale, dove si era tenuta anche l’anteprima. Durante la première, Rodoljub Čolaković uscì dalla sala prima della fine dello spettacolo, sbattendo la porta in segno di protesta, tutti gli impiegati di rango inferiore lo seguirono e la sala rimase semivuota, oltre agli attori sul palco e lo scrittore nel loggione che osservava il fiasco dello spettacolo. Gli attori resistettero fino alla fine, gli spettatori che non avevano prestato alcuna attenzione all’uscita di quegli impiegati dalla sala rimasero nella sala, regalando uno splendido applauso agli attori. Il giorno seguente, uno dei potenti, Đuro Pucar, disse a Skender: ‘Se non avessi saputo che eri stato tu a scrivere quell’opera, avrei pensato che l’autore fosse un nemico dello stato!’”.

Skender scrisse e pubblicò Ponornica, il suo unico romanzo, nel 1977. Invano ho più volte suggerito agli editori italiani di pubblicare questo romanzo in versione italiana, anche perché si tratta di un’opera (purtroppo) ancora attuale. Il romanzo, situato nella Bosnia dei primi anni del XX secolo, è un ampio affresco di relazioni sociali, etniche e familiari, raccontate da uno studente dell’Università al-Azhar del Cairo, alter ego dello scrittore. Talvolta, oltre alle qualità estetiche di una prosa, occorre sottolineare anche la capacità di alcune opere di spingerci a riflettere sulla cultura e la tradizione di un popolo che, in questo caso, ha tre nomi.

È inoltre curioso notare che Skender Kulenović aveva iniziato e concluso il suo percorso letterario scrivendo sonetti. Nel concepire il suo ultimo ciclo di sonetti trasse ispirazione dalla opere di Baruch Spinoza. verso la fine della vita, parlando della sua produzione poetica, disse: “Ogni mia poesia è stata preceduta da una tensione insopportabile che iniziava a ribollire dentro di me dopo qualcosa che, da un lato, era un pensiero inespresso, e dall’altro un’emozione”.

In un suo saggio dedicato a Skender, Kiš scrisse: “Skender Kulenović era un minatore della lingua [...] Nelle sue poesie, come anche nelle sue prose, sceglieva sempre la parola più dura, tirandola fuori dagli strati più profondi della lingua, dalle sue sfere lessicali più oscure, perché per lui la parola più esatta era quella che più a lungo giaceva nelle miniere della tradizione, la parola meno utilizzata, in grado di produrre il suono più acuto battendo sull'incudine della sua lingua“.

Skender morì quattordici anni prima dell’inizio della terribile Divisione, scoppiata in Bosnia nel 1992. Nell’euforia nazionalista dei “miei“, la via Skender Kulenović a Prijedor, uno dei luoghi della persecuzione e dei crimini contro la popolazione non serba, cambiò nome in via Stojanka majka Knežopoljka. Il nome Skender, un nome musulmano, evidentemente dava fastidio. Nome di un uomo e poeta che non volle ignorare la tragedia del popolo serbo nello Stato indipendente di Croazia. Successivamente, quella via tornò ad essere intitolata a Skender. A Prijedor è stato istituito anche un premio che porta il suo nome, mentre gli incontri letterari che ogni anno si volgono nella città si chiamano “Incontri sul Kozara”.

Un frammento tratto dal romanzo Ponornica

Riaffiorano le immagini tremolanti delle moschee del Cairo. Il motivo è la nostra moschea, alla quale mi sto avvicinando. Ho visto tante volte le moschee del Cairo e di Costantinopoli, da dentro e da fuori. Ora ricompaiono splendenti davanti a me, nel loro inafferrabile insieme architettonico, lasciando al contempo brillare i loro frammenti, esterni e interni alternativamente, chiari come se li avessi ritagliati e portati dentro di me: una cupola, sovrastata da un’altra, o un frammento di un arabesco interno dorato-verde-blu che, con le sue linee e i suoi colori, suggerisce una pace contemporanea e saggia. Più osservo la moschea accanto alla quale sto per passare, uscendo dalla casa di Senija, più quei ricordi si dissolvono dentro di me.

Mi tornano alla mente le parole di Tahir-bey sul destino delle religioni e delle grandi idee umane, sui loro impulsi astrali infantilmente ingenui e vetustamente rigidi, sui loro moti di caduta libera sulla terra – sulla loro parabola che, dopo un moto ascendente, fulmineo e intenso, si piega scendendo impotente verso la propria fine; si spegne su quella stessa terra da cui ha spiccato il volo, o cade da qualche parte perdendo la sua ragion d’essere, tra queste recinzioni e bagni esterni, capanni e moschee di legno della kasaba..

Mi sto avvicinando alla moschea. Il suo minareto, basso e parzialmente marcito, che si muove e scricchiola al vento (da bambino sono salito su di esso centinaia di volte), ora mi sembra penoso. Forse anche tutte le mie ambizioni, quelle già nate e quelle ancora in germoglio, finiranno così.

Avverto l’ombra della paura. In realtà, non è la paura, bensì il riflesso in una paura che provai da bambino quando una notte dovetti passare accanto a questo stesso cimitero che costeggio in questo momento e che si trova a ridosso della moschea.

Quella notte mio padre mi disse di andare da Ibrahim-bey Prorašljika per avvisarlo che il giorno successivo, del tutto inaspettatamente, si sarebbe tenuta una battuta di caccia e per chiedergli, qualora non volesse andarci, se potesse darmi la sua famosa cagna affinché io la portassi a mio padre.

Era ormai notte inoltrata, quel compito notturno affidatomi da mio padre mi fece sentire onorato, tanto che non pensai nemmeno a ciò in cui mi sarei potuto imbattere lungo il cammino verso la casa di Ibrahim-bey. E la strada mi portò a questo cimitero,

C’era un chiaro di luna, e sotto di esso, come ora sotto la luce del sole, brillavano queste stesse lapidi bianche. Nell’ombra della moschea, dei muri, degli alberi e delle lapidi stava in agguato qualcosa che compare su questo mondo solo di notte. Mi fermai davanti al cimitero, non avevo il coraggio di proseguire. Da qualche parte, qui nel cimitero, giaceva accovacciato un morto che un tempo qualcuno della nostra famiglia, forse anch’io, aveva infastidito per qualche motivo, e che, indossando una lunga camicia bianca e tenendo le catene in mano, avendomi visto, aspettava che io passassi.

Non avevo altra scelta che tornare indietro e semplicemente mentire a mio padre, dicendogli che Ibrahim-bey non poteva andare a caccia il giorno successivo e che non poteva nemmeno darci la sua cagna – perché era malata! Decisi però di proseguire il cammino, sarebbe stato tremendo se il giorno seguente mio padre avesse scoperto che ero un bugiardo e un vigliacco.

Mi incamminai costeggiando il cimitero con passo più felpato che mai e con gli occhi sgranati dalla paura, quel morto non aveva ancora saltato il muro del cimitero, ma ad un certo punto non resistetti più e iniziai a correre senza voltarmi indietro. Mi girai solo dopo aver oltrepassato il cimitero: quel morto probabilmente non era riuscito a starmi al passo (e mi aveva inseguito correndo, avevo sentito il rumore delle catene!), e mi aspetterà, sapendo che dovevo tornare per la stessa strada.

Ibrahim-bey mi disse che sarebbe venuto, e sapevo già cosa mi aspettava. Supplicavo Dio affinché Prorašljika dicesse che il giorno seguente non sarebbe potuto andare a caccia, così sarei potuto tornare in compagnia della sua cagna, perché i morti hanno paura dei galli e dei cani.

Passai accanto al cimitero, correndo e urlando selvaggiamente, coi cappelli che si drizzavano intirizziti... Ora sto sorridendo dentro di me, pensando a quella mia vecchia paura. Adesso i morti si alzano in un altro modo, facendo tremolare e dondolare le lapidi nella calura rarefatta dopo la pioggia di ieri sera. Le lapidi, quelle inclinate, ognuna in direzione diversa, e quelle poche cadute a terra, assomigliano agli ubriaconi inseguiti dalla musica fragorosa e crepitante di una banda di grilli nascosta nell’erba del cimitero. E tra i morti, rido, c’erano tanti ubriaconi, eccome. Ma tutti se ne sono andati nell’aldilà nello stesso modo, anche quelli che nel corso della vita non hanno mai nemmeno annusato un bicchierino di grappa.

In un modo che qui è uguale per tutti, scevro da qualsiasi ostentazione della morte.

Qui chiunque muoia, non ci sono né abiti neri né veli, né fiori né lacrime; il pianto resta all’interno della casa, a piangere sono le donne che non partecipano al funerale, bensì aspettano il defunto nel Jannah [il paradiso nell’Islam], come le Huri [le vergini del paradiso islamico], mentre le lacrime maschili vengono frettolosamente asciugate oppure, essendo poche, si asciugano da sole.

Alle tombe non si portano fiori, né tanto meno si accendono candele, solo due volte all’anno, in occasione dei due Bayram, gli unici due santi, ci si reca al sepolcro e, sussurrando o senza nemmeno emettere alcun suono, si invia una breve preghiera “all’anima“ del defunto.

Qui dopo la morte resta solo una bianca pietra sepolcrale, circondata dall’erba con fiori selvatici e cicale, se la neve non copre anche il sepolcro.