Sarajevo ha ricordato con due opposte manifestazioni gli incidenti della Dobrovoljačka ulica, quando l'esercito jugoslavo che si ritirava dalla città si scontrò con il neonato esercito bosniaco. La cronaca della giornata e il racconto di un testimone dei fatti del '92
Lunedì 3 maggio, una mattina tranquilla a Sarajevo. Pochi passanti, gli spazzini per strada… E' un giorno di festa, almeno per qualcuno.
Non per l’Unità speciale del ministero dell’Interno. Decine di poliziotti bloccano il traffico nelle strade, hanno i giubbotti antiproiettile, i caschi, controllano le attrezzature, oggi è un giorno importante. Sono qui per qualcosa che è successo 18 anni fa, il 3 maggio del 1992. L’Ambasciata statunitense a Sarajevo ha avvertito i propri concittadini di stare attenti e restare a casa, per via di eventuali incidenti e possibili episodi di violenza.
Il 3 maggio 1992 nel centro di Sarajevo, nella strada che si chiamava Dobrovoljačka ulica, si sono scontrati l’esercito bosniaco (Armija BiH) e l’esercito popolare jugoslavo (JNA), che si stava ritirando dalla città. Il giorno prima le forze armate serbe, nel corso di violenti combattimenti per le strade, avevano cercato invano di occupare Sarajevo e le istituzioni statali nel centro città. L’allora presidente della Bosnia Erzegovina, Alija Izetbegović, era stato arrestato all'aeroporto dai soldati della JNA, e il suo rilascio era stato condizionato alla liberazione dei soldati e degli ufficiali dell’esercito jugoslavo che si trovavano nelle caserme a Sarajevo.
Mentre la colonna dei soldati [jugoslavi] si stava ritirando dalla città, tuttavia, scoppiarono scontri nei quali morirono un certo numero di militari e ufficiali. Secondo le informazioni fornite da parte serba morirono 42 persone tra soldati e ufficiali. Milutin Kukanjac, il generale che allora comandava l’unità della JNA a Sarajevo, ha invece dichiarato alla stampa nel 2002 che quel giorno morirono 6 membri della JNA. Non esistono dati ufficiali sul numero di soldati morti quel giorno nella Dobrovoljačka ulica. Le loro famiglie però, dopo 18 anni, hanno deciso di venire a Sarajevo, in quella stessa strada, per rendere omaggio ai soldati uccisi.
Il sindaco di Sarajevo, Alija Behmen, ha invitato le autorità a vietare il raduno, considerandolo una pura provocazione politica e sostenendo che nei primi giorni di maggio del 1992 veniva difesa Sarajevo, e l’intera nazione, e non veniva commesso alcun crimine.
Circa una cinquantina tra famigliari, rappresentanti di organizzazioni non governative e delle istituzioni della Republika Srpska, hanno deciso però di recarsi ugualmente a rendere omaggio alle vittime con fiori e candele. Nella Dobrovoljačka ulica, tuttavia, non erano soli.
Non lontano dal luogo della commemorazione si sono radunati anche i veterani dell’esercito bosniaco (Armija BiH), un’ora prima degli altri, per esprimere il proprio disappunto, affermando che la manifestazione era solo una provocazione politica creata dalla Republika Srpska.
Il sindaco del comune sarajevese di Stari Grad [una delle municipalità che compongono la capitale bosniaca, ndt], Ibrahim Hadžibajrić, sul cui territorio si svolgeva la commemorazione, ha salutato i circa cento veterani dell’esercito bosniaco. Hadžibajrić ha invitato i presenti a mantenere la calma e la dignità, per non dar luogo a incidenti che avrebbero potuto minacciare la sicurezza dei cittadini.
Anche Muhamed Švrakić, presidente dell’associazione dei Berretti verdi, che riunisce i veterani dell’esercito bosniaco, si è rivolto ai presenti.
“Quelli che oggi parteciperanno alla commemorazione non conoscono né il nome né il cognome delle persone che sono morte, non c’è parità”, ha affermato Švrakić, esprimendo il proprio disappunto per il tentativo di mettere sullo stesso piano vittime e aggressori. Švrakić ha poi accusato i politici nazionali e la Procura di Stato di non fare il loro dovere, relativizzando i crimini commessi nei confronti dei cittadini di Sarajevo.
Alla fine ha invitato i veterani a tornare a casa con calma, prima dell’inizio della commemorazione alle vittime della JNA, consiglio che però non è stato seguito dai presenti.
La polizia ha quindi formato delle barricate attorno ai manifestanti, impedendo anche ai giornalisti l’accesso all'area della commemorazione.
Nella direzione opposta, scortati dalla polizia, arrivavano due autobus fermandosi a qualche centinaio di metri dal gruppo dei veterani. La strada era bloccata dalla polizia. Circa settanta persone, uomini e donne, sono scese in silenzio dall’autobus portando nelle mani fiori e candele. Hanno deposto i fiori su uno dei muretti di cinta lungo la strada, acceso le candele e si sono fatti il segno della croce. Raggiunti dai giornalisti che erano riusciti ad avvicinarsi dall'altro lato della strada, molti di loro non hanno voluto rilasciare alcuna dichiarazione.
Gordana Gvozdenović teneva tra le mani la fotografia del fratello Obrad. “Mio fratello è morto nella Dobrovoljačka ulica”, ha dichiarato Gordana a Osservatorio Balcani e Caucaso. “Aveva 24 anni, era ufficiale nella JNA. Sono stata io a identificarlo a Belgrado, nel 1992.”
“È la prima volta che vengo qui. Solo chi ha perso qualcuno sa come mi sento in questo momento” continua Gordana, tra le lacrime, mentre un centinaio di metri più in là tra lei e i veterani di guerra bosniaci c'è il cordone dalla polizia.
Nessuno dei presenti ha detto una parola.
Dopo la commemorazione, in meno di dieci minuti, i due autobus scortati dalla polizia hanno lasciato la città. Quella stessa città che è stata 1450 giorni sotto assedio, senz’acqua, elettricità e cibo. La città che ha avuto 10.000 vittime, tra cui circa 1.500 bambini, per la prima volta dopo 18 anni si trovava di fronte a un passato che molti non possono accettare.
Il primo marzo scorso, all’aeroporto londinese di Heathrow, nel giorno dell’Indipendenza della Bosnia Erzegovina, è stato arrestato un ex membro della presidenza di guerra bosniaca, Ejup Ganić, sulla base di un mandato d’arresto emesso dal governo serbo proprio a causa degli eventi della Dobrovoljačka ulica. A Londra, Ganić contesta la legittimità della richiesta mossa dalla giustizia serba. La Procura della Bosnia Erzegovina ha affermato che è in corso un’inchiesta sul caso, e richiede la consegna dell’ex membro dell'ufficio di presidenza alle autorità bosniache.
Il Tribunale dell’Aja però, che ha condotto un'indagine sulla questione, ha deliberato che l’assalto alla JNA nella Dobrovoljačka ulica è stato un ordinario scontro tra due eserciti.
Kadrija Škrijelj, già alto ufficiale dell'Armija BiH, aveva partecipato attivamente agli scontri del 2 e 3 maggio a Sarajevo. In qualità di comandante di una delle unità dell’esercito bosniaco, Škrijelj ricorda quei giorni con orgoglio, ma a suo avviso ora si deve dare la possibilità alle famiglie delle vittime di visitare il posto dove i loro cari hanno perso la vita.
“Io come uomo, come abitante di questa città che ho difeso sin dal primo giorno, non posso dire alle famiglie di non venire qui, loro devono poter venire e rendere omaggio ai propri cari. Questi fatti però non possono essere politicizzati come nelle intenzioni degli organizzatori.”
L’ufficiale, ora presidente dell’associazione “Unione patriottica del Cantone di Sarajevo”, si chiede perché questa visita si svolga ora, 18 anni dopo il triste episodio della Dobrovoljačka ulica, e proprio nell’anno delle elezioni. Il suo parere è che una politicizzazione inutile di questi fatti crei tensioni, e che le famiglie delle vittime sono le benvenute a Sarajevo, ma senza manipolazioni politiche.
“Ho visto ieri il cordone formato da 500 poliziotti che proteggevano la riunione. Se le cose non fossero state politicizzate, e le famiglie delle vittime fossero venute da sole, non ci sarebbe stato bisogno nemmeno di 5 poliziotti”, ci dice Škrijelj.
L'ufficiale, che ha partecipato personalmente ai fatti di quella giornata, ritiene che nella Dobrovoljačka ulica non siano morti più di 6 soldati.
“Erano 5 uomini e una donna, solo una vittima era della Bosnia Erzegovina, le altre dalla Serbia. Un soldato di Han Pijesak ha sparato sui sarajevesi dalla colonna in ritirata, e noi abbiamo risposto con il fuoco”.
Il processo di pacificazione in Bosnia Erzegovina è troppo lungo e debole: negli ultimi 18 anni non c’è stata volontà da parte dei politici di partecipare attivamente alla pacificazione dei popoli che qui hanno convissuto per anni. “Non sono rari i casi di manipolazione delle vittime e l’utilizzo della retorica del pericolo, la paura come modo più semplice per conquistare il potere”, dichiara Besim Spahić, professore di comunicazione presso la facoltà di Scienze Politiche a Sarajevo. Secondo il professore la retorica nazionalista, soprattutto prima delle elezioni, dovrebbe essere sostituita da concreti programmi economici per uscire dalla crisi, e per risolvere i problemi reali dei cittadini della Bosnia Erzegovina mezzo milione dei quali sono disoccupati.
Secondo Spahić, “la guerra è di per sé un male, ma la sua interpretazione può esserlo ancora di più”.